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Sic transit gloria mundi

Bella fregatura, ‘sto Trump: i miliardari che lo hanno sostenuto bruciano 220 miliardi di dollari, Wall Street crolla e l’America trema

l Nasdaq ha perso mille miliardi in un solo giorno dopo che il presidente ha ammesso il rischio di recessione. Il Pil degli Stati Uniti è in calo del 2,4%, mentre le politiche sui dazi stanno soffocando la crescita. Wall Street in panico, mentre dalla Casa Bianca minimizzano: “Le aziende prosperano”.

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    Il sogno americano secondo Donald Trump sta diventando un incubo. A partire dal 20 gennaio, data del suo insediamento ufficiale, i miliardari che hanno presenziato alla cerimonia e applaudito il tycoon hanno visto volatilizzarsi 220 miliardi di dollari in ricchezza. Il più colpito è Elon Musk, che ha bruciato 145 miliardi, seguito da Jeff Bezos (-31 miliardi), Sergey Brin (-23 miliardi), Mark Zuckerberg (-8 miliardi) e Bernard Arnault (-5 miliardi).

    Un vero bagno di sangue finanziario, certificato da Bloomberg, che si inserisce in un quadro economico già compromesso. Il crollo del Nasdaq, che ha bruciato mille miliardi di dollari in un solo giorno, è arrivato dopo che Trump ha apertamente ammesso il rischio di una recessione. Un’affermazione che ha scatenato il panico sui mercati e aggravato la sfiducia degli investitori, già in allarme per la gestione dei dazi e la crescente tensione con l’Europa e la Cina.

    Mentre Wall Street affonda, dalla Casa Bianca minimizzano. “C’è una forte divergenza tra il mercato azionario e ciò che vediamo nelle aziende”, ha dichiarato un funzionario dell’amministrazione, cercando di spegnere l’incendio mediatico. Il portavoce Kush Desai ha ribadito che l’agenda economica di Trump basata su dazi, deregulation e sviluppo energetico porterà miliardi di investimenti e migliaia di nuovi posti di lavoro.

    Peccato che, al momento, la realtà racconti ben altro. La stessa Federal Reserve di Atlanta ha certificato un calo del 2,4% del Pil nel primo trimestre dell’anno, un dato preoccupante che conferma il rallentamento dell’economia statunitense. Gli effetti delle politiche protezionistiche di Trump stanno già emergendo: le importazioni record delle aziende americane, fatte nel timore di nuove tariffe, hanno falsato il dato sulla crescita e gonfiato il deficit commerciale.

    Ma i problemi non si fermano ai mercati finanziari. Un sondaggio Reuters ha rivelato che il 91% degli economisti prevede una recessione causata dalle scelte di Trump. Le aziende faticano a pianificare investimenti a lungo termine, i costi delle materie prime sono aumentati e i consumatori americani vedono un futuro sempre più incerto.

    Il rischio non è solo quello di una recessione tecnica, ma di una vera stagflazione, con un mix letale di crescita zero e inflazione alta. Le “Magnifiche 7”, le colossali aziende tech che hanno trainato il mercato negli ultimi anni, sono ufficialmente entrate in un mercato orso, avendo perso in media il 22% dai massimi di dicembre. Tesla ha perso il 53,7%, Nvidia il 30%, Bitcoin il 28%, mentre Apple, pur difendendosi meglio, registra un calo del 14%.

    Chi sembra aver fiutato il pericolo è Warren Buffett, il quale ha incrementato la liquidità della sua holding Berkshire Hathaway fino a 334 miliardi di dollari, riducendo al minimo l’esposizione ai titoli più rischiosi. Un segnale che i grandi investitori stanno preparandosi al peggio.

    Nel frattempo, la politica economica di Trump non aiuta a rassicurare i mercati. Le dichiarazioni presidenziali sul rischio di recessione, fatte con la solita leggerezza, hanno aggravato la sfiducia degli investitori. Per la prima volta, il tycoon ha lasciato intendere che una crisi potrebbe essere inevitabile, quasi come se volesse normalizzarne l’idea per evitare di pagarne il prezzo politico.

    A complicare ulteriormente il quadro c’è la crescente ostilità dell’Europa, che sta riconsiderando il proprio rapporto con gli Stati Uniti. Le scelte di Trump di allontanarsi dagli alleati storici e avvicinarsi a Putin stanno creando tensioni diplomatiche che potrebbero tradursi in una riduzione della cooperazione economica tra le due sponde dell’Atlantico.

    Nel frattempo, la Cina non è rimasta a guardare. Il crollo di Tesla è in parte dovuto alle nuove misure di Pechino, che ha aumentato la produzione interna di veicoli elettrici per contrastare l’invasione delle auto americane nel mercato asiatico. Un altro effetto collaterale della strategia di Trump, che invece di proteggere le aziende americane, rischia di accelerarne il declino.

    Se il trend attuale dovesse continuare, le elezioni di midterm del 2026 rischiano di trasformarsi in un disastro per il Partito Repubblicano. Perdere il controllo del Congresso significherebbe paralizzare la Casa Bianca, rendendo impossibile a Trump portare avanti la sua agenda politica.

    La Casa Bianca minimizza, i mercati crollano, gli economisti parlano di recessione imminente. Ma Trump, come sempre, sembra vivere in una realtà parallela. E l’America sta già iniziando a pagare il conto.

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      “Comunisti no, gay solo se non sculettano”. Il delirio dello chef stellato in cerca di personale

      Dalla nostalgia per la cucina “da caserma” agli insulti ai giovani cuochi, passando per i tatuaggi di Mussolini e la svastica: lo chef stellato Paolo Cappuccio racconta il suo personale concetto di rigore. Un concentrato di luoghi comuni, rancore sociale e arroganza padronale condito da accuse pesanti e zero autocritica.

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        C’è chi usa i social per condividere piatti e ricette. E poi c’è Paolo Cappuccio, chef napoletano classe 1977, che ha preferito farlo per pubblicare un post a metà tra la bacheca fascistoide e lo sfogo da bar sport. Il testo – rimosso dopo insulti e minacce di morte – vietava l’assunzione di «fancazzisti, comunisti, drogati, ubriachi e per orientamento sessuale». E ora lo chef stellato, lungi dal fare marcia indietro, rivendica ogni parola.

        «Da dopo il Covid i dipendenti fanno quello che vogliono», attacca. «Un cuoco arriva in ritardo e ti dice che se non ti va bene se ne va. Lo riprendi? Si mette in malattia. E il medico lo giustifica pure». Il quadro che dipinge è quello di un’Italia dove gli chef sono martiri e gli stagisti dei ricattatori seriali. Ma per Cappuccio la colpa non è solo dei giovani. È dei “comunisti”.

        «Il dipendente comunista lo riconosci subito», assicura con inquietante certezza. «Si lamenta della mensa, vuole sapere la tredicesima prima ancora di iniziare. Quelli di destra invece sono operosi e vogliono diventare titolari. La differenza è abissale». E pazienza se nel 2025 parlare così significa semplicemente fare propaganda da osteria.

        Poi ce l’ha con MasterChef, i “cuochi cocainomani del Nord”, i dipendenti con le “devianze sessuali”. E con chi? Con chi osa presentarsi col “pantalone calato” o, peggio, «con i tacchi a sculettare in cucina». Come si distingue, secondo lui, un gay accettabile da uno “sbagliato”? Non lo dice, ma lo fa capire. La linea è sottile, quanto una padella sporca: «Se sei serio e lavori, sei dei nostri. Altrimenti, no».

        Quando si parla dei tatuaggi – Mussolini, svastica, Altare della Patria – si passa dal ridicolo al tragico. «Se vietano la falce e martello mi cancello la svastica», dice con candore. «Per me è solo una protesta». Non contro la storia o i crimini del nazismo, ma «contro i radical chic che parlano di poveri e poi vanno in Costa Azzurra». Applausi. Ironici.

        «Siamo schiavi dei dipendenti», si lamenta ancora. Una frase che detta da un datore di lavoro suona quanto meno surreale, se non offensiva. Ma l’uomo non fa una piega. Anzi, rilancia: «Nel mio albergo ho beccato anche un pedofilo. Ma non l’ho potuto licenziare. Giusta causa? Non esiste».

        Che lo chef abbia avuto esperienze negative con parte del suo personale non è in discussione. Che la sua risposta sia un mix di disprezzo sociale, semplificazioni ideologiche e pregiudizi sessisti, purtroppo neppure. Se i giovani cuochi fuggono da brigate tossiche, forse una riflessione servirebbe. Ma a Cappuccio non interessa. Troppo impegnato a contare i “like” tra nostalgici e reazionari.

        E, si spera, a cancellare le prenotazioni di chi, la roba cucinata da uno chef così, non vuole neppure annusarla da lontano.

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          Da Sanremo al Circo Massimo, passando per Springsteen: il vero tour dell’estate è quello di Elly Schlein

          La segretaria del Pd beccata a San Siro con la compagna Paola Belloni per il concerto di Springsteen. Applausi, selfie (mai pubblicati) e un messaggio chiaro: Elly è ovunque, tranne che dove dovrebbe esserci. E cioè, sul fronte dell’opposizione.

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            Mentre la destra impone l’agenda e il Paese affoga tra crisi economiche, follie trumpiane e guerra internazionali, Elly Schlein canta “Born to Run” sotto il palco di Bruce Springsteen, abbracciata alla sua compagna Paola Belloni. Una serata da “coppia dem rock” come la chiamano i fan, tra le star di Hollywood e i soliti influencer italiani. Solo che lei non è un’influencer. O non dovrebbe esserlo.

            La segretaria del Pd è stata avvistata a San Siro mentre si godeva tre ore di rock e sudore con il “Boss”, circondata da Gigi Hadid, Bradley Cooper e Olivia Wilde. Con lei, la sua compagna storica, Paola Belloni, che a fine serata ha condiviso su Instagram un post pieno di entusiasmo: «Bruce ha cantato, ballato, urlato per tre ore. Steve, operato da quattro giorni, ha suonato con lui. Io, 36 anni, sto abbracciata al Voltaren perché ero sottopalco».

            Ecco, forse è lì il problema: sottopalco. Sempre lì. Perché Schlein sembra vivere ormai perennemente in una tournée parallela. Dopo i duetti con Annalisa al Pride, il freestyle con J-Ax, il karaoke sanremese, le cover dei Cranberries alla Festa dell’Unità e i video da fangirl per Brunori, il suo Pd sembra più un fan club che un partito d’opposizione.

            Che Schlein sia appassionata di musica è noto. Suona la chitarra, si diverte, ha gusti indie e mainstream. Ma c’è chi, tra i suoi stessi elettori, comincia a chiedersi se abbia ben chiaro che la politica non è una scaletta da concerto. La sua compagna chiede rispetto per la privacy — giustamente — ma Elly sotto i riflettori ci si piazza con entusiasmo. Tranne quelli del Parlamento.

            Nel frattempo, Fratelli d’Italia avanza, Maloni governa, e l’opposizione viene affidata a una “story” su Instagram o a una pagella social post-Sanremo. I fan saranno anche felici. Gli elettori un po’ meno. Perché se la Schlein non capisce che la sua missione non è ballare coi Boss, ma suonarle alla destra, allora qualcuno dovrebbe suggerirle che forse è arrivato il momento di cambiare palco.

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              Non plus ultras: condannato l’ex bodyguard di Fedez

              Christian Rosiello, vicino alla Curva Sud e per anni guardia del corpo del rapper, finisce nei guai con altri ultrà storici di Milan e Inter

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                A San Siro, si diceva, le curve comandano. E infatti, per anni, i veri padroni dello stadio sono stati loro: gli ultras della Sud rossonera e della Nord nerazzurra. Ma ora la giustizia presenta il conto. E il conto è salato.

                Christian Rosiello, ultrà milanista ed ex bodyguard di Fedez (che non risulta indagato), è stato condannato a quattro anni e venti giorni di reclusione per associazione a delinquere, nel secondo processo abbreviato legato alla maxi inchiesta su estorsioni, traffici illeciti e gestione violenta delle curve dello stadio Meazza.

                Con lui, sono finiti condannati anche Francesco Lucci, fratello del più noto Luca Lucci (ex leader della Curva Sud, già condannato), che si è preso 5 anni e 6 mesi, e Riccardo Bonissi, condannato a 3 anni e 8 mesi.

                Il verdetto è arrivato dalla sesta sezione penale del Tribunale di Milano, che ha accolto le richieste della Procura dopo un’indagine durata mesi, condotta dalla Digos e dalla Guardia di Finanza. Al centro del fascicolo: un sistema capillare di potere nelle curve, tra minacce ai club, bagarinaggio, vendita abusiva di merchandising e uso sistematico della violenza.

                Le nuove condanne arrivano a pochi giorni da quelle inflitte ai vertici storici della tifoseria: Luca Lucci e Andrea Beretta, quest’ultimo ex capo della curva interista, entrambi condannati a 10 anni di carcere.

                Il nome di Rosiello, figura nota nell’ambiente milanese anche per essere stato per un periodo nella scorta personale di Fedez, è uno dei più visibili fra quelli emersi nell’inchiesta. Per gli inquirenti, avrebbe avuto un ruolo attivo nell’organizzazione criminale che controllava la Curva Sud.

                Un sistema, quello delle curve milanesi, che ora si scopre marcio ben oltre i cori da stadio.

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