Sic transit gloria mundi
Sanremo 2025, chi sono i 30 Big di Carlo Conti: rapper alla conquista dell’Ariston, veterani pronti a incantare e giovani semi sconosciuti che sfidano i giganti
Dal ritorno di Massimo Ranieri e Marcella Bella al trionfo del rap con Fedez, Tony Effe ed Emis Killa, fino alle promesse come Sarah Toscano e Clara. Un mix esplosivo che guarda al futuro senza dimenticare la tradizione, mentre gli esclusi fanno già discutere.

«Finalmente potrò dormire… almeno fino a febbraio, perché poi sarà un delirio». Con una battuta, Carlo Conti ha chiuso l’annuncio dei 30 Big in gara al Festival di Sanremo 2025. Ora la parola passa alla musica. Ma se avete più di 40 anni, preparatevi a consultare Google. Non sarà per capire che giorno si terrà Sanremo 2025 (dal 5 al 12 febbraio, appuntatevelo), ma per scoprire chi siano almeno la metà dei 30 Big annunciati ieri. Il direttore artistico, chiamato a bissare i successi del Re Mida Amadeus, li chiama affettuosamente «un bouquet di fiori sanremesi», ma più che un mazzo di rose colorate, sembra una giungla tropicale, dove c’è davvero un po’ di tutto e convivono cantautori di culto, rapper esplosivi e giovani promesse di cui, ammettiamolo, non avete mai sentito parlare.
Ci sono i nomi attesi, i ritorni di peso e le new entry che faranno discutere. Fedez, ad esempio, torna all’Ariston con una canzone che Carlo Conti ha definito «molto personale». Peccato che tra i Big ci sia anche Tony Effe, noto per il suo caratterino e per i trascorsi burrascosi con il rapper milanese. Per settimane se le sono musicalmente suonate di santa ragione, insultandosi in ogni maniera possibile con termini e argomenti decisamente sopra le righe. Metterli sullo stesso palco (quello dell’Ariston) potrebbe essere un rischio. «Sono ragazzi intelligenti, canteranno e basta», rassicura Conti. Sì, certo, come no.
Poi ci sono gli habitué del Festival come Elodie, che di Sanremo ormai conosce ogni angolo. Achille Lauro, che deve dimostrare di saper sorprendere anche senza piume e lustrini, e Noemi, che, all’ottava partecipazione, spera di puntare dritta alla vittoria. Per bilanciare ci sono anche giovani talenti che puntano su un linguaggio più sofisticato. È il caso di Serena Brancale, cantautrice che mescola jazz, soul e R&B, e di Lucio Corsi, che con il suo stile retrò ha conquistato persino Carlo Verdone, il quale l’ha voluto nel suo “Vita da Carlo”. Sconosciuta ai più ma attesissima dai fan, Joan Thiele (che con Elodie firmò Proiettili per il film Ti mangio il cuore, premiato con il David di Donatello). Dalla tv arrivano anche Clara, star di Mare Fuori, Gaia e la giovanissima Sarah Toscano, finalista di Amici 2023, che sfida i veterani con la grinta dei suoi 18 anni.
E poi tanto, tanto (forse troppo) rap, che quest’anno va a cancellare completamente la quota rock, del tutto assente. Un chiaro segno che Conti vuole parlare alla Generazione Z, anche se il pubblico più tradizionalista potrebbe storcere il naso. Oltre a Fedez e Tony Effe, ci sono Emis Killa, Willie Peyote, Rkomi, Rose Villain, Rocco Hunt, Bresh e Olly (reduce dal duetto con Angelina Mango, Per due come noi). «È il momento di dare spazio alla musica che rappresenta i giovani», ha detto Conti. Il messaggio è chiaro, ma forse sarà il pubblico over 40 a rumoreggiare in sala di fronte a un tale proluvio di parole in rima.
A far da contraltare, ecco la quota “senior” che dovrebbe garantire qualità e melodia. Sanremo non sarebbe Sanremo senza un pizzico di nostalgia. Non mancano i grandi ritorni, a cominciare da Massimo Ranieri, che, a 78 anni, si prepara a incantare il pubblico con la sua voce e il suo carisma. Accanto a lui, Marcella Bella, che, a 72, promette di riportare sul palco un po’ di quell’eleganza che troppo spesso manca al Festival. A dar loro manforte Giorgia, che passa dalla conduzione di X Factor al palco più iconico d’Italia, e il calabrese Brunori Sas, a sorpresa nel cast. Una scelta che farà felici gli amanti del cantautorato di alto livello.
Non mancano i volti noti al pubblico sanremese. Simone Cristicchi, Francesco Gabbani, Francesca Michielin e i Modà sono pronti a tornare, mentre Irama, i Coma_Cose e i The Kolors cercheranno di consolidare il loro successo. E poi Shablo, che con Guè, Joshua e Tormento porta una collaborazione interessante quanto rischiosa. Il pubblico sanremese saprà apprezzare?
E poi ci sono loro, i grandi esclusi, che si fanno notare quasi quanto i Big in gara. I Jalisse, bocciati per la 28esima volta, hanno scelto l’autoironia. «Neanche quest’anno siamo a Sanremo, brindiamo. Che vuoi fa’?». Con due birre e un sorriso, si confermano i campioni della resilienza.
Amedeo Minghi, invece, ha condiviso la lista dei Big sui social, chiedendo polemicamente ai fan cosa ne pensassero. La risposta? Centinaia di messaggi, solidarietà e nostalgia, ma niente Ariston per il cantautore. Al Bano, che sperava di chiudere la carriera con un’ultima partecipazione, si è limitato a un glaciale «no comment». Ma chi lo conosce rivela che ci è rimasto male, molto male.
Spariti nel nulla, invece, i veri big come Tiziano Ferro, Gianna Nannini e Blanco, più volte chiamati in ballo nel Toto-Sanremo delle ultime settimane, ma che restano purtroppo delle semplici suggestioni. A meno di non ritrovarceli tra gli ospiti… ma questa è un’altra storia.
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Sic transit gloria mundi
Selfie col Papa morto. Scusate, ma non meritiamo nemmeno l’Apocalisse
Non bastavano le dirette, i microfoni puntati ai passanti, le lacrime prefabbricate davanti alla Basilica. Adesso c’è anche la fila per il selfie col cadavere. Non per un saluto, non per pregare. Ma per “condividere l’esperienza” come se fosse un brunch con vista cupola. Ché se non lo posti, non è morto nessuno.

Un cadavere al centro della scena. Un corpo santo, riverito, amato, che ha guidato la Chiesa per oltre un decennio. E attorno, come mosche sul sacrario, si muove un’umanità deformata, irreversibilmente corrotta dal culto dell’apparenza. Altro che pellegrinaggio. Altro che raccoglimento. È la sagra del selfie post mortem.
Il Papa è morto, viva il contenuto. Si entra in Basilica non per fede, ma per feed. Si sfila davanti alla salma di Francesco come in un’attrazione macabra da Luna Park liturgico, con decine di telefonini spianati, schermi accesi, occhi lucidi non per commozione ma per la saturazione dello schermo. Un addetto ogni metro bisbiglia “no foto, no video”, come un mantra disperato. Nessuno lo ascolta.
Ci sono ragazze in posa con la boccuccia da duck face, signore che si immortalano col fazzoletto all’occhio, padri che riprendono i figli davanti al feretro come se fosse la giostra dei cavallini. C’è chi azzarda uno zoom, chi aggiusta la luce, chi chiede a un passante di scattare meglio. Come se dietro non ci fosse un Pontefice, ma una statua di cera da Madame Tussauds.
È questo il nuovo culto: il cordoglio condiviso in stories da 15 secondi, magari con sottofondo musicale. “Ciao Francesco, mi mancherai 😢🙏” – emoji, filtro seppia, hashtag #PapaForever. Una preghiera non detta, ma taggata.
Intorno, i microfoni delle tv infilano il naso ovunque, cacciando frasi da trafiletto e lacrime usa e getta. “Cosa significava per lei Papa Francesco?” chiede una giornalista con lo stesso tono con cui a Riccione ti domandano “Che crema prendi sul cono?”. La risposta è sempre uguale: “Un padre, un faro, un vuoto incolmabile”. Come se il dolore avesse un copione.
Nel frattempo, chi ha superato il cordone delle troupe diventa a sua volta reporter di sé stesso. Impugna il telefono, si gira verso la camera, e immortala il momento più sacro e intimo di tutta la liturgia cristiana con la naturalezza di un ragazzino al concerto di Ultimo.
E allora via alla processione di immagini: la salma, lo sfondo, il volto commosso ma ben inquadrato. Si fotografa il lutto, si monetizza l’assenza. Si incornicia la morte per mostrare che c’eravamo, che anche noi abbiamo visto, scattato, condiviso. Un’ostensione di narcisismo planetario, con la scusa della fede.
Questo non è il funerale di un Papa. È il reality della nostra fine culturale. Il rogo dell’intimità, il tracollo del senso, l’ultima unzione del buon gusto. Non siamo più nemmeno capaci di tacere davanti a un morto, figuriamoci se possiamo capire cosa sia il sacro. La sola liturgia che conosciamo è quella del pollice sullo schermo.
Davvero: che razza di umanità siamo diventati, se ci sentiamo in diritto di fare la gallery anche col pontefice defunto alle spalle? Dove pensiamo di arrivare con la nostra smania di esserci, anche nel lutto, anche nel dolore, anche davanti alla morte?
Forse non ci meritiamo nemmeno l’Apocalisse. Forse meritiamo solo noi stessi. Con i nostri filtri, i nostri telefoni, i nostri selfie davanti all’Altissimo. Letteralmente.
Sic transit gloria mundi
Editoriale: Caro Vance, Dio non costruisce muri
Dal pranzo con Meloni ai riti di Pasqua, JD Vance si presenta come il volto nuovo del conservatorismo Usa. Ma sotto la superficie devota resta il marchio di un populismo aggressivo che inneggia alla chiusura e alla discriminazione.

Caro vicepresidente Vance,
le abbiamo viste le foto con San Pietro sullo sfondo, le frasi a effetto sullo “spirito umano che si innalza” e il sorriso soddisfatto immortalato tra un rigatone alla gallinella di mare e un selfie davanti a Castel Sant’Angelo.
Abbiamo letto anche i suoi tweet carichi di devozione e ammirazione per Roma, “costruita da persone che amavano Dio e l’umanità”.
Belle parole, davvero. Peccato che suonino tremendamente vuote, dette da chi nella pratica politica costruisce muri, non ponti.
Perché vede, signor Vance, Dio — almeno quello predicato da quella Chiesa che lei tanto cita — non si è mai occupato di respingere disperati né di sospettare dei diversi.
Dio non ha chiesto ai suoi fedeli di barricarsi dietro una cultura monolitica, né di temere la libertà di pensiero.
Dio, nella narrazione evangelica, accoglie, non divide.
Un concetto semplice, che però sembra essersi perso nei meandri della sua agenda politica.
Mentre in Italia ammiccava sorridente a Giorgia Meloni e riceveva l’applauso dei nostri vicepremier Salvini e Tajani, negli Stati Uniti lei porta avanti una visione del mondo che sa di epoche che credevamo sepolte:
- Libertà di parola sì, ma solo per chi la pensa come lei.
- Famiglia tradizionale sì, ma senza spazi per chi vive diversamente.
- Occidente da salvare sì, ma difendendolo con la paura e la chiusura.
Lei si presenta come il paladino dei valori cristiani, ma si scaglia contro l’immigrazione, contro i diritti delle minoranze, contro la cultura del rispetto.
In nome di che cosa? Di un’idea di “ordine naturale” che sembra più vicina al darwinismo sociale che alla carità cristiana.
Non sfugge a nessuno, poi, il tempismo perfetto della sua visita romana: Pasqua, San Pietro, riti solenni.
E magari, chissà, un incontro con il Papa, se le agende lo permetteranno.
Un Papa che, ogni volta che apre bocca, sembra predicare esattamente il contrario di quello che lei incarna: apertura, accoglienza, dialogo, misericordia.
Le sue parole, caro Vance, parlano di Dio.
Ma i suoi atti parlano di paura.
Le sue foto raccontano una fede plastificata, da social network, che nulla ha a che vedere con l’amore per il prossimo.
Quel prossimo che, nei suoi discorsi, è sempre una minaccia da respingere, mai un fratello da abbracciare.
La verità, signor vicepresidente, è che non basta camminare in Vaticano per essere cristiani.
Non basta commuoversi davanti a una basilica per redimersi da un’agenda politica costruita sull’esclusione e sull’odio mascherato da valori.
Forse, la prossima volta che visiterà Roma, dovrebbe fermarsi davvero un momento.
E magari ricordarsi che, in quella città che tanto ammira, la parola “cattolico” significa “universale”.
Non “nostro”, non “di chi ce lo merita”, non “di chi rientra nei nostri parametri”.
Universale.
E Dio, per fortuna, resta di tutti.
Anche di quelli che lei vorrebbe lasciare fuori dalle sue mura immaginarie.
Buon viaggio di ritorno, Mr. Vance.
E se trova il tempo, magari, provi anche a costruire qualche ponte vero.
Ne abbiamo tutti un disperato bisogno.
Sic transit gloria mundi
Trump ribattezza Giorgia Meloni: “Georgia”, come lo Stato. Altro che alleanza speciale
Meloni vola alla Casa Bianca sognando l’asse sovranista, ma finisce archiviata da Trump come “Georgia”. Un errore? O il solito modo di umiliare gli interlocutori senza nemmeno sforzarsi di ricordare come si chiamano?

Tanto entusiasmo, tante strette di mano, tanti sorrisi. E alla fine, Giorgia Meloni è diventata… Georgia.
Donald Trump, fedele alla sua tradizione di finezza diplomatica, ha deciso di archiviare così l’incontro alla Casa Bianca: un post euforico su Truth in cui ribattezza la premier italiana con il nome di uno Stato americano. Una nuova perla per il tycoon, che dopo “Giuseppi” Conte firma un’altra memorabile gaffe da album.
«La premier Georgia Meloni ama il suo Paese. FANTASTICA!!!», scrive Trump, regalando alla storia la nuova caricatura di un rapporto che avrebbe dovuto sancire l’alleanza tra due campioni del sovranismo mondiale.
Ma che, a ben vedere, si è risolta come sempre in una scrollata di spalle americana: grazie del viaggio, cara, e ora vai a sistemarti nella collezione di “cosi” che ho incontrato.
Il paragone è inevitabile. Quando non ti ricordi il nome dell’amico del bar, lo chiami “coso”. Quando Trump non si ricorda (o non si sforza di ricordare) il nome di un capo di governo, lo ribattezza a piacere. E la leggerezza con cui liquida i suoi interlocutori non è mai casuale: è un modo per ribadire, senza troppi complimenti, chi conta davvero e chi invece no.
Giorgia, pardon, Georgia, si è presentata piena di buone intenzioni: dialogo transatlantico, negoziati sui dazi, mediazione con l’Unione europea. Peccato che, agli occhi di Trump, il suo destino si sia compiuto in cinque secondi netti: sorrisi, foto di rito, complimenti generici («una persona molto speciale»), e infine l’assegnazione del nuovo nome da battaglia.
Un destino comune a tutti quelli che orbitano, più o meno inconsapevoli, nell’universo egocentrico del tycoon.
E se Giuseppe Conte ha pagato “Giuseppi” con anni di scherni e meme, prepariamoci: “Georgia Meloni” diventerà il tormentone perfetto per gli avversari politici, i social, e magari anche per qualche editorialista poco incline all’ossequio.
Il più grande paradosso? Giorgia Meloni era partita per Washington con il sogno di essere riconosciuta come interlocutrice privilegiata della nuova destra americana. È tornata a casa con un nome nuovo, e nemmeno troppo originale.
Difficile costruire un asse sovranista quando il tuo presunto alleato non ti riconosce nemmeno al momento di taggare il post celebrativo.
Nel frattempo, Trump — che della politica internazionale ha la stessa visione con cui si sceglie il menù di un fast food — continua a inanellare lapsus che sono in realtà piccoli atti di dominio. Se ti chiamo con il nome sbagliato, dice implicitamente, non sei poi così importante.
E allora, che la premier italiana si chiami Giorgia, Georgia o semplicemente “coso”, poco importa: l’importante è aver fatto la foto, aver raccolto gli applausi dei sostenitori e aver confermato, ancora una volta, che tra Washington e Roma la distanza non è solo geografica.
È anche — e soprattutto — gerarchica.
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