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Pandorogate, la sentenza attesa a gennaio 2026: dopo l’arringa della difesa Chiara Ferragni aspetta il verdetto

Nel procedimento sul cosiddetto Pandorogate la Procura di Milano ha chiesto un anno e otto mesi per Chiara Ferragni. Il giudice ha riconosciuto la Casa del Consumatore come parte civile, confermando il diritto dei consumatori a chiedere un risarcimento. Al centro del processo le campagne legate al Pandoro Balocco “Pink Christmas” e alle uova Dolci Preziosi, il confine tra marketing solidale e truffa e il ruolo degli influencer nella fiducia del pubblico.

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    La sentenza è attesa per gennaio 2026. Nel Tribunale di Milano il cosiddetto Pandorogate è arrivato al suo passaggio decisivo: l’udienza dedicata all’arringa della difesa di Chiara Ferragni, che si è svolta a porte chiuse ma sotto i riflettori dell’opinione pubblica. L’influencer è imputata in rito abbreviato per truffa aggravata, con una richiesta della Procura di un anno e otto mesi di reclusione, già ridotti proprio grazie al rito scelto. Ora il procedimento entra nella fase conclusiva, in cui il giudice dovrà tirare le fila di un caso che va oltre i singoli panettoni griffati.

    Un processo simbolo per l’influencer economy

    Quella che si è chiusa nell’aula meneghina non è stata una semplice udienza tecnica, ma un passaggio simbolico per l’ecosistema dell’influencer marketing. Il Pandorogate è diventato il paradigma di una domanda destinata a pesare anche in futuro: fino a che punto un’operazione commerciale che richiama la beneficenza può giocare sulle emozioni dei consumatori senza oltrepassare il confine del messaggio ingannevole? La risposta, stavolta, non arriverà da un algoritmo o da una campagna social, ma da una sentenza penale.

    La linea della Procura: consumatori fuorviati e profitti indebiti

    Secondo la ricostruzione della Procura di Milano, tra il 2021 e il 2022 milioni di consumatori sarebbero stati indotti a credere che l’acquisto diretto del Pandoro Balocco “Pink Christmas” e delle uova Dolci Preziosi fosse legato in modo immediato e proporzionale alla beneficenza. Il meccanismo comunicativo – sostengono i pm, anche sulla base degli accertamenti della Guardia di Finanza – avrebbe creato l’idea che più si comprava, più si donava. In realtà, secondo l’accusa, né il prezzo – raddoppiato rispetto al prodotto standard – né il numero delle vendite avrebbero inciso sull’entità effettiva delle donazioni. Il cuore del processo, quindi, non è solo economico: riguarda la fiducia. Cosa è stato fatto capire al pubblico? E quanto questo coincideva con la realtà dei contratti e dei bonifici?

    Dentro le mail interne: il nodo delle risposte “non troppo precise”

    A rendere più delicato il quadro ci sono le mail interne richiamate nelle carte dell’accusa. In quei messaggi, secondo quanto riportato, si farebbe riferimento alla necessità di evitare risposte troppo dettagliate a chi chiedeva che quota del prezzo del pandoro o delle uova finisse in beneficenza. Per i pm questo tassello concorre a delineare un modello di comunicazione “fuorviante”, strutturato per non chiarire fino in fondo il rapporto tra prodotto acquistato e donazione finale. Da qui la contestazione di presunti profitti indebiti, quantificati in circa 2,2 milioni di euro. Per la difesa, invece, quelle email sarebbero parte di un contesto più ampio, fatto di scambi e aggiustamenti di comunicazione che non possono essere letti automaticamente come la prova di un disegno preordinato di inganno.

    La strategia difensiva di Ferragni: buona fede e beneficenza reale

    In aula gli avvocati di Chiara Ferragni hanno ribadito il punto chiave della loro linea: la buona fede. La tesi è che non ci sia mai stata la volontà di raggirare chi comprava il pandoro o le uova, ma la scelta di legare operazioni commerciali a una componente solidale reale, forse comunicata in modo non perfetto ma non costruita per trarre in inganno. La difesa insiste sul fatto che le donazioni siano comunque arrivate, che il legame con la beneficenza non fosse fittizio e che eventuali criticità sul piano della trasparenza vadano lette come errori di comunicazione, non come reato penale.

    In questo quadro viene ricordato anche il gesto successivo dell’influencer, che ha donato complessivamente 3,4 milioni di euro. Per la Procura è un elemento neutro rispetto alla responsabilità: il diritto penale, spiegano i magistrati, valuta i comportamenti al momento dei fatti, non le iniziative riparatorie successive. Per la difesa, però, è un segnale del rapporto reale tra Ferragni, i temi sociali e il mondo della beneficenza, che andrebbe considerato nel giudizio complessivo sulla sua condotta.

    Consumatori al centro: la Casa del Consumatore resta parte civile

    Sul fronte dei consumatori è arrivato un passaggio importante. Il giudice ha respinto la richiesta della difesa di escludere la Casa del Consumatore come parte civile, riconoscendole il diritto di restare nel processo e di chiedere un eventuale risarcimento. È un tassello che pesa, perché certifica che la vicenda non riguarda soltanto la reputazione di Chiara Ferragni o i rapporti tra marchi e influencer, ma anche un presunto danno collettivo subito da chi ha comprato quei prodotti convinto di contribuire direttamente a una causa benefica.

    La presenza dell’associazione in aula rende ancora più chiaro il terreno su cui si gioca il Pandorogate: la tutela di chi acquista, la trasparenza delle campagne solidali, la possibilità per le organizzazioni dei consumatori di intervenire quando percepiscono una frattura tra messaggio pubblicitario e realtà dei fatti.

    Verso la sentenza: gennaio 2026 come data chiave

    Lo scenario temporale è delineato. Dopo l’arringa della difesa, il fascicolo si avvia verso la sentenza, attesa per gennaio 2026. In quella data il giudice dovrà sciogliere il nodo principale: le campagne legate al Pandoro Balocco “Pink Christmas” e alle uova Dolci Preziosi sono state soltanto operazioni di marketing mal calibrate o hanno superato il limite, trasformandosi in un raggiro ai danni dei consumatori?

    La risposta avrà conseguenze immediate per Chiara Ferragni, ma anche un effetto domino sul mondo dei brand personali, delle collaborazioni commerciali e delle iniziative “charity” lanciate online. Perché questo processo, al di là dei nomi coinvolti, mette a fuoco un punto cruciale: quanto vale la parola di chi parla ai consumatori non solo come testimonial, ma come “amica” e punto di riferimento quotidiano sui social.

    In un ecosistema in cui la reputazione è moneta, il verdetto sul Pandorogate sarà più di una sentenza penale. Sarà uno spartiacque tra il prima e il dopo nella relazione tra influencer, aziende e pubblico. E, nel rumore del web, il fatto che a decidere sia un giudice – e non una strategia di comunicazione – resta il dato più significativo.

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