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Sic transit gloria mundi

Corona, l’oscena farsa di “Gurulandia”: perché qualcuno paga per ascoltare certe idiozie?

Lo spettacolo dell’ex re dei paparazzi è un trionfo di insulti, volgarità e provocazioni di infimo livello. Ma il vero problema è chi gli dà spazio e lo applaude. Il teatro non merita questo scempio.

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    Il problema non è solo Fabrizio Corona. Il problema è che esista un pubblico disposto a pagare per vederlo esibirsi in uno “spettacolo” in cui il teatro, un tempo tempio della cultura e del confronto, diventa lo sfondo per tre ore di insulti, bestemmie e volgarità gratuite. E non si tratta di satira, né di un monologo di denuncia: Gurulandia è un caravanserraglio di oscenità in cui Corona si lascia andare a offese sessiste, personali e grottesche, che trovano eco nei fragorosi applausi di chi evidentemente trova divertente assistere a una deriva così misera.

    L’ultima performance dell’ex re dei paparazzi si è consumata al Teatro Nazionale di Milano, e se c’è qualcosa di davvero incredibile in tutta questa storia è che un teatro con una reputazione e una storia alle spalle abbia potuto ospitare un tale scempio. La domanda è una sola: chi decide che questo sia spettacolo? Chi pensa che mettere su un palco un uomo con una sigaretta accesa che insulta giornalisti, artisti e colleghi sia qualcosa da promuovere come “evento”?

    L’imbarazzante “one man show” di Corona

    Tre ore di nulla, se non una sequela di insulti diretti a personaggi del mondo dello spettacolo. Nel mirino, questa volta, Selvaggia Lucarelli, attaccata con epiteti irripetibili, paragonata a una sagoma di cartone con cui Corona ha persino mimato un atto sessuale sul palco. Il tutto accompagnato da risate, applausi e la complicità di un avvocato – Ivano Chiesa – che, anziché indignarsi, si presta al circo.

    Lungi dall’essere un attacco isolato, quello di Corona è un format ripetuto. A Torino, al Teatro Alfieri, si era già lasciato andare a simili sceneggiate, il che ci porta a una seconda domanda: quali teatri italiani continuano a spalancargli le porte? Chi approva la sua presenza in cartellone? Chi ha stabilito che la missione del teatro in Italia sia passata da ospitare testi e idee a fare da megafono a un personaggio che ha costruito il suo intero “successo” sulla violenza verbale e la mancanza di qualsiasi concetto di dignità?

    Il problema non è solo lui. È chi lo finanzia, chi lo ospita e chi applaude.

    Il teatro trasformato in baraccone da circo

    Ci si chiede poi perché la violenza verbale sia sempre più sdoganata. Perché nei dibattiti televisivi si urla sempre più forte. Perché il livello del confronto pubblico è sceso a livelli imbarazzanti. La risposta è che questo modello funziona, che esiste una domanda per questo spettacolo degradante, che esistono persone disposte a pagare un biglietto per sentire uno come Corona insultare una giornalista, un cantante o un attore.

    Ma chi esce vincitore da tutto questo? Corona? Il suo pubblico, che per tre ore si compiace nel sentire insulti sessisti e provocazioni adolescenziali? O forse chi, dietro le quinte, lo usa come fenomeno da baraccone per fare incasso?

    Nel frattempo, il Teatro Nazionale di Milano ha rilasciato una nota di scuse, promettendo di prestare maggiore attenzione alla programmazione futura. Davvero serve che il danno sia fatto prima di accorgersi dell’errore? Che razza di gestione è questa, che si accorge solo dopo lo “spettacolo” che si è lasciata trasformare in un palco da caserma?

    Il circo continuerà?

    Selvaggia Lucarelli ha parlato di “aria tossica”. Ha ragione. E la cosa peggiore è che si fa finta di non vederlo, si minimizza, si ride. Tutto diventa contenuto virale, intrattenimento, meme. Fino a quando? Fino a quale punto si continuerà a lasciar passare queste cose come un “personaggio che si fa showman” e non per quello che è: un uomo senza niente da dire, che monetizza odio e insulti, e un sistema complice che lo lascia fare.

    Il teatro – quello vero – merita di meglio. L’Italia merita di meglio. Ma finché ci sarà chi paga per assistere a questo spettacolo indegno, il circo non chiuderà mai.

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      Editoriale: Caro Vance, Dio non costruisce muri

      Dal pranzo con Meloni ai riti di Pasqua, JD Vance si presenta come il volto nuovo del conservatorismo Usa. Ma sotto la superficie devota resta il marchio di un populismo aggressivo che inneggia alla chiusura e alla discriminazione.

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        Caro vicepresidente Vance,
        le abbiamo viste le foto con San Pietro sullo sfondo, le frasi a effetto sullo “spirito umano che si innalza” e il sorriso soddisfatto immortalato tra un rigatone alla gallinella di mare e un selfie davanti a Castel Sant’Angelo.
        Abbiamo letto anche i suoi tweet carichi di devozione e ammirazione per Roma, “costruita da persone che amavano Dio e l’umanità”.
        Belle parole, davvero. Peccato che suonino tremendamente vuote, dette da chi nella pratica politica costruisce muri, non ponti.

        Perché vede, signor Vance, Dio — almeno quello predicato da quella Chiesa che lei tanto cita — non si è mai occupato di respingere disperati né di sospettare dei diversi.
        Dio non ha chiesto ai suoi fedeli di barricarsi dietro una cultura monolitica, né di temere la libertà di pensiero.
        Dio, nella narrazione evangelica, accoglie, non divide.
        Un concetto semplice, che però sembra essersi perso nei meandri della sua agenda politica.

        Mentre in Italia ammiccava sorridente a Giorgia Meloni e riceveva l’applauso dei nostri vicepremier Salvini e Tajani, negli Stati Uniti lei porta avanti una visione del mondo che sa di epoche che credevamo sepolte:

        • Libertà di parola sì, ma solo per chi la pensa come lei.
        • Famiglia tradizionale sì, ma senza spazi per chi vive diversamente.
        • Occidente da salvare sì, ma difendendolo con la paura e la chiusura.

        Lei si presenta come il paladino dei valori cristiani, ma si scaglia contro l’immigrazione, contro i diritti delle minoranze, contro la cultura del rispetto.
        In nome di che cosa? Di un’idea di “ordine naturale” che sembra più vicina al darwinismo sociale che alla carità cristiana.

        Non sfugge a nessuno, poi, il tempismo perfetto della sua visita romana: Pasqua, San Pietro, riti solenni.
        E magari, chissà, un incontro con il Papa, se le agende lo permetteranno.
        Un Papa che, ogni volta che apre bocca, sembra predicare esattamente il contrario di quello che lei incarna: apertura, accoglienza, dialogo, misericordia.

        Le sue parole, caro Vance, parlano di Dio.
        Ma i suoi atti parlano di paura.
        Le sue foto raccontano una fede plastificata, da social network, che nulla ha a che vedere con l’amore per il prossimo.
        Quel prossimo che, nei suoi discorsi, è sempre una minaccia da respingere, mai un fratello da abbracciare.

        La verità, signor vicepresidente, è che non basta camminare in Vaticano per essere cristiani.
        Non basta commuoversi davanti a una basilica per redimersi da un’agenda politica costruita sull’esclusione e sull’odio mascherato da valori.

        Forse, la prossima volta che visiterà Roma, dovrebbe fermarsi davvero un momento.
        E magari ricordarsi che, in quella città che tanto ammira, la parola “cattolico” significa “universale”.
        Non “nostro”, non “di chi ce lo merita”, non “di chi rientra nei nostri parametri”.
        Universale.

        E Dio, per fortuna, resta di tutti.
        Anche di quelli che lei vorrebbe lasciare fuori dalle sue mura immaginarie.

        Buon viaggio di ritorno, Mr. Vance.
        E se trova il tempo, magari, provi anche a costruire qualche ponte vero.
        Ne abbiamo tutti un disperato bisogno.

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          Sic transit gloria mundi

          Trump ribattezza Giorgia Meloni: “Georgia”, come lo Stato. Altro che alleanza speciale

          Meloni vola alla Casa Bianca sognando l’asse sovranista, ma finisce archiviata da Trump come “Georgia”. Un errore? O il solito modo di umiliare gli interlocutori senza nemmeno sforzarsi di ricordare come si chiamano?

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            Tanto entusiasmo, tante strette di mano, tanti sorrisi. E alla fine, Giorgia Meloni è diventata… Georgia.
            Donald Trump, fedele alla sua tradizione di finezza diplomatica, ha deciso di archiviare così l’incontro alla Casa Bianca: un post euforico su Truth in cui ribattezza la premier italiana con il nome di uno Stato americano. Una nuova perla per il tycoon, che dopo “Giuseppi” Conte firma un’altra memorabile gaffe da album.

            «La premier Georgia Meloni ama il suo Paese. FANTASTICA!!!», scrive Trump, regalando alla storia la nuova caricatura di un rapporto che avrebbe dovuto sancire l’alleanza tra due campioni del sovranismo mondiale.
            Ma che, a ben vedere, si è risolta come sempre in una scrollata di spalle americana: grazie del viaggio, cara, e ora vai a sistemarti nella collezione di “cosi” che ho incontrato.

            Il paragone è inevitabile. Quando non ti ricordi il nome dell’amico del bar, lo chiami “coso”. Quando Trump non si ricorda (o non si sforza di ricordare) il nome di un capo di governo, lo ribattezza a piacere. E la leggerezza con cui liquida i suoi interlocutori non è mai casuale: è un modo per ribadire, senza troppi complimenti, chi conta davvero e chi invece no.

            Giorgia, pardon, Georgia, si è presentata piena di buone intenzioni: dialogo transatlantico, negoziati sui dazi, mediazione con l’Unione europea. Peccato che, agli occhi di Trump, il suo destino si sia compiuto in cinque secondi netti: sorrisi, foto di rito, complimenti generici («una persona molto speciale»), e infine l’assegnazione del nuovo nome da battaglia.
            Un destino comune a tutti quelli che orbitano, più o meno inconsapevoli, nell’universo egocentrico del tycoon.

            E se Giuseppe Conte ha pagato “Giuseppi” con anni di scherni e meme, prepariamoci: “Georgia Meloni” diventerà il tormentone perfetto per gli avversari politici, i social, e magari anche per qualche editorialista poco incline all’ossequio.

            Il più grande paradosso? Giorgia Meloni era partita per Washington con il sogno di essere riconosciuta come interlocutrice privilegiata della nuova destra americana. È tornata a casa con un nome nuovo, e nemmeno troppo originale.
            Difficile costruire un asse sovranista quando il tuo presunto alleato non ti riconosce nemmeno al momento di taggare il post celebrativo.

            Nel frattempo, Trump — che della politica internazionale ha la stessa visione con cui si sceglie il menù di un fast food — continua a inanellare lapsus che sono in realtà piccoli atti di dominio. Se ti chiamo con il nome sbagliato, dice implicitamente, non sei poi così importante.

            E allora, che la premier italiana si chiami Giorgia, Georgia o semplicemente “coso”, poco importa: l’importante è aver fatto la foto, aver raccolto gli applausi dei sostenitori e aver confermato, ancora una volta, che tra Washington e Roma la distanza non è solo geografica.
            È anche — e soprattutto — gerarchica.

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              Giorgia Meloni regala la Nutella a re Carlo: “Se sei giù, aprila”

              Durante la cerimonia dei Premi Leonardo, Giorgia Meloni ha svelato il retroscena del simpatico regalo a re Carlo: un barattolo di Nutella come simbolo della qualità italiana. Un gesto apprezzato dal sovrano, grande amante dei sapori del nostro Paese.

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                Un barattolo di Nutella come antidepressivo reale. Giorgia Meloni ha scelto un gesto tanto curioso quanto efficace per conquistare re Carlo III durante la sua recente visita ufficiale in Italia. A raccontarlo è stata la stessa premier, intervenendo a Villa Madama durante la cerimonia dei Premi Leonardo, davanti a una platea che ha sorriso di gusto.

                «Quando Pietro Ferrero ha iniziato a produrre la pasta gianduiotto nella sua Topolino, non avrebbe mai immaginato che un giorno il primo ministro italiano avrebbe regalato un barattolo di Nutella al re d’Inghilterra», ha dichiarato Meloni, rivelando così il simpatico retroscena della visita ufficiale a Villa Pamphilj.

                Il dono, però, non era soltanto un omaggio goloso. Accompagnato da un biglietto scritto di suo pugno, la presidente del Consiglio ha voluto aggiungere un tocco personale, suggerendo “istruzioni per l’uso” da vero manuale della felicità: «In una domenica di pioggia, se dovessi essere un po’ giù di corda, indossa il tuo miglior pigiama, siediti sul divano, accendi la serie tv che volevi vedere da tanto tempo, prendi un cucchiaino e apri questo regalo: ti sentirai meglio».

                Un modo semplice, ma efficace, per raccontare al sovrano britannico l’anima dei prodotti italiani: non solo eccellenza gastronomica, ma emozioni vere, capaci di scaldare il cuore. «I prodotti italiani si affermano nel mondo perché fanno bene anche all’anima», ha sottolineato Meloni. «Non vincono sul prezzo, ma sulla qualità».

                Il regalo ha strappato un sorriso divertito a re Carlo, da sempre estimatore della cucina italiana. Non a caso, solo qualche settimana prima nella sua residenza di Highgrove aveva organizzato una cena dedicata interamente ai sapori del Belpaese. E durante il suo recente discorso davanti alle Camere riunite del Parlamento italiano, il sovrano aveva persino scherzato: «Spero possiate perdonarci se a volte corrompiamo la vostra cucina. Lo facciamo con il massimo affetto possibile».

                Il soggiorno romano di Carlo e Camilla è stato all’insegna della buona tavola. La terza giornata si è chiusa con una cena di gala al Quirinale, in cui i piatti italiani sono stati protagonisti assoluti. E non sono mancate incursioni golose anche fuori programma: passando davanti alla storica gelateria Giolitti, i sovrani si sono lasciati tentare. Nonostante la folla li abbia trattenuti dall’entrare, i gelatai hanno servito loro una coppetta di gelato al caramello direttamente all’esterno. Un gesto spontaneo, accolto con sorrisi e gratitudine.

                Il barattolo di Nutella, dunque, non è stato solo un regalo simpatico, ma un piccolo simbolo di quell’Italia che Carlo ama e conosce bene: un’Italia che sa unire eccellenza gastronomica, tradizione e quella capacità tutta nostrana di rendere ogni incontro un’occasione di gioia.
                E, chissà, forse davvero, in un pomeriggio di pioggia, il re d’Inghilterra seguirà le istruzioni di Giorgia Meloni: pigiama, serie tv e un cucchiaino di dolcezza tutta italiana.

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