Cronaca
Robert Francis Prevost, da Chicago a San Pietro: il ragazzo del Midwest diventato Leone XIV
Nato nel cuore dell’America cattolica degli anni Cinquanta, cresciuto in una casa bilingue con radici ispaniche e francesi, Robert Prevost è il simbolo di un pontificato che guarda al Sud del mondo con la sobrietà dei monaci e la concretezza dei figli della working class.
La casa dei Prevost stava in un quartiere tranquillo di Chicago. Un sobborgo dove le biciclette si lasciavano nei vialetti e i prati erano tagliati ogni sabato mattina. Robert era il figlio di mezzo. Un fratello maggiore, Louis, e uno minore, John. Il padre, Louis senior, lavorava per l’ufficio postale; la madre, Mildred Martínez, portava nel sangue il calore della lingua spagnola. Si parlavano due lingue, in casa, si andava a messa la domenica e si cenava insieme ogni sera. Una famiglia ordinaria, americana, di quelle che credono nel lavoro, nei doveri e in Dio.
Non c’è nulla di clamoroso nella giovinezza di Robert Francis Prevost. Ed è proprio questo a renderla interessante. Un’infanzia fatta di libri, catechismo, scout, baseball e silenzi. Non era il più brillante né il più ribelle. Ma chi lo ricorda racconta di un ragazzo osservatore, gentile, quasi timido, con una calma che spiazzava. Era sempre pronto ad ascoltare, sempre attento a non parlare troppo.
L’attrazione per la vita religiosa comincia presto. Prima come chierichetto, poi come adolescente curioso che si ferma a fare domande al parroco. La scintilla vera scatta però con gli agostiniani. Ne incontra uno al liceo, e capisce che quella regola — comunità, interiorità, servizio — è ciò che gli assomiglia di più. Entra nel seminario minore dell’Ordine di Sant’Agostino, poi si trasferisce a Villanova, in Pennsylvania, dove si laurea in matematica. A vent’anni è già nel noviziato. Un anno dopo prende i voti.
Ma la strada che lo porterà a Roma comincia molto più lontano. Dopo l’ordinazione sacerdotale, viene mandato in Perù, nella diocesi di Chulucanas, tra le comunità indigene e i campesinos delle Ande. Sono gli anni più formativi: imparare a parlare in quechua, vivere senza elettricità, assistere i malati, affrontare le ingiustizie quotidiane. Non è solo il contatto con la povertà, ma l’esperienza della fragilità a cambiare il giovane padre Prevost. La Chiesa per lui non sarà mai un’astrazione dottrinale, ma un corpo vivo, che si sporca le mani.
Torna a Chicago per studiare diritto canonico, poi viene chiamato a Roma. Entra nei palazzi, ma ci entra da frate. Con l’abito semplice e l’abitudine a mangiare in silenzio. Diventa priore, poi superiore generale dell’Ordine agostiniano. Gira il mondo, visita le missioni, amministra con fermezza, ma non ama apparire. Non è un curiale di professione. È un pastore prestato alla struttura, con lo spirito del monaco e l’occhio del legale.
Quando Francesco lo chiama a Roma nel 2020 per guidare il dicastero dei Vescovi, molti lo considerano un tecnico. Lui invece si muove con una discrezione che lo fa notare. Parla poco, ascolta molto, ha la tendenza a fare un passo indietro prima di ogni decisione. E proprio in questo, nel momento in cui la Chiesa è spaccata tra progressismo verboso e tradizionalismo urlato, emerge come una figura diversa. Rassicurante. Profonda. Inattaccabile.
L’elezione al soglio pontificio, in un conclave segnato dalle tensioni geopolitiche e dall’urgenza di un nuovo equilibrio, ha il sapore della sorpresa solo per chi non ha letto i segnali. Robert Francis Prevost diventa Leone XIV. Un nome che guarda alla storia, ma senza nostalgia. Un papa venuto dal silenzio, per parlare al mondo.
Non è un comunicatore da social, non ama le interviste, non cerca i riflettori. Ma ha dentro di sé l’America profonda e l’America che cambia, la Chiesa delle periferie e quella dei libri, la concretezza del diritto e l’inquietudine della spiritualità. La sua è una fede senza effetti speciali. Una fede che cammina.
E forse proprio in questo, in quel passo lento e sicuro con cui attraversa il cortile di San Damaso, c’è già tutta l’immagine di un pontificato: un uomo di 69 anni che porta sulle spalle il peso della Chiesa intera, ma lo fa come se portasse un secchio d’acqua in un giardino. Con attenzione. Con rispetto. Con quella calma dei forti che non si improvvisa. E non si dimentica.