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“L’uomo che pesò l’eternità”: Giuseppe Bresciani e la vertigine del tempo circolare

Nel suo nuovo libro L’uomo che pesò l’eternità, Giuseppe Bresciani intreccia storia, filosofia e mito per dare voce al leggendario conte di Saint Germain, l’uomo che ha sfidato il tempo. Una confessione poetica e visionaria che riflette sull’infinito, sull’amore e sull’eterno ritorno delle vite.

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    Ci sono libri che si leggono, e libri che si attraversano. L’uomo che pesò l’eternità, l’ultimo romanzo di Giuseppe Bresciani per AltreVoci Edizioni, appartiene a questa seconda categoria: non si consuma, si vive. È un testo che avvolge, che sfida il lettore con una narrazione sospesa tra la materia e il mito, e che alla fine lascia la sensazione di aver assistito a un rito più che a una semplice storia.

    Bresciani scrive con una prosa limpida e avvolgente, che ha qualcosa del respiro dei grandi romanzieri europei della prima metà del Novecento. Ogni pagina è calibrata, cesellata, eppure fluida come un pensiero antico che torna alla luce. Ma ciò che rende L’uomo che pesò l’eternità un romanzo davvero raro è la sua architettura circolare: un racconto che si richiude su se stesso come un anello, o meglio come l’ouroboros — il serpente che si morde la coda — simbolo della rinascita e del tempo che si rigenera.

    Il protagonista, il leggendario conte di Saint Germain, attraversa i secoli come un viandante tra i sogni. La sua voce, che si alza dalle prime pagine come un sussurro confessionale, diventa quella di un uomo che ha visto tutto e non può morire. Bresciani lo fa parlare non con la retorica dell’immortalità, ma con il peso della memoria: un’eco che sembra provenire da una biblioteca dimenticata del mondo. Roma innevata, un mattino di Natale del 1940: è qui che lo incontriamo, solo tra le statue del Pincio, intento a raccontare se stesso e la propria condanna a durare.

    Il tempo nel romanzo non è mai lineare. È un mare in tempesta dove il protagonista naviga da tre secoli, tra incontri, passioni, rivoluzioni e rivelazioni. Ogni vita che assume è un ciclo che si apre e si chiude, come una spirale che torna al punto d’origine. E in questo movimento incessante — dove la storia dell’uomo diventa metafora della storia umana — si avverte un profumo di filosofia: l’idea che l’eternità non sia un dono, ma un peso da misurare, appunto, come suggerisce il titolo.

    C’è in queste pagine un’eco di Borges, nei labirinti del tempo e della memoria, e un riflesso di Mann, nel modo in cui l’immortalità diventa una condanna intellettuale. Ma c’è anche la dolcezza visionaria di Coelho e la profondità umana di Hugo: un equilibrio raro, che solo una scrittura consapevole e colta come quella di Bresciani riesce a mantenere.

    Il conte di Saint Germain, nella sua ricerca di conoscenza e di amore, diventa un archetipo dell’uomo moderno: eterno eppure fragile, onnisciente eppure solo. “Ho navigato per tre secoli sulle acque impetuose della storia”, confessa. Ed è impossibile non sentirlo vicino, come se la sua voce fosse la nostra — il desiderio universale di trattenere il tempo, di misurarlo, di non lasciarlo svanire.

    Bresciani costruisce un racconto che vive di ritmo e di respiro, dove l’avventura incontra la metafisica. Non c’è compiacimento stilistico, ma una cura artigianale della parola, una lingua che vibra e si fa musica. Le descrizioni di Roma, i dialoghi con le statue, gli amori che bruciano come lampi nella notte del tempo: tutto concorre a creare un’esperienza sensoriale e intellettuale insieme.

    È un libro che si legge con lentezza, come si assapora un vino antico o una melodia lontana. E quando si chiude l’ultima pagina, ci si accorge che il viaggio non è finito: la storia torna a sé stessa, ricomincia, si ripete in eterno, proprio come l’ouroboros che rappresenta la vita che si divora e si rinnova.

    In un panorama editoriale spesso affollato di storie effimere, L’uomo che pesò l’eternità è un romanzo che osa parlare dell’infinito. E ci ricorda che ogni vita, per quanto breve, è un ciclo compiuto dentro un disegno più grande — quello dell’eterno ritorno delle cose.

    Giuseppe Bresciani firma così non solo un romanzo, ma un’esperienza di conoscenza. Un’opera che lascia il segno e che, come il suo protagonista, continuerà a vivere a lungo, sospesa tra il tempo e l’eternità.

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