Cronaca Nera
Siamo entrati nella villetta della strage di Altavilla
Sacro e profano: la casa di Giovanni Barreca riflette un’inquietante fusione tra delirio religioso e spensieratezza adolescenziale. Sui muri della cameretta della figlia, immagini di cartoni animati convivono con salmi biblici, rivelando un ambiente carico di contraddizioni e angosce

Entrare nella villetta degli orrori di Altavilla Milicia è come fare un viaggio in un mondo di contraddizioni e deliri. Le pareti della camera della primogenita di Giovanni Barreca, teatro di una terribile tragedia familiare, raccontano una storia di inquietante fusione tra sacro e profano.
La camera della figlia: un mondo di contrasti
Appena si varca la soglia della camera della figlia maggiore di Giovanni Barreca, si è colpiti dalla stridente mescolanza di elementi sacri e profani. Su una parete, un disegno di Minou, la gattina del cartone animato “Gli Aristogatti”, sembra voler mitigare l’oscurità delle scritte circostanti. Sotto l’immagine, è inciso il Salmo 23 della Bibbia, il salmo di Davide: “Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei alcun male, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga mi danno sicurezza”.
Accanto all’orologio, che scandisce “il tempo di Dio”, sono disposti ordinatamente i pennelli per il trucco, simboli di una normalità adolescenziale che stride con l’orrore che si è consumato in quella stanza.






Dettagli inquietanti: ogni angolo racconta una storia
Le immagini della villetta degli orrori, analizzate dai consulenti delle procure, offrono uno sguardo agghiacciante su ciò che è avvenuto all’interno di quelle mura. Le foto e i video, contenuti in un hard disk da 8 terabyte, rivelano i dettagli macabri delle torture e degli omicidi di Antonella Salamone e dei suoi figli Kevin ed Emanuel.
I salmi e le preghiere
Sui muri sono scritti salmi e preghiere, che la figlia maggiore ha inciso prima che il rito di purificazione dal demonio si trasformasse in una strage. “Per tutte le cose c’è un tempo fissato da Dio. Per tutto c’è il Suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo”, ha scritto la giovane accanto all’orologio. Queste scritte, apparentemente innocue, nascondono il preludio di un incubo.
La stanza degli orrori
La stanza della ragazza è un microcosmo di contraddizioni. Gli oggetti di uso quotidiano, come i pennelli per il trucco, si mescolano con simboli religiosi e scritte che riflettono un delirio mistico. L’atmosfera è carica di tensione, con ogni angolo della stanza che sembra voler raccontare una storia di sofferenza e follia.
I luoghi del delitto
Nelle migliaia di documenti messi a disposizione delle difese, emergono dettagli raccapriccianti. La perizia del medico legale ha accertato che la prima a morire è stata Antonella Salamone, il cui corpo è stato gettato in una buca nel giardino e bruciato con benzina. La figlia ha descritto il macabro rituale: “…cose tipo piattini ed io ho preso quelli… Questi oggetti sono stati bruciati là sopra insieme al corpo di mamma. Il fuoco è durato tante ore ma non saprei quanto perché io dopo quel giorno non sono più salita…”.
Le confessioni e i dettagli delle torture
La figlia di Giovanni Barreca, durante i due interrogatori, ha confermato le torture inflitte alla madre e ai fratelli. “Sì, confermo le torture di cui ho prima parlato, ma io non so di fatto come è morta mia madre, se per infarto o per i calci che gli ha dato mio fratello. Forse è morta quando sia io che mio fratello gli davamo calci”. Queste confessioni hanno contribuito a chiarire le responsabilità degli indagati, descrivendo momenti di paura e angoscia.
Le immagini: un tassello fondamentale
Le immagini e i video della villetta sono solo un tassello della tragica vicenda. Esse offrono uno sguardo dettagliato sui luoghi del delitto e sulle dinamiche delle torture. Gli investigatori hanno analizzato ogni dettaglio, ricostruendo la sequenza degli eventi che ha portato alla morte di Antonella Salamone e dei suoi figli.
Il delirio mistico di Giovanni Barreca
Giovanni Barreca, durante i colloqui con il suo legale Giancarlo Barracato, ha descritto un “delirio mistico florido”. I consulenti psichiatrici hanno concluso che Barreca soffre di gravi disturbi mentali, una condizione che sarà oggetto di incidente probatorio per cristallizzare le sue condizioni mentali.
La responsabilità dei coniugi diabolici
Secondo i giudici inquirenti i due palermitaniSabrina Fina e Massimo Carandente, avrebbero impartito ordini e sarebbero stati autori materiali delle torture. La figlia di Barreca ha confermato: “Lei si occupava della mamma”. La brutalità delle loro azioni è stata descritta nei dettagli durante gli interrogatori, dipingendo un quadro di orrore e follia.
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Cronaca Nera
Garlasco, nuove ombre sull’omicidio Poggi: Dna di Chiara e Stasi nei rifiuti, testimone minacciato sul Santuario
Le ultime analisi sui reperti del caso Garlasco trovano solo il Dna della vittima e di Alberto Stasi. Ma un testimone parla della presenza abituale di Andrea Sempio al Santuario della Bozzola. E finisce sotto minaccia.

Nel sacchetto dell’immondizia ritrovato in via Pascoli a Garlasco ci sono tracce genetiche di Chiara Poggi e di Alberto Stasi. Nessuna presenza, almeno finora, di Andrea Sempio. È quanto emerge dai nuovi accertamenti disposti dal gip di Pavia, Daniela Garlaschelli, che ha incaricato la genetista Denise Albani di analizzare i materiali rimasti dalla scena del crimine.
I tamponi effettuati giovedì 19 giugno negli uffici della Scientifica di Milano su un piattino di plastica, un sacchetto azzurro e le linguette di due confezioni di Fruttolo, hanno restituito sequenze biologiche appartenenti alla vittima. In un caso, si è addirittura ottenuta una sequenza quasi completa del Dna di Chiara. L’unico Dna maschile identificato – finora – è quello di Stasi, rinvenuto su una cannuccia di plastica del brick di Estathé.
Parallelamente si sta lavorando anche su 34 fogli di acetato che in origine avevano conservato le impronte digitali, ma che ai primi test sul sangue sono risultati negativi. Due nuove impronte però sono ora sotto analisi: una scoperta sullo stipite della porta che porta alla cantina – comparabile ma non appartenente né a Stasi né a Sempio – e l’altra sulla cornetta del telefono. Secondo i tecnici, potrebbe essere della stessa Chiara, colta mentre tentava di difendersi.
Ma il fronte più inquietante, oggi, è quello legato ai testimoni. A parlare è un uomo di nome Maurizio, frequentatore del Santuario della Bozzola fin dagli anni ’90, che ha raccontato in tv – a Mattino 5 – di aver visto spesso Andrea Sempio insieme a un gruppo di amici, tra cui anche Marco Poggi, fratello di Chiara. «Io vedevo le gemelle Cappa, insieme a volte con Chiara. Ma Stasi mai», ha dichiarato.
Il suo racconto però ha avuto un prezzo. Durante la processione del 31 maggio scorso, al termine della preghiera, Maurizio è stato aggredito verbalmente da altri fedeli, scontenti del fatto che avesse parlato con i giornalisti. Un episodio grave, che getta nuove ombre su un caso mai del tutto chiuso, nonostante le condanne definitive.
Intanto le indagini alternative proseguono. Ma i reperti sembrano restituire una sola verità: il Dna di Chiara e di Stasi. Nessuna traccia, per ora, di altri possibili indagati. E a Garlasco, chi parla, continua a farlo sottovoce.
Cronaca Nera
Giappone, giustiziato il “killer di Twitter”: uccise e smembrò nove persone che aveva adescato online
Condannato a morte nel 2020, il 34enne aveva ammesso l’uccisione di nove giovani, attirate con la promessa di “aiutarle a morire”. Le vittime, tutte minorenni o poco più che ventenni, avevano lasciato segnali di disperazione sui social.

Il Giappone è tornato a eseguire una condanna a morte. A quattro anni dalla sentenza definitiva, e a due dall’ultima esecuzione, venerdì è stato impiccato nel carcere di Tokyo Takahiro Shiraishi, 34 anni, soprannominato dalla stampa giapponese “il killer di Twitter”. Aveva confessato di aver ucciso, violentato e smembrato nove persone, tra cui otto giovani donne e un uomo, adescati sui social mentre esprimevano pensieri suicidi. L’impiccagione – confermata dai principali media nazionali tra cui la NHK, pur senza conferma ufficiale del ministero della Giustizia – è stata eseguita nella massima riservatezza, come da prassi nel sistema penale giapponese.
Era il 2017 quando la polizia giapponese, indagando sulla scomparsa di una ragazza di 23 anni, si presentò alla porta dell’appartamento di Shiraishi, a Zama, nella prefettura di Kanagawa. Fu lì che gli agenti scoprirono un orrore oltre ogni immaginazione: tre frigoriferi portatili e cinque contenitori pieni di resti umani. Teste, ossa, corpi mutilati con la carne raschiata via. Nove vite spezzate, nove identità ricostruite a fatica nel silenzio e nell’orrore.
Le vittime avevano tra i 15 e i 26 anni. In comune avevano fragilità, disagio e il fatto di aver scritto sui social – in particolare Twitter, oggi X – il proprio desiderio di farla finita. Shiraishi li contattava con un nickname che può essere tradotto come “il boia” e prometteva loro una morte indolore, una compagnia nell’ultimo passo. Invece, li attirava nel suo appartamento e li uccideva. Durante il processo, ha ammesso di averlo fatto “per soddisfare i propri impulsi sessuali”.
Secondo quanto riportato da Jiji Press, nell’atto d’accusa si legge che Shiraishi usava Twitter per cercare persone che esprimessero tendenze suicide. Offriva loro ospitalità, comprensione, conforto. Poi la trappola scattava. Gli omicidi si sono consumati nell’arco di tre mesi, tra agosto e ottobre 2017. L’ultima vittima, quella che ha portato all’arresto, fu una giovane donna che aveva manifestato l’intenzione di togliersi la vita. Fu suo fratello, insospettito, a segnalare alla polizia gli ultimi messaggi che aveva scambiato online. Quei messaggi hanno condotto all’appartamento degli orrori.
Nel 2020, al termine di un processo molto seguito dall’opinione pubblica, Shiraishi fu condannato a morte. I giudici non accolsero la tesi difensiva secondo cui le vittime avrebbero acconsentito alla morte. Al contrario, si stabilì che le aveva manipolate e poi soppresse con freddezza. Il suo avvocato aveva presentato appello presso l’Alta Corte di Tokyo, ma il ricorso fu poi ritirato, rendendo definitiva la condanna.
La giustizia giapponese ha tempi lunghi ma non dimentica. L’impiccagione di Shiraishi è la prima esecuzione dal luglio 2022. In Giappone, la pena capitale è prevista per i crimini più gravi e avviene con un rituale rigido, senza preavviso, nel silenzio più assoluto. Né i familiari né gli avvocati vengono avvisati prima dell’esecuzione: la notizia arriva solo dopo che la corda è calata.
“Avrei preferito che vivesse il resto della sua vita riflettendo su ciò che ha fatto”, ha dichiarato alla NHK il padre di una delle vittime, alla notizia dell’avvenuta esecuzione. “Morire in pochi secondi è troppo facile per lui”.
Il caso ha avuto un impatto enorme in Giappone. Ha scatenato un dibattito nazionale sulla vulnerabilità psicologica dei giovani, sulla solitudine, sul disagio mentale e sull’uso dei social come canale di adescamento. Le autorità hanno avviato campagne di sensibilizzazione e numerosi centri anti-suicidio hanno rafforzato la presenza online, proprio per intercettare chi, come le vittime di Shiraishi, cerca conforto in rete. Ma il dolore resta.
Il Giappone resta uno dei pochi Paesi industrializzati dove la pena capitale è ancora applicata. Le modalità delle esecuzioni, però, sono da sempre oggetto di critica da parte di organizzazioni internazionali come Amnesty International, che parla di “sistema disumano” per l’assenza di trasparenza e l’impossibilità, di fatto, di seguire l’iter da parte delle famiglie. Ma in casi come questo, il consenso popolare tende a schierarsi dalla parte del rigore assoluto. La fine del killer di Twitter è arrivata senza preavviso, come i suoi omicidi.
Cronaca Nera
Delitto di Garlasco, l’alibi di Marco Poggi crolla: non era in Trentino il giorno dell’omicidio di Chiara
Il settimanale Giallo riapre i dubbi sul delitto Poggi: Marco non sarebbe stato in vacanza coi genitori. L’albergatore smentisce la presenza in hotel. Intanto emerge una telefonata in cui la zia delle gemelle Cappa punta il dito: «Se Chiara è morta alle 9.30, ci siete dentro voi».

Il delitto di Garlasco torna a far parlare di sé con nuovi, inquietanti elementi. A oltre 17 anni dall’uccisione di Chiara Poggi, il settimanale Giallo pubblica una testimonianza che mette in discussione uno degli alibi dati finora per certi: la presenza in Trentino di Marco Poggi, fratello della vittima, il giorno dell’omicidio. E intanto, spunta un audio choc in cui si discute dell’orario della morte e del possibile coinvolgimento delle gemelle Cappa.
Secondo la versione storica, la famiglia Poggi si trovava in vacanza a Falzes, in Alto Adige, con Marco e con l’amico Alessandro Biasibetti, oggi frate, oltre ai genitori. Ma ora il settimanale riporta le parole del gestore dell’albergo dove soggiornavano i genitori: «Avevano una stanza matrimoniale, Marco non era con loro. Nemmeno i Biasibetti. È sicuro, perché conosceva molto bene la famiglia e ricorda benissimo quel giorno, quando furono chiamati e lasciarono di corsa l’hotel per tornare a Garlasco».
Una dichiarazione che getta nuove ombre su un alibi considerato finora inattaccabile. E che, se confermata, riaprirebbe interrogativi cruciali sull’intera ricostruzione di quelle ore. Perché nessun investigatore – sempre secondo Giallo – avrebbe mai pensato di sentire il gestore dell’albergo per verificare la versione dei fatti data dai Poggi.
Durissima la reazione dei legali della famiglia, gli avvocati Gian Luigi Tizzoni e Francesco Compagna, che parlano di «innumerevoli falsità» e di un «silenzio inspiegabile» da parte della Procura: «Dispiace che la Procura di Pavia non abbia sinora sentito il bisogno di intervenire nemmeno di fronte alle innumerevoli falsità che leggiamo ogni giorno, su iniziativa di soggetti privi di qualsiasi scrupolo».
Ma non è tutto. Il quotidiano Il Tempo pubblica una telefonata privata tra Maria Rosa, madre delle gemelle Stefania e Paola Cappa, e la sorella Carla. Una conversazione captata nel corso delle indagini, in cui si discute – con toni crudi – della fascia oraria in cui sarebbe avvenuto il delitto. «A loro fa tanto comodo spostare l’orario della morte di Chiara – dice Carla – perché se è morta alle 9.30-10, ci siete dentro voi altri». Un riferimento chiaro a un’eventuale incompatibilità tra gli orari dei movimenti delle sorelle Cappa e l’omicidio.
La stessa Carla rincara: «La Stefania era al telefono e tu… a fare le commissioni. E invece se metti l’orario più tardi, lui è dentro in pieno!». Quel “lui” è Alberto Stasi, l’ex fidanzato di Chiara, già condannato a 16 anni per l’omicidio.
Maria Rosa racconta l’interrogatorio: «Dodici ore sono stata là… dalle 11.30 della mattina. Siamo andate tutte e tre… ognuna quattro ore». Carla le chiede: «Ma tu non avevi tutti gli scontrini di quello che avevi fatto?». E la madre risponde: «Sì, ma cosa vuol dire? Lei doveva essere sicura al cento per cento… mi ha chiesto come ero vestita, a che ora sono uscita… io non ho niente da nascondere».
«E le figlie? Anche loro per cosa?», domanda ancora Carla. «Sempre per la storia della mattina, il tutore… anche a me hanno chiesto del tutore, dove arrivava? Se poteva toglierselo».
Frammenti di un’indagine lunga, intricata e sempre più opaca, che a distanza di anni continua ad alimentare dubbi. Tra alibi mai verificati, orari ballerini e telefonate mai chiarite, il mistero della villetta di via Pascoli è ancora ben lontano dall’essere chiuso per davvero.
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