Sonar: tra suoni e visioni
Eric Clapton a Milano: due serate, una chitarra, mille leggende. Noi ci saremo!

Una delle leggende viventi del rock a 6 corde, Eric Clapton, torna in Italia per due concerti il 27 e 28 maggio 2025 all’Unipol Forum di Assago. Con una scaletta che attraversa oltre mezzo secolo di carriera, Slowhand promette due serate memorabili a base di blues e rock.
Il blues atterra a Milano… ma niente paura, è solo Clapton
Quando Eric Clapton mette piede in Italia, non è solo un evento musicale: è una lezione di storia della musica condensata in due ore, senza voti, ma con un plebiscito di applausi. Stasera e domani l’Unipol Forum di Assago ospita il ritorno del leggendario chitarrista britannico, dopo il sold-out del 2024 al Lucca Summer Festival. Due date, una sola certezza: Clapton non suona per stupire, suona perché ne ha bisogno. E chi ascolta, ne esce sempre un po’ cambiato.
La probabile scaletta
La setlist è una cavalcata dentro al cuore pulsante della musica del Novecento: White Room, Sunshine of Your Love, Tears in Heaven, Wonderful Tonight e Cocaine sono solo alcune delle tappe di questo viaggio. Un mix di successi solisti, classici blues e brani iconici dei Cream, dei Blind Faith e dei Derek and the Dominos. E se il bis sarà Before You Accuse Me, nessuno avrà nulla da ridire. Anzi, semmai lo accuseranno di essere troppo bravo.
Visti i concerti recenti all’estero, è lecito ipotizzare questo show:
- White Room
- Key to the Highway
- I’m Your Hoochie Coochie Man
- Sunshine of Your Love
- Kind Hearted Woman Blues
- Golden Ring
- Nobody Knows You When You’re Down and Out
- Can’t Find My Way Home
- Tears in Heaven
- Badge
- Old Love
- Wonderful Tonight
- Cross Road Blues
- Little Queen of Spades
- Cocaine
- Before You Accuse Me (bis)
Una superband che più “super” non si può
A rendere ancora più prezioso questo ritorno live è la formazione che accompagna Clapton sul palco: Nathan East al basso (un’altro musicista leggendario), Doyle Bramhall II alla chitarra (compagno di lunga data), Chris Stainton e Tim Carmon alle tastiere, Sonny Emory alla batteria e due voci femminili potenti ma eleganti, Sharon White e Katie Kissoon. Un ensemble che non fa da cornice ma che è parte integrante del quadro.
L’uomo che ha fatto delle 12 battute una missione
“Suonare il blues rispettando le regole”: così Clapton descriveva il suo approccio alla musica. E in tempi in cui tutto è remix, autotune e algoritmi, lui resta fedele alle dodici battute e alle emozioni nude. L’unico ad essere stato inserito tre volte nella Rock and Roll Hall of Fame, Clapton continua a salire sul palco con l’umiltà di chi sa di avere ancora qualcosa da dire, ma senza bisogno di urlarlo.
Mezzo secolo di musica e un cuore ancora pulsante
Dal suo esordio con gli Yardbirds ai Cream, dai Bluesbreakers a Layla, fino alla voce rotta di Tears in Heaven, Clapton ha attraversato i decenni come un fiume tranquillo e profondo. E ora che torna a Milano, sembra quasi volerci ricordare che la grande musica non invecchia, non scompare, non si adatta: semplicemente resta.
Chi ama la chitarra non può mancare. Chi non l’ama… la amerà
Due concerti, un solo invito: lasciarsi trasportare. Clapton non ha bisogno di effetti speciali o pirotecnica da stadio. Basta il suono delle sue dita sulle corde per riscrivere la serata. Milano si prepara ad accoglierlo con rispetto, affetto e – inutile negarlo – anche un pizzico di nostalgia. Ma sarà una nostalgia felice, quella che nasce solo quando la musica è davvero eterna.
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Sonar: tra suoni e visioni
Tra rock e blues, la doppia lezione di musica da parte del Professor Clapton
Eric Clapton e il blues che non dimentica: stile inglese e anima a stelle e strisce sul palco di Milano per due show consecutivi.
Il Forum di Assago diventa cattedrale sonora: il maestro della chitarra racconta mezzo secolo di musica senza una parola di troppo.

Milano ha accolto un Eric Clapton in stato di grazia, nonostante i suoi 80 anni portati con eleganza e sobrietà, in due serate che sembrano uscire dal vinile più prezioso della sua collezione. Il chitarrista inglese ha offerto al Forum di Assago un doppio concerto che è stato molto più di un semplice live: un viaggio attraverso la sua storia, tra raffinatezza rock d’Oltremanica e blues dal sapore polveroso del Delta del Mississippi.

In un equilibrio costante tra compostezza britannica e ferocia emotiva, Clapton ha suonato come chi sa che il vero spettacolo non ha bisogno di artifici ma solo di verità. Alla sua età e dopo tre date consecutive alla Royal Albert Hall, “Slowhand” ha dimostrato che l’eleganza può anche gridare. Con la sua Fender Stratocaster tra le mani, ha guidato una band di veterani in un flusso musicale senza interruzioni, lasciando che fosse il suono a raccontare ciò che le parole non riescono ad esprimere.
80 voglia (ancora) di Eric
Tre minuti prima dell’orario ufficiale, le luci si spengono. Il pubblico del Forum trattiene il fiato, sapendo bene cosa presagisce quel buio. Nessun annuncio, nessuna introduzione. Sul palco sale Clapton, completo blu notte, sguardo basso, passo deciso. Un vero e proprio boato lo accoglie, come si confà ad una leggenda come lui. Al seguito una formazione collaudata: le storiche Sharon White e Katie Kissoon ai cori, il fedele Nathan East al basso, Tim Carmon e Chris Stainton alle tastiere, Doyle Bramhall II alla chitarra ritmica (ma che in alcuni momenti sfodera assoli degni del “capo”) e Sonny Emory alla batteria. Il primo accordo di “White Room” rompe il silenzio come un tuono controllato. È subito piena potenza: la voce della chitarra si impone, scolpisce lo spazio, il Forum si trasforma in una sala d’ascolto collettiva. Ogni nota è nitida, ogni pausa ha un senso.
Blues autentico, senza fronzoli
Il secondo brano è già una dichiarazione di intenti: “Key to the Highway” immerge tutti nelle radici afroamericane del blues. Il suono arriva ai presenti caldo, viscerale, costruito su intrecci di strumenti che si conoscono da anni. Clapton dirige senza mai imporsi, ogni musicista ha il proprio momento di gloria. La band diventa un unico corpo sonoro che respira, pulsa, cammina insieme. Poi arrivano le pietre miliari: “I’m Your Hoochie Coochie Man” e la sempreverde “Sunshine of Your Love”, che farebbe saltare in piedi chiunque. Tra il pubblico, si scorgono padri con figli, fan dai capelli bianchi e dalle stinte t-shirt, ragazzini incantati: l’effetto Clapton supera generazioni, mode e algoritmi.
Il set acustico, magia unplugged
Clapton si siede, imbraccia l’acustica e il concerto cambia pelle. “Buona sera Milano”, dice con un sorriso appena accennato. La luce si fa più morbida, il suono più intimo. “Kind Hearted Woman Blues” e “Nobody Knows You When You’re Down and Out” non sono solo cover, ma confessioni. La sua voce, leggermente velata, vibra in una dimensione sospesa tra fragilità e verità. Quando arriva “Can’t Find My Way Home”, è Nathan East a cantare, in falsetto. Una scelta azzeccata che rinfresca l’atmosfera, preludio perfetto alla commovente “Tears in Heaven”, dedicata alla scomparsa di suo figlio Conor. Non c’è enfasi, non c’è pietà: solo una melodia che racconta un dolore privato diventato universale. L’arrangiamento quasi reggae dona un tocco di leggerezza, come un respiro nel mezzo del pianto.
Terzo atto: ritorno all’elettrico e dichiarazioni mute
Clapton cambia ancora. Lo si vede imbracciare una chitarra colorata di nero, bianco, rosso e verde, chiaro riferimento alla bandiera palestinese. Un gesto silenzioso, eppure potentissimo, che il pubblico accoglie con un boato. Non servono proclami: è la musica a parlare, come sempre. “Badge” riporta il Forum nei territori dei leggendari Cream, con una lunghissima “Old Love” il tempo sembra fermarsi. Il brano si dilata, diventa liquido, Carmon si prende la scena con un assolo alle tastiere che ricama armonie sull’aria. È un momento di pura alchimia, vero ipnotismo sonoro.
Poi è il turno di “Cross Road Blues” e “Little Queen of Spades”, due inni al blues elettrico, con chitarra e tastiera che dialogano come vecchi amici al bar. L’intesa è perfetta, e l’effetto finale è di un’intensità quasi cinematografica.
Il congedo: meno parole, più sostanza
Quando parte “Cocaine”, il Forum esplode. Il brano, firmato da J.J. Cale (non mi stanco mai di ripeterlo… visto che ancora qualcuno pensa che l’abbia firmata Clapton…), viene eseguito con rigore e passione, senza eccessi, come se fosse la prima volta. La band si congeda per un attimo, poi torna per un bis tanto atteso quanto misurato: “Before You Accuse Me”. Clapton non saluta, non fa discorsi, ringrazia appena. Si limita a un cenno con la mano e a un sorriso: la musica ha parlato per lui.
Una lezione di stile e sostanza
Qualcuno esce dal Forum chiedendosi dove sia finita “Layla”. Ma Clapton, ormai da anni, ha deciso di lasciarla fuori dalle sue scalette. È una scelta da rispettare, come tutto il resto. Qualche incertezza alla voce, qualche fraseggio non perfetto… hanno reso il tutto ancora più umano ed espressivo. Chi cerca la spettacolarizzazione resta a mani vuote; chi ha ascoltato davvero, invece, torna a casa con una lezione nel cuore: quella di un uomo che ha fatto della sobrietà sonora una dichiarazione d’identità. Eric Clapton non è solo un chitarrista. È un cantastorie del suono, un testimone silenzioso di ciò che resta della buona musica, quando tutto il ciarpame passa.
Sonar: tra suoni e visioni
Per fare certe cose ci vuole orecchio! E Trump mostra di non possederlo

Di The Donald si è detto tutto: twittomane compulsivo, amante del golf nei momenti meno opportuni, esperto di bugie proferite con la disinvoltura di un frequentatore da karaoke. Ma c’è una colpa che passa spesso inosservata: Mister President non capisce nulla di musica! E no, non è un dettaglio. Per chi guida la superpotenza mondiale, questa lacuna suona come una nota stonata nella sinfonia democratica. Perché la musica racconta chi sei. Mentre Barack Obama pubblicava ogni anno la sua Summer Playlist – un raffinato assemblaggio di jazz, soul e hip hop – Trump produce solo… rumore. E non quello creativo.
Obama DJ, Trump disturbatore
Le playlist di Obama? Eleganza pura: Marvin Gaye, Beyoncé, Erykah Badu, Rolling Stones e perle indie. Il tutto servito con stile, messaggi sottili e una capacità rara di apparire “cool” senza sforzo. Ogni brano da lui selezionato parlava di un’America inclusiva, complessa e affascinante. Trump, invece, ha scelto un’altra via: quella del silenzio musicale (ma non verbale). A parte l’uso discutibile di brani di artisti che lo detestano con tutta l’anima – da Neil Young a Bruce Springsteen – non esiste una vera “colonna sonora trumpiana”. Solo slogan, tamburi da comizio e il volume al massimo.
Ignorare la musica è una scelta politica sbagliata
Si può governare senza passione musicale? Forse. Ma ignorare il potere comunicativo delle note è un’occasione sprecata. La musica crea ponti, evoca emozioni, racconta storie. Obama lo sapeva: il suo non era marketing, era empatia. Trump, invece, ha scelto di non ascoltare. Letteralmente. E governare senza ascolto – musicale o sociale – è come dirigere un’orchestra bendati. Oltretutto senza essere Von Karajan…
Entrambi born in the USA… ma non dalla stessa parte
Se la politica è teatro, Trump e Springsteen sono gli attori di una tragicommedia americana. Da una parte il Boss del rock, voce delle periferie e icona progressista; dall’altra, il tycoon-presidente con lo smartphone sempre in mano. Tra i due non corre buon sangue. E nemmeno buona musica. Lo scorso 14 maggio, Springsteen ha aperto il tour europeo a Manchester con un attacco frontale: «L’America è in mano a traditori dei suoi valori». Il video ha fatto il giro del web. E ha raggiunto Mar-a-Lago a tempo di record.
“Prugnone del rock”: Trump risponde a suon di insulti
La replica? Su Truth Social, ovviamente. Trump ha definito Bruce Springsteen un “prugnone del rock” (sì, davvero) e lo ha accusato di essere il pupazzo di Biden. Ha anche insinuato che abbia ricevuto finanziamenti occulti da Kamala Harris. Prove? Nessuna. Indagini? Zero. Fantasia? Infinita.
Satira da cartone animato: golf e GIF
Il momento più surreale? Un video fake in cui Trump colpisce una pallina da golf che vola e fa cadere Springsteen sul palco. Un classico della sua propaganda digitale: umorismo slapstick alla Looney Tunes. La reazione del pubblico? Tra indignazione e imbarazzo collettivo.
Due visioni dell’America
Oltre agli insulti resta una verità: Trump e Springsteen rappresentano due Americhe inconciliabili. Bruce canta delle contraddizioni del suo Paese, Trump le amplifica a colpi di slogan. Uno suona la chitarra, l’altro martella la tastiera del telefono. Uno cerca empatia, l’altro volume.
La musica come opposizione
Il Boss è, da sempre, la colonna sonora della coscienza progressista americana: contro la guerra, il razzismo, l’ingiustizia. Trump, al contrario, non riesce a trovare nemmeno un artista disposto a condividere un palco con lui. La cultura pop lo rigetta. E la musica diventa campo di battaglia politico. Una faida, quella fra i due, esilarante sì… ma anche profondamente simbolica. È la prova che la musica, negli Stati Uniti, può ancora dividere e far riflettere. In un’America polarizzata, anche un brano può diventare una bandiera. Chi vince? Forse nessuno. O forse Springsteen, che ricorda al mondo che la libertà vera si canta… non si urla.
Perchè ci vuole orecchio
bisogna avere il pacco
immerso, immerso dentro al secchio,
bisogna averlo tutto,
anzi parecchio…
(Enzo Jannacci)
Sonar: tra suoni e visioni
Trump contro le popstar: invece che progredire, l’America retrocede

Altro che Russiagate o crisi internazionali: la nuova emergenza degli Stati Uniti si chiama…Beyoncégate. Donald Trump, tra un tweet notturno e un caffè mattutino con Truth Social, ha annunciato urbi et orbi che chiederà una “grande, bellissima, mai vista prima” indagine federale su… Beyoncé, Bruce Springsteen e Bono. No, non è una nuova boy band (grazie al cielo), ma il trio che, secondo il presidente più showman della storia, avrebbe osato sostenere Kamala Harris senza passare dal via e senza versare il dovuto al Monopoli della Legalità Elettorale.
Endorsement truffa a 7 note
“È una truffa elettorale, illegale ai massimi livelli!” ha tuonato Trump alle 1:34 del mattino – l’ora perfetta per i grandi annunci e le piccole vendette. A quanto pare, Beyoncé avrebbe intascato 11 milioni di dollari per non cantare neanche una nota. Altro che Halo, qui siamo al livello FBI-Interrogatorio-Lampada-in-faccia. E Bruce Springsteen? Colpevole di aver suonato Born to Run troppo vicino a un palco pro-Harris. E Bono? Non è chiaro, ma è irlandese, quindi sospetto a prescindere.
Tremate, la caccia alle streghe è tornata
Trump, che un tempo invitava Kanye West nello Studio Ovale come altri offrono un caffè, ora vede ovunque complotti musicali. Chi ha ballato Crazy in Love nel 2012? Indaghiamo. Chi ha cantato With or Without You sotto la doccia mentre pensava a Joe Biden? Mandiamo la CIA! Nel mirino anche Oprah, che avrebbe ricevuto ben un milione di dollari per moderare un evento pubblico. Una cifra che, nel mondo reale, basta giusto per farle dire “You get a car!” una volta e mezza. Ma Trump la considera una spesa sospetta, quasi come i suoi conti con Stormy Daniels.
L’ossessione di The Donald
I media, da The Guardian al New York Times, hanno riportato con una certa perplessità le dichiarazioni del presidente, che ormai sembra vedere pagamenti illeciti ovunque: in un palco, in un microfono, in una paillettes del vestito di Beyoncé. La Federal Election Commission ha chiarito (di nuovo) che pagare legalmente una celebrità per apparire a un evento non è reato, purché venga dichiarato. Ma la realtà, come sempre, è un optional.
Benvenuti alla sagra del cattivo gusto
Quello che è certo è che il “Trump contro le popstar” sta diventando la saga politica più trash del decennio. Un mix tra House of Cards e gli MTV Music Awards, con l’aggiunta di una spruzzata di Beautiful. Perché chi ha bisogno di prove, quando hai la convinzione, il CAPS LOCK e la voglia di fare tendenza su Truth Social?
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