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Dalla promessa di “zero conflitti” ai raid congiunti su Fordow, Natanz e Isfahan: così la Casa Bianca si allinea a Israele
Gli Stati Uniti hanno colpito con missili di precisione le basi atomiche di Fordow, Natanz e Isfahan, affiancandosi ufficialmente all’offensiva israeliana. Teheran ha risposto con missili balistici. L’Europa trema, il Golfo Persico è sull’orlo del collasso. E l’unico a non essere sorpreso… è Trump stesso.
Donald Trump ha fatto pace con l’idea della guerra. Non la sua, ovviamente. Ma quella da esportare, bombardare, spettacolarizzare. Come ogni presidente americano che si rispetti. Il 45esimo, nel cuore della notte, ha lanciato l’operazione che tutti temevano e che lui stesso aveva giurato di evitare: missili su tre siti nucleari iraniani, a fianco dell’offensiva israeliana. Il tutto mentre Gerusalemme e Teheran si scambiano cortesie balistiche da oltre una settimana. Ma ora – con la benedizione a stelle e strisce – è ufficialmente una guerra.
I raid USA hanno colpito gli impianti di Fordow, Natanz e Isfahan, centrali del programma atomico iraniano. Un attacco chirurgico, dicono dal Pentagono, ma il bisturi è passato sopra un campo minato geopolitico. Teheran ha risposto: oltre 40 missili, alcuni atterrati in territorio israeliano. Nessuna vittima, ma molti nervi saltati.
L’Europa, nel frattempo, arranca dietro le conferenze stampa. La Farnesina ha convocato una riunione d’urgenza con intelligence e Stato Maggiore. “Valutiamo gli scenari possibili”, ha detto una fonte del governo italiano, che tradotto suona più o meno come: “Ci auguriamo di non finire in mezzo”. Da Bruxelles piovono appelli alla moderazione, che da Teheran a Tel Aviv hanno lo stesso effetto dell’acqua sulla ghisa rovente.
Trump, intanto, si gode il caos che ha aiutato a creare. Nei giorni scorsi aveva accusato l’Iran di “attività eversive” e promesso “azioni mirate”. Traduzione: bombardamenti. Niente di nuovo. Chi si aspettava il tycoon pacifista, pronto a ritirare le truppe e a difendere l’America “prima di tutto”, oggi scopre che America First può includere anche l’ordine di far partire Tomahawk a mezzanotte, in diretta social, con il sottofondo dell’inno nazionale.
Il Dipartimento di Stato si è affrettato a rassicurare: “Non cerchiamo un conflitto, ma non permetteremo minacce contro i nostri alleati”. Tradotto: Israele può bombardare, noi pure, purché ci chiamiate “moderatori”. E infatti, i vertici israeliani – dal ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir al premier in perenne emergenza Benjamin Netanyahu – applaudono commossi: “Grazie Donald, ora sì che siamo in buona compagnia”.
L’Iran, dal canto suo, parla apertamente di “aggressione occidentale” e promette “risposte su più fronti”. Con Hezbollah già attiva nel Libano meridionale e i ribelli Houthi più allegri del solito, il fronte potrebbe allargarsi ben oltre il Golfo. I mercati tremano, il prezzo del greggio schizza, e qualcuno a Wall Street ha già scommesso su un nuovo conflitto redditizio.
Intanto l’AIEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, si dichiara “gravemente preoccupata” per la sicurezza dei siti colpiti e per la tenuta del trattato di non proliferazione. Ma chi ha voglia di sentire i tecnici quando si possono seguire le esplosioni in diretta?
Tutto questo per “contenere l’Iran”, certo. Ma anche per dimostrare che Trump, quando promette pace, intende quella che arriva dopo la guerra. Con buona pace dei pacifisti, dei trattati e di tutte le buone intenzioni lanciate in campagna elettorale e rimosse – come sempre – dopo le primarie.
Del resto, anche la guerra è una forma di spettacolo. E lo show, come insegna The Donald, deve andare avanti.