Cronaca Nera

Sollecito al veleno: “I magistrati? Dovrebbero provare il carcere”

Dall’interrogatorio di Amanda Knox con la “poliziotta medium” al campione di sperma mai analizzato: Raffaele Sollecito torna sul delitto di Perugia e accusa apertamente inquirenti e giudici. “Se quella traccia fosse stata attribuita subito a Guede, tutto sarebbe finito in due giorni”. E su Garlasco: “La tecnologia può ribaltare verità costruite male”

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    Il tono è pacato, ma le parole tagliano. Raffaele Sollecito è seduto nel salotto di “Pulp Podcast”, accanto a Fedez e Mr. Marra, e racconta senza giri di parole cosa significhi finire in cella da innocente. “Quattro anni dentro – dice – sono un’esperienza che ti marchia. Ma forse servirebbe anche ai magistrati. Per capire chi davvero si trova dietro le sbarre”. Una frase che suona come una sfida, una vendetta fredda, servita con anni di ritardo.

    Era il 6 novembre 2007. Raffaele aveva appena 23 anni, una tesi di laurea da discutere e una relazione fresca con Amanda Knox. Il giorno dopo, si ritrova in stato d’arresto, accusato dell’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. “Avevo la coscienza pulita – dice ora – e mai avrei immaginato di finire in quell’incubo. La notte prima dell’arresto avevo fumato un po’ di erba, Amanda era fragile. Ma da lì in poi si è attivato un tritacarne.”

    Secondo la ricostruzione iniziale, un gioco erotico a tre sarebbe degenerato in tragedia. Una storia che oggi fa acqua da tutte le parti. Eppure, bastava forse un’analisi del DNA sul cuscino della vittima per chiudere tutto subito. “C’era sperma. Non lo analizzarono. Disse qualcuno che era ‘vecchio’. Se avessero accertato subito che era di Rudy Guede, io e Amanda saremmo stati fuori in due giorni.”

    Guede, unico condannato per quell’omicidio (con rito abbreviato, 16 anni), ha lasciato dietro di sé una scia di errori giudiziari che ancora oggi grida vendetta. “Il vero errore – dice Sollecito – è stato concedergli il rito abbreviato. Io e Amanda volevamo discutere le prove. Ma lui ha avuto il vantaggio, e noi il patibolo”.

    La parte più disturbante del racconto? Gli interrogatori. Amanda, ricorda Sollecito, crollò dopo ore di pressioni psicologiche. “Fu una poliziotta, che si definiva medium, a suggerirle il nome di Patrick Lumumba, completamente estraneo. Amanda era nel panico. Quel giorno cominciò l’orrore.”

    Anche a distanza di anni, la narrazione ufficiale resta contaminata. Nonostante l’assoluzione definitiva arrivata solo nel 2015, l’immagine pubblica di Sollecito rimane opaca, schiacciata da anni di titoli, processi mediatici, sospetti. “È una condanna che non finisce con la sentenza. È qualcosa che ti resta appiccicato addosso.”

    Non è un caso, forse, che Sollecito citi proprio il delitto di Garlasco come esempio del potere della tecnologia nel ribaltare verità scomode. “Oggi, con i nuovi strumenti, si possono rileggere casi come il mio. E non è un dettaglio. È un dovere.”

    Poi torna a parlare di carcere, e di cosa ha imparato. “Lì dentro vedi l’umanità che la società vuole dimenticare. Ma sono lo specchio di quello che siamo. Dei nostri fallimenti, delle nostre ipocrisie.” Una riflessione amara, profonda. E anche un’accusa: “Chi decide la vita degli altri dovrebbe passarci, anche solo un mese. Per capire.”

    Sulle ultime parole cala il silenzio. Nessuna retorica, nessuna autocommiserazione. Solo l’amarezza di chi ha conosciuto il fondo, e da lì guarda in su, chiedendosi chi ci sia davvero a tirare i fili della giustizia.

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