Cronaca Nera

Mostro di Firenze, la verità nel sangue: il Dna di Natalino riapre la pista sarda

Un esame del Dna compiuto a 56 anni di distanza riscrive le origini del primo delitto di Signa, quello da cui tutto è cominciato. Natalino, il bambino di sei anni sopravvissuto alla strage, è figlio del maggiore dei Vinci. La procura ha notificato l’esito al diretto interessato, che non ha mai conosciuto l’uomo. Ma ora, il clan sardo torna prepotentemente in scena.

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    Ci sono casi che non muoiono mai. Si addormentano, sembrano svanire nell’archivio della memoria collettiva, e poi riemergono. Basta un dettaglio. Una prova. Una goccia di sangue che racconta un’altra storia. Come nel caso del Mostro di Firenze, dove ogni certezza è provvisoria, ogni verità è una mezza verità. E ogni tanto, come adesso, arriva qualcosa che manda tutto in pezzi.

    Questa volta è il Dna. Un accertamento genetico disposto dalla procura ha stabilito che Natalino Mele, il bambino di sei anni e mezzo che nel 1968 scampò a un duplice omicidio a Signa, non è figlio di Stefano Mele, il manovale condannato in via definitiva per l’omicidio della moglie, Barbara Locci, e del suo amante, Antonio Lo Bianco. Il padre biologico di Natalino è Giovanni Vinci, fratello maggiore di Francesco e Salvatore, i due sardi per anni sospettati, arrestati, rilasciati, indicati come possibili membri del famigerato “clan” che avrebbe dato origine alla catena di sangue che terrorizzò la Toscana fino al 1985.

    Ma Giovanni no. Lui è sempre rimasto ai margini. Mai un avviso di garanzia, mai un interrogatorio, mai una convocazione. E invece era l’amante della Locci. Era il padre di quel bambino. Era, forse, più dentro di quanto chiunque abbia mai sospettato.

    La scoperta è stata notificata nei giorni scorsi proprio a Natalino. Che oggi è un uomo, e che, raggiunto dai giornalisti, ha detto con onestà disarmante: «Non l’ho mai conosciuto. Non so chi sia». La scoperta arriva grazie al lavoro del genetista Ugo Ricci, esperto di cold case già noto per il suo ruolo nell’indagine sul delitto di Garlasco.

    Ora, la domanda torna, più inquietante che mai: chi ha risparmiato quel bambino? E perché?

    Quella notte del 21 agosto 1968, Natalino fu trovato ore dopo l’omicidio in un casolare a due chilometri dalla scena del crimine, con i calzini puliti e nessuna traccia di fango o sangue addosso. Disse di essersi svegliato al buio e di aver camminato. Ma oggi quell’immagine, già fragile, sembra crollare del tutto.

    Forse qualcuno lo portò lì, forse lo conosceva, forse sapeva di chi era figlio, forse non volle ucciderlo per un motivo preciso. Forse.

    Perché ora, con la conferma che Stefano Mele non era il padre biologico del bambino, tutto quel castello crolla. Mele fu accusato, condannato, dichiarato inaffidabile, e per questo anche scagionato in parte. Ma oggi si scopre che non era nemmeno il padre del piccolo. E quindi? Era davvero lui il carnefice? O un capro espiatorio, sacrificato in nome di qualcosa di più grande?

    La pista sarda, a questo punto, non è più un’ipotesi. È un ritorno. Un riavvolgere il nastro fino al principio. Francesco e Salvatore Vinci, già nel mirino degli inquirenti, erano amanti abituali della Locci. La donna, affascinante, inquieta, e ben nota in paese, era al centro di un piccolo universo di uomini che la desideravano e la possedevano. Giovanni, ora si scopre, era uno di loro. Il primo. Forse il più vicino.

    E l’arma? Quella Beretta calibro 22 con silenziatore artigianale che uccise Barbara e Antonio? Non fu mai trovata. Ma tornò. Sei anni dopo, nel 1974, con l’omicidio di Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini, e poi ancora, sempre con la stessa firma: colpi alla testa, corpi mutilati, una scenografia dell’orrore.

    È lecito allora chiedersi: quel primo delitto fu davvero isolato? O fu la prova generale? L’inizio di qualcosa di più grande, feroce, pianificato?

    In questa nuova luce, Natalino Mele non è solo la vittima mancata. È il punto zero di una storia che ci riguarda ancora. Perché in lui si incrociano il sangue delle vittime, i silenzi degli assassini, le omissioni di chi non volle vedere.

    E se Giovanni Vinci, fino a oggi solo un nome tra tanti, era davvero il padre biologico, allora il mostro aveva un volto più vicino di quanto si sia mai voluto ammettere.

    Le indagini proseguono. Ma come sempre, nel caso del Mostro di Firenze, ogni verità porta con sé nuovi dubbi. Ogni certezza si sbriciola sotto i colpi del tempo. E ogni passo avanti sembra riportarci sempre allo stesso punto: a una notte d’estate, a un bambino con i calzini puliti, a due corpi freddi su un sedile d’auto. E a un orrore che non ha ancora finito di parlare.

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