Sic transit gloria mundi

Addio a Ace Frehley, lo “Spaceman” dei Kiss: il mio supereroe con la chitarra che sapeva volare

Con il suo trucco da “Spaceman”, le chitarre che fumavano e i razzi che partivano dal manico, Ace ha trasformato il rock in spettacolo e magia. Lascia un’eredità di suoni, coraggio e umanità: quella di un uomo che ha saputo salvarsi e far sognare milioni di ragazzi.

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    Ci sono artisti che non si limitano a suonare: accendono un immaginario. Ace Frehley era uno di questi. Per chi è cresciuto tra gli anni Settanta e Ottanta, lui non era solo il chitarrista dei Kiss, ma un supereroe in carne e ossa, uno di quelli che scendevano dal palco avvolti nel fumo, con la chitarra che sputava fuoco e gli occhi pieni di stelle. Lo chiamavano The Spaceman, l’uomo venuto dallo spazio, ma in realtà veniva dal Bronx, con una Gibson in mano e un sorriso timido dietro il trucco argentato.

    Ace se n’è andato, a 74 anni – il giorno del mio compleanno e non è stato davvero un ben regalo – dopo un’emorragia cerebrale che lo aveva colpito nei giorni scorsi. E con lui se ne va un pezzo di infanzia, di ribellione, di sogno. Perché chi ha amato i Kiss – quelli veri, quelli del 1975 di Rock and Roll All Nite e del trucco come armatura – sa che il suono di Ace era la scintilla che faceva partire l’esplosione. Ogni assolo sembrava un decollo, ogni nota un razzo che bucava il buio.

    Nel pantheon del rock, Frehley era l’anima più ironica, più fragile, più umana del gruppo. Gene Simmons e Paul Stanley erano i generali, lui era l’astronauta. Il suo “Space Ace” nasceva come il personaggio di un fumetto, ma divenne presto una leggenda viva, capace di unire il virtuosismo alla teatralità, la tecnica alla fantasia. Le sue chitarre fumavano, letteralmente. Le sue dita correvano leggere e incendiate, e noi ragazzi lo guardavamo come si guarda un eroe di un film che non finisce mai.

    Nel 1982 lasciò la band, quando i Kiss decisero di togliere il trucco e affrontare il mondo a viso scoperto. Ace non ci riuscì. Aveva bisogno del suo personaggio, di quella maschera che non nascondeva, ma liberava. Continuò da solo, con i Frehley’s Comet, alternando tour, eccessi, cadute e rinascite. Negli anni Novanta tornò per una reunion trionfale: la vecchia banda di nuovo insieme, quattro maschere, quattro archetipi, un suono che sembrava ancora nuovo.

    Nel 2014 entrò nella Rock and Roll Hall of Fame, dove i Kiss furono premiati come una delle band più influenti della storia. Era felice, e commosso. Nelle ultime interviste aveva detto di voler essere ricordato “come un uomo schietto, fedele alla propria musica, rispettato dai colleghi”. Lo era. Aggiungeva: “Ho portato felicità a molte persone, e tanti ragazzi mi dicono di essere riusciti a disintossicarsi grazie a me. Se ce l’ho fatta io, possono farcela anche loro”. Era questo il suo vero superpotere: non la chitarra che lanciava razzi, ma il coraggio di dire che la fragilità non è una vergogna.

    Paul Stanley lo ricordava così: «Nel 1974 lo sentii suonare in una stanza d’albergo. Pensai: vorrei che quel ragazzo fosse nella mia band. Era Ace». Gene Simmons ha scritto: «I nostri cuori sono spezzati. Nessuno potrà mai eguagliare la sua eredità. Amava i suoi fan, e ci mancherà per sempre». Peter Criss, il batterista con cui aveva condiviso la nascita della leggenda, ha aggiunto: «Era mio fratello. È morto serenamente, circondato da chi lo amava. La sua eredità vivrà nei cuori di milioni di persone».

    Ace era uno di quei pochi che riuscivano a restare bambini anche sul palco. Quando lo vedevi sorridere sotto la maschera d’argento, capivi che dietro al rock c’era un’anima buona. Uno che non cercava di essere un dio, ma un amico. Forse per questo lo abbiamo amato così tanto. Perché in quel trucco c’era il sogno di ognuno di noi: salire su un palco e non avere più paura.

    Oggi che la notizia corre tra social e redazioni, chi lo ha ascoltato da ragazzo sente un vuoto diverso, personale. È la fine di un’epoca, quella in cui il rock aveva ancora la forza di sembrare eterno. Ace Frehley era il suono della libertà, il fumo che saliva da una chitarra in fiamme, il sorriso dietro la maschera di uno Spaceman che non voleva tornare sulla Terra.

    E mentre la sua musica continua a girare nei vinili graffiati delle nostre camerette, viene naturale pensare che sì, forse aveva ragione lui: la sua eredità durerà centinaia d’anni. Perché chi ti insegna a sognare non muore mai davvero.

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