Arte e mostre

Wu Keyang, il pittore che unisce Oriente e Occidente: «La mia vita è come il mio nome: sembra semplice, ma ha un significato nascosto»

La sua missione è chiara: superare il conflitto tra civiltà attraverso la forza universale dell’arte. Dalla pittura a olio incompresa in Oriente ai volti senza pupille di Modigliani, l’artista rivela come il pensiero di Jung e la spiritualità del Tao abbiano forgiato il suo percorso. Un’intervista profonda, tra visioni, rinascite e la convinzione che l’arte non appartenga a un popolo ma all’umanità intera.

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    Apre il sipario il suono di un nome: Wu. Un cognome che in cinese si pronuncia sempre allo stesso modo, ma può essere scritto con ideogrammi profondamente diversi.
    Può essere , semplice e comune. Oppure , il segno che fonde la lancia () e il fermare (), e che dunque non significa guerra, ma “arte di fermarla”. E infine , il vuoto, l’assenza, il Tao che non si può dire. Tre simboli per un solo suono.
    E forse anche tre anime per un solo artista. Perché in Wu Keyang ogni pennellata è soglia, ogni segno è un passaggio tra mondi. Ciò che sembra noto, nasconde una verità più profonda. La sua intera opera, come il suo nome, è un invito a guardare oltre la superficie.

    Cosa resta oltre la forma? Quale voce sussurra nel silenzio tra spirito e materia? A tentare di rispondere, con colori e visioni, è proprio Wu Keyang, protagonista della mostra personale “Beyond the Form, Within the Cosmos”, che si terrà a Firenze dal 10 luglio al 1° agosto 2025, nelle sale storiche di Palazzo Bellini (Lungarno Soderini 3).

    L’evento, promosso da Hestia Gallery, rappresenta la terza tappa italiana dell’artista negli ultimi tre anni, dopo le esposizioni a Palazzo Pisani di Venezia e alla Garibaldi Gallery di Milano. Un percorso coerente e crescente, che sta contribuendo a far conoscere anche in Occidente il linguaggio originale e profondo di questo pittore “filosofo”.

    In esposizione, oltre 30 grandi dipinti a olio e quasi 80 disegni inediti appartenenti alla serie “super-imaginale”: un progetto che scava nel rapporto tra essere umano e cosmo, con un approccio che non è mai puramente estetico, ma sempre esistenziale. Le opere propongono uno spazio visivo di meditazione, dove i confini tra materia e pensiero si dissolvono, e il segno pittorico diventa rito, invocazione, passaggio.

    Wu Keyang è nato nel 1973 a Zhao’an, nella provincia del Fujian, e ha studiato pittura a olio presso l’Università di Xiamen. Dal 2009 ha scelto di vivere in viaggio, dividendosi tra Asia ed Europa, visitando templi, grotte, musei e luoghi di natura incontaminata. Ha fatto del disegno un esercizio quotidiano, quasi un respiro costante, in cui annotare visioni e riflessioni.

    Ogni foglio, ogni tela, racconta una ricerca interiore senza fine. Il suo lavoro, difficilmente etichettabile, unisce la spiritualità orientale al segno occidentale, con rimandi alla calligrafia, all’astrazione lirica, all’informale. Ma più che alle correnti, Wu sembra rispondere a un’urgenza personale: trovare una forma che non sia prigione, ma soglia.

    Curatori dela rassegna sono Stefano Bigalli, Andrea Betro e Wu Changbei. La mostra “Beyond the Form, Within the Cosmos” si offre così come un dialogo aperto tra Oriente e Occidente, tempo e spirito, visibile e invisibile. Un’occasione rara per incontrare un artista che non cerca l’effetto, ma la verità.

    Ingresso libero. Orari di apertura: da lunedì a sabato, 10:30–12:30 e 16:00–18:00.

    Wu Keyang, dalle tue opere emerge chiaramente un affascinante contrasto tra culture orientali e occidentali. Quando hai cominciato a percepirlo nella tua vita? E in quali circostanze hai sentito il bisogno di diventare un ponte tra questi due mondi?

    È una domanda che porto dentro da tanto tempo. In realtà, da bambino già percepivo certe differenze tra Oriente e Occidente, ma è stato durante gli anni dell’università che ho davvero preso coscienza di questo “conflitto”. In quel periodo ho cominciato a studiare la filosofia occidentale: Socrate, Platone, Aristotele, fino ad arrivare a Hegel, Nietzsche… Ma colui che mi ha toccato più profondamente è stato Carl Jung. Jung è stato, per me, il primo che ha saputo utilizzare il pensiero logico occidentale per spiegare e comprendere il pensiero orientale. Non era solo uno studioso, era anche un praticante, un artista. Ha persino dipinto. Una delle sue opere più importanti, Il Libro Rosso, si ispira direttamente a un testo classico taoista cinese, Il Classico della Vita Dorata di Taiyi. È lì che ho sentito che lui stava facendo quello che io, inconsciamente, desideravo fare: unire due mondi.

    È stata la filosofia a farti scattare questa consapevolezza?

    Non solo la filosofia, ma anche la mia esperienza concreta come pittore. Dipingo a olio, e spesso ho notato che il pubblico orientale non riesce a comprendere appieno questo linguaggio visivo. Molti guardano solo se il dipinto “somiglia” alla realtà, se sembra una fotografia. Ma non colgono la profondità spirituale e filosofica che sta dietro la pittura occidentale, soprattutto quella classica e medievale. Allo stesso tempo, anche molti occidentali non comprendono a fondo la cultura orientale: la vedono come qualcosa di “mistico”, ma distante, quasi esotico. Io vedo in questo una grande frattura. Per me l’arte non è solo immagine, è trasmissione di spirito. Come l’arte classica occidentale, che non è solo tecnica ma un mezzo per cercare il Vero.

    Che ruolo ha la cultura tradizionale cinese nella tua arte?

    È qualcosa che ho nel sangue. Ho sempre praticato e studiato profondamente le tradizioni spirituali del Confucianesimo, del Taoismo e del Buddhismo. In particolare la coltivazione interiore, quella che chiamiamo “coltivare il cuore”. È una forma di lavoro spirituale che eleva la coscienza e la vita stessa. Non è solo teoria: l’ho vissuto, l’ho praticato, l’ho sperimentato.
    Inoltre, ho vissuto tre esperienze di pre-morte. In quei momenti ho toccato qualcosa di molto profondo, come se il cielo mi avesse dato un’altra possibilità, una chiamata. Non era ancora il mio momento di andarmene. Da allora, ho sentito che avevo una missione: dipingere tutto ciò che avevo vissuto e compreso, per condividerlo con il mondo.

    Cosa significa per te “missione”?

    Penso che la mia missione sia quella di colmare la distanza tra Oriente e Occidente. Di mostrare, attraverso l’arte, che le due visioni del mondo – anche se a volte sembrano opposte – in realtà cercano la stessa verità. La cultura, secondo me, non ha confini. Non appartiene a un popolo, a una razza, a una nazione. La cultura vera, quella che cerca il Bello, il Bene e il Vero, è patrimonio dell’umanità. E l’arte è il linguaggio perfetto per superare le barriere: può comunicare a tutti, al di là delle lingue.

    Una curiosità: il tuo cognome crea qualche equivoco, giusto?

    Sì, è vero! Il mio cognome si pronuncia allo stesso modo di un altro carattere cinese, ma è scritto con un ideogramma diverso. È un dettaglio curioso, ma significativo: come tutta la mia vita, che sembra una cosa familiare, ma in realtà ha un significato più profondo.

    Per te l’arte ha un valore spirituale? Può favorire il dialogo tra civiltà?

    Assolutamente sì. L’arte, per me, non è solo una questione estetica o visiva. È uno strumento spirituale, un canale attraverso cui le anime di diverse civiltà possono comunicare. Il mio lavoro non vuole semplicemente rappresentare la superficie delle culture, ma mettere in dialogo le anime stesse di due civiltà diverse.

    Quindi trasmette qualcosa che va oltre il visibile?

    Esattamente. Anche se i colori, le luci, le pennellate nelle mie opere sono importanti, la cosa più essenziale è ciò che sta dietro: la componente spirituale. Lo spirito. Questo spirito non si vede con gli occhi, ma si percepisce con l’anima. Per esempio Modigliani: i suoi volti hanno il collo allungato, gli occhi spesso senza pupille. Per molti può sembrare una scelta stilistica, ma in realtà è un modo per rappresentare lo spirito umano, non solo l’apparenza.

    Ti ispiri anche alla filosofia taoista?

    Sì. Il pensiero taoista è fondamentale per me. Dice: “Il Tao di cui si può parlare non è il vero Tao”. Questo significa che la verità ultima non può essere spiegata con le parole. Ma l’arte può avvicinarsi a quella verità. Il mio scopo è cercare di arrivare all’essenza, all’origine, al nucleo invisibile del mondo. Quando dipingo, cerco di trovare un linguaggio visivo che possa esprimere quell’essenza: con linee, colori, forme o simboli.

    Il pubblico comprende subito le tue opere?

    Non sempre. Anzi, a volte ci vogliono mesi, o addirittura anni, prima che qualcuno comprenda veramente il significato profondo di un mio quadro. Ma non è importante. L’opera nasce da un’esperienza vissuta nell’attimo presente: una visione del mondo, della natura, dell’universo. È un’esplosione interiore. Non mi interessa spiegare tutto: voglio che chi guarda trovi, nel tempo, una propria connessione con quella energia.

    Hai citato Modigliani, ma anche Picasso…

    Sì. Picasso, Modigliani e altri maestri non si sono fermati alla rappresentazione realistica. Hanno decostruito le immagini per raggiungere un altro livello, quello dello spirito. Hanno cercato, come me, un ponte tra forma e essenza, tra materia e spirito.

    Quando ti sei sentito, per la prima volta, un artista “del mondo”?

    Posso dire che è successo nel 2015, quando ho vissuto la mia terza esperienza vicina alla morte. Tornato indietro da quel confine estremo, ho capito che non ero più limitato dallo spazio-tempo. Mi sono sentito parte di una missione umana più grande: rappresentare la ricerca universale della verità, della bontà e della bellezza. L’arte, specialmente la pittura, precede la lingua e il testo. Non ha bisogno di parole per essere compresa. Per questo, è universale. E in quel momento ho sentito che il mio lavoro non era più solo “cinese” ma umano.

    Com’è la situazione dell’arte contemporanea cinese oggi? In che direzione va?

    Come artista orientale, posso dire che oggi in Cina coesistono due sistemi artistici. Uno è quello “istituzionale”, legato allo stato e ai temi ufficiali. L’altro è quello degli artisti indipendenti, come me. Quest’ultimo è molto difficile da sostenere in Cina. Per molto tempo era quasi impossibile sopravvivere fuori dal sistema. Ma io, dopo tre esperienze di vita e morte, e con la mia dedizione assoluta all’arte e alla spiritualità, ho trovato persone nel mondo della cultura, dell’impresa e della ricerca che mi hanno sostenuto. Non è facile, ma è possibile. Ora, però, vedo segnali positivi: giovani artisti nati negli anni ‘80 e ‘90 stanno emergendo con una loro visione, grazie all’accesso a molte informazioni e alla possibilità di confrontarsi con il mondo. Alcuni di loro stanno raggiungendo risultati significativi. Non è un percorso facile, ma è promettente.
    Molti ancora associano l’arte cinese a soggetti convenzionali, istituzionali. Ma l’arte non dovrebbe essere solo riproduzione o propaganda. Dal mio punto di vista, l’arte deve nascere dall’autentica comprensione della propria vita e del proprio tempo. Negli anni ‘80 ci fu una prima ondata di arte contemporanea in Cina. Alcuni di quei nomi sono diventati famosi anche in Occidente, spesso grazie a un legame con temi politici. Ma oggi c’è un cambiamento. Dalla fine degli anni 2000, sempre più artisti cercano le radici della nostra cultura. Si sta ritrovando fiducia nel patrimonio culturale cinese.
    Anch’io, per anni, ho dipinto soggetti buddisti e religiosi, usando tecniche classiche. Erano molto apprezzati e valutati in Cina. Ma dopo le mie esperienze profonde, la mia arte si è trasformata. È diventata una ricerca dell’essenza. Una ricerca spirituale. Oggi stanno emergendo nuovi artisti indipendenti, con visione propria. Questa è una nuova era per l’arte contemporanea cinese, e io sono fiducioso nel suo futuro.

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