Musical
Tra musical sold out e accuse di terrorismo, il caso Mangione incendia l’America: l’ombra dell’agenda trumpiana
Un musical satirico e già esaurito racconta la detenzione di Luigi Mangione insieme a Sam Bankman-Fried e Sean Combs. Intanto la giudice Garnett ammonisce i procuratori: “Basta dichiarazioni alla stampa”. La tensione cresce, tra clamore mediatico, rischi per il processo e una nazione divisa.
Luigi Mangione non ha ancora avuto un processo, ma ha già un musical tutto suo. E questo, negli Stati Uniti del 2025, dice molto più di mille editoriali. A giugno debutterà infatti a San Francisco “Luigi: The Musical”, uno spettacolo satirico ambientato nella cella in cui il 27enne è detenuto da mesi con l’accusa più grave: l’omicidio del CEO di UnitedHealthcare, Brian Thompson, colpito a morte in quello che la procura definisce “un agguato con finalità terroristiche”. Lo spettacolo, che racconta la sua storia insieme a quelle di altri due detenuti celebri — Sam Bankman-Fried, il mago caduto delle criptovalute, e Sean “Diddy” Combs, invischiato in uno scandalo sessuale — è già sold out da settimane. Cinque repliche, tutte esaurite.
Sembra un paradosso: un uomo accusato di omicidio, che rischia la pena capitale, diventa figura di culto a teatro. Ma negli Stati Uniti di oggi, dove la spettacolarizzazione della giustizia ha superato da tempo il punto di non ritorno, è tutto perfettamente coerente. Lo spettacolo non vuole glorificare Mangione, spiegano i produttori, ma usarne la parabola per riflettere sul rapporto malato tra fama, potere e istituzioni. Il protagonista, inchiodato a una cella, dialoga con i due compagni di reclusione su sanità, finanza e intrattenimento. Un trio grottesco e fin troppo attuale. Non è un caso se, nella locandina, i tre detenuti sono raffigurati come santi medievali in un trittico laico dai toni beffardi.
Mentre gli spettatori fanno la fila per i biglietti, nelle aule dei tribunali si prepara un dramma ben più reale. Il 26 giugno 2025 Luigi comparirà a New York per un’udienza preliminare sul procedimento statale. Ma è quello federale, in programma per il 5 dicembre, a fare più paura: include l’accusa di omicidio aggravato e stalking, con la possibilità — concreta — che venga chiesta la pena di morte. La tensione è altissima, e non solo per la gravità delle accuse. A preoccupare, negli ambienti legali e mediatici, è il clima attorno al processo, che rischia di esplodere sotto il peso delle dichiarazioni pubbliche.
Lo scorso 25 aprile, la giudice Margaret Garnett ha preso la parola durante un’udienza al tribunale federale di Manhattan per rivolgere un richiamo formale ai procuratori. “Evitate ogni dichiarazione pubblica che possa compromettere il diritto dell’imputato a un processo equo”, ha detto rivolgendosi direttamente al procuratore ad interim Jay Clayton, con il compito di trasmettere l’avvertimento alla procuratrice generale Pam Bondi. Il riferimento non era casuale. Proprio Bondi, fedelissima dell’ex presidente Trump, aveva descritto l’omicidio come “un’esecuzione a sangue freddo, un atto che incarna la degenerazione del crimine politico”. Una frase da comizio, che secondo la difesa mina l’imparzialità della giuria e alimenta una narrazione colpevolista a tutto vantaggio di Bondi stessa, ora accreditata tra i nomi forti dell’amministrazione Trump 2.0.
La giudice è stata netta: la linea del distretto vieta dichiarazioni pregiudizievoli prima del processo. Ma il confine tra giustizia e propaganda, oggi, sembra sottile come carta velina. L’impianto accusatorio ruota attorno al presunto movente ideologico di Mangione, considerato vicino ad ambienti radicali ostili al sistema sanitario privato. L’uccisione di Thompson, secondo l’FBI, sarebbe stato un atto dimostrativo contro le grandi compagnie di assicurazione, considerate emblema di un sistema iniquo. Ma fuori dalle aule, la vicenda ha preso una piega diversa: il volto di Luigi è diventato virale, la sua immagine campeggia su t-shirt, murales, meme. Una deriva che preoccupa.
La difesa punta a ottenere l’annullamento del processo statale e a contenere i danni in quello federale. L’obiettivo non dichiarato ma evidente è evitare la pena di morte. In assenza di precedenti penali, e con la possibile presenza di disturbi mentali da valutare, i legali tenteranno di costruire un profilo meno minaccioso del killer spietato dipinto dall’accusa. Ma ogni mossa pubblica rischia di alimentare il paradosso: più si parla di Mangione, più la sua figura cresce, più la giustizia si allontana.
È il grande dilemma dell’America contemporanea, dove la giustizia si gioca spesso prima nei talk show che nei tribunali. Dove il processo mediatico precede quello penale. Dove l’arte si appropria dei mostri per trasformarli in miti, e la società applaude con una mano mentre con l’altra invoca la forca. In questo contesto, Luigi Mangione non è solo un imputato. È un sintomo. E forse anche un esperimento, su cui si misurerà la tenuta delle istituzioni. Il sipario si alza. Ma non è detto che finisca con un applauso.