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Cronaca

A Roma scoperto il tariffario della mala: quanto costa una vita?

Le inchieste raccontano come ogni sicario abbia i suoi committenti e le sue tattiche. Ma c’è anche chi compra informazioni riservate a 500 euro per ogni accesso abusivo e chi ha bisogno di un palo o un autista a 1.250 euro

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    Ecco il prezzario della malavita a Roma: 40.000 euro per un omicidio standard, ma per un bersaglio di alto profilo il prezzo sale a 150.000 euro. Rapimenti? A partire da 3.000 euro, mentre per le torture si arriva a 600 euro. Uccidere un boss? Costa 100.000 euro, ma per un ambasciatore albanese del crimine in Italia si arriva a 150.000 euro. Anche i gregari che si fanno notare pagano il loro prezzo: 40.000 euro per chi alza troppo la testa. E poi ci sono i bonus: 5.000 euro per ringraziare il killer che risparmia la vittima designata, 3.000 euro per sequestrare un creditore.

    Sono questi i costi pagati da chi commissiona delitti, rapimenti e azioni punitive. Questo dato emerge intrecciando atti e indagini. Come quella sulla morte di Fabrizio “Diabolik” Piscitelli o sul sequestro del dj barese “Ciccio Barbuto”. E ancora l’inchiesta sugli omicidi di Selavdi Shehaj o Andrea Gioacchini o sul delitto (tentato) di Alessio Marzani.

    È un mercato regolato da domanda e offerta, rischio, rilevanza dell’azione e professionalità del “lavoratore”. Le variabili sono tante.

    Per questo il delitto di un boss come Diabolik, ucciso il 7 agosto 2019 al Parco degli Acquedotti, è costato 50 mila euro in meno rispetto all’omicidio ai danni di un criminale di minor calibro, Selavdi Shehaj, freddato nel settembre 2020 in spiaggia, a Torvaianica.

    A commettere entrambi i reati, sostiene l’Antimafia, è stato l’argentino Raul Esteban Calderon. “Mi ha detto che aveva avuto 100.000 euro in contanti da Leo (Leandro Bennato ndr)e siccome era poco, ma lui non aveva altri contanti, gli avrebbe dato 4.000 euro al mese e avrebbe continuato a lavorare con lui”, rivela l’ ex compagna. Il costo è alto, il delitto perfetto: “Guarda come hanno fatto Diablo tie…Esecuzione perfetta…Mafia”, dicono i criminali al telefono. È più caro il costo dell’omicidio di un capobastone della mala albanese, Selavdi Shehaj. “Ho parlato col Lungo…150”, dice Calderon rivelando la cifra promessa dal committente, “il Lungo”, Altin Sinonima.

    A giustificare il sovrapprezzo è il rischio, che aumenta dopo l’omicidio del Diablo.

    I costi si affievoliscono quando si parla di un gregario come Alessio Marzani. Pretendeva 45 mila euro da una persona ma quella si è rivolta al boss albanese Elvis Demce. “Lo mannamo a giocà a briscola e tresette co’ San Pietro”, sentenzia Demce dicendo che affiderà l’incarico a “San Pietro”, Matteo Costacurta, uno dei suoi sicari. Ingaggiare “lo specialista” ha un costo. “Sto a manna uno dei miei meglio uomini a rischià l’ergastolo, mica va a gratis. So 40 bombe se vole”, rivela Demce.

    I soldi, anche nella malavita, non sono tutto. Petrit Bardhi, “Titi”, dopo il delitto di Andrea Gioacchini (gennaio 2019, vicino l’asilo dove aveva appena accompagnato i figli), rifiuta di uccidere un uomo, di vendicarsi. Solo perché era amico del fratello del bersaglio. Un gesto garbato, ricompensato con 5000 euro.

    Ma non finisce qui. Affittare la stanza delle torture costa 600 euro, mentre ottenere informazioni riservate sulle indagini si aggira sui 500 euro. Poi ci sono i costi per il personale ausiliario: 1.250 euro per pali e autisti che collaborano agli omicidi e, come dicono, “una piotta per quattro coltellate”.

    Questo è il prezzario della malavita, un’analisi che emerge da atti e indagini. Si tratta di un mercato regolato da domanda e offerta, dove variabili come il rischio, la rilevanza dell’azione e la professionalità del “lavoratore” giocano un ruolo chiave.

    Ad esempio, l’omicidio di un boss come Fabrizio “Diabolik” Piscitelli è costato 50.000 euro in meno rispetto a quello di un criminale di minor calibro, Selavdi Shehaj. Questa differenza di prezzo è giustificata dal maggior rischio che comporta eliminare una figura di spicco come Diabolik.

    I costi diminuiscono ulteriormente quando si tratta di individui meno influenti. Alessio Marzani, ad esempio, pretendeva 45.000 euro da una persona, ma il compito è stato poi affidato al boss albanese Elvis Demce per soli 150 euro. Ingaggiare un “specialista” come Marzani ha un costo aggiuntivo.

    Tuttavia, non sono solo i soldi a guidare le azioni della malavita. Casi come quello di Petrit Bardhi, noto come “Titi”, che ha rifiutato di uccidere un uomo solo perché era amico del fratello del bersaglio, dimostrano che ci sono anche altri fattori in gioco.

    Insomma, a Roma la vita umana ha un prezzo variabile. Ma nel mondo criminale, infrangere le regole può costare caro.

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      Italia

      Non solo sabbia e mojito: ecco i crimini più assurdi commessi in spiaggia

      Dai furti di ombrelloni “prenotati” con la scusa dell’asciugamano al lancio di gelati in faccia, la cronaca balneare racconta un’Italia surreale. In alcune località sono intervenuti i carabinieri per sedare vere e proprie risse per il posto in prima fila. E la fantasia dei “criminali da ombrellone” pare non conoscere limiti.

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        C’è chi aspetta l’estate per rilassarsi e chi, invece, la vive come un’occasione per dare libero sfogo alla propria follia. Non si tratta di metafora: le cronache locali sono ogni anno teatro di episodi che sembrano scritti da uno sceneggiatore impazzito. Reati piccoli, certo, ma non per questo meno degni di nota. Anzi: a volte fanno più ridere che indignare.

        Succede così che in Versilia un turista lombardo sia stato denunciato per “appropriazione indebita” dopo aver sottratto un lettino prenotato con il celebre trucco dell’asciugamano. “Non c’era nessuno!”, si è giustificato. Peccato che il legittimo proprietario fosse semplicemente al bar a prendersi un caffè.

        A Rimini, invece, la polemica ha raggiunto l’apice quando due famiglie si sono affrontate a colpi di paletta e secchiello per la supremazia su una buca scavata con grande impegno dai figli. I bagnini, increduli, hanno dovuto chiedere l’intervento della polizia municipale. “Era una trincea perfetta, non potevamo cederla”, ha dichiarato il padre, visibilmente scosso.

        E non mancano i casi più… gastronomici. A Taormina, un venditore ambulante ha denunciato un cliente per “aggressione con cono gelato”: l’uomo, insoddisfatto del gusto, gliel’ha spiaccicato in faccia. Testimoni riferiscono che si trattava di pistacchio.

        Ci sono poi episodi al limite dell’incredibile, come quello avvenuto a Ostia, dove una donna ha tentato di vendere “l’accesso esclusivo” al mare, piazzando una transenna con tanto di cartello: “Ingresso privato, 10 euro”. L’arenile, ovviamente, era demaniale.

        Non siamo ancora ai livelli del furto di sabbia – che resta il classico per eccellenza, soprattutto in Sardegna – ma anche quest’anno il repertorio estivo promette bene. E mentre i tribunali archiviano questi piccoli deliri sotto voci come “lite condominiale balneare”, resta il dubbio: siamo noi a impazzire con il caldo, o il mare tira fuori la nostra vera natura?

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          Italia

          Francobolli ritirati per mancanza del tedesco: la gaffe di Urso fa infuriare il Tirolo

          Il governatore Kompatscher attacca: «Il termine Alto Adige-Südtirol è ufficiale. È inaccettabile ignorarlo». I francobolli dedicati a Latemar e Catinaccio saranno ristampati con la versione bilingue, dopo la figuraccia istituzionale

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            Non si tratta di una banconota né di un documento ufficiale, ma l’assenza della parola Südtirol su un francobollo è bastata a scatenare una bufera politica. Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, guidato da Adolfo Urso, ha disposto il ritiro immediato di due francobolli appena stampati che raffiguravano le Dolomiti altoatesine – il Latemar e il Catinaccio – ma privi della denominazione in lingua tedesca. Una svista? Più che altro, un incidente diplomatico.

            Il motivo del contendere è proprio l’indicazione geografica: sui francobolli compariva solo la dicitura “Trentino-Alto Adige”, senza la corretta e costituzionalmente sancita forma bilingue “Trentino-Alto Adige/Südtirol”. Una mancanza che, in una provincia a statuto speciale dove il bilinguismo è obbligatorio per legge, ha il sapore dell’affronto istituzionale.

            A scatenare l’altolà è stato il presidente della Provincia autonoma di Bolzano, Arno Kompatscher, che non ha usato mezze misure: «Mi sono arrabbiato, è già successo in passato con le Odle. Una volta può capitare, ma stavolta c’è stata poca sensibilità. Il termine Alto Adige-Südtirol è nella Costituzione: è la denominazione ufficiale della regione. È inaccettabile».

            Il Mimit ha ammesso l’“anomalia” e ha ordinato il blocco della distribuzione. I francobolli appartenevano alla serie “Turistica – Patrimonio naturale e paesaggistico” e sarebbero dovuti essere messi in vendita da Poste Italiane. Al loro posto, ne verrà stampata una versione corretta, con le scritte in entrambe le lingue: italiano e tedesco. Il tutto grazie anche alla mediazione del deputato altoatesino Marco Galateo, volto di Fratelli d’Italia in Regione.

            La polemica ha riportato a galla la sensibilità, ancora fortissima, che circonda l’identità linguistica del territorio altoatesino. In Alto Adige, ogni toponimo, cartello o documento deve riportare sempre entrambe le lingue, pena accuse di discriminazione culturale. E anche un piccolo francobollo può trasformarsi in un caso politico.

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              Politica

              Bengasi chiude i cancelli: la figuraccia internazionale di Piantedosi (e dell’Europa)

              Missione saltata, delegazione espulsa, onta pubblica: la trasferta del Viminale in Libia orientale si trasforma in un boomerang diplomatico. E Bengasi lancia un messaggio chiarissimo: “Qui comandiamo noi”.

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                Atterrano, si guardano intorno, pronti per stringere mani, scattare foto e pronunciare le solite frasi fatte tipo “collaborazione fruttuosa”, “dialogo costruttivo”, “fronte comune sui flussi migratori”. E invece… “Preparatevi a ripartire”. No, non è l’incipit di un racconto comico, ma la sintesi cruda della missione (fallita) del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e della delegazione Ue a Bengasi. Una scena da film, solo che il genere è commedia nera: atterrati a Benina, dichiarati personae non gratae e gentilmente accompagnati alla porta d’imbarco. Game over in meno di un’ora.

                Per la cronaca, con Piantedosi c’erano anche i ministri dell’Interno di Grecia e Malta, oltre al Commissario europeo alle Migrazioni, Margaritis Schinas. Un bel team. Una missione “strategica”. Un disastro annunciato.

                La Libia, lo sanno anche i sassi, è un Paese spaccato in due: a ovest il governo riconosciuto da ONU e amici, a est il blocco filorussissimo della Cirenaica, che ha già fatto capire più volte che l’Europa può bussare, ma a porte chiuse. E invece la delegazione Ue è arrivata come se nulla fosse, con la delicatezza di un elefante in una cristalleria tribale. Risultato: tutti a casa, senza passare dal via.

                Il comunicato del governo libico orientale è stato più esplicito di una testata diplomatica: “Violazioni delle procedure”, “mancanza di rispetto delle leggi libiche”, “sovranità nazionale calpestata”. E, ciliegina sulla torta, la definizione lapidaria: “persona non grata”. Tradotto: “non ci servite, non vi vogliamo, non fate finta che sia un incidente. Non è un incidente. È un messaggio”.

                E che messaggio. Dietro il linguaggio istituzionale c’è una verità politicamente scottante: la Libia non è più terreno neutro, ma un campo minato dove le missioni europee entrano a proprio rischio e pericolo. E in questo caso, senza nemmeno il rischio: solo il pericolo, concretizzato in una figuraccia mondiale.

                Il Viminale, che già non brilla per agilità diplomatica, ora dovrà spiegare come mai una missione internazionale sia stata gestita con tanta leggerezza, come se Bengasi fosse un quartiere periferico di Roma e non una roccaforte semi-autonoma in mano a milizie e potentati locali. Ma soprattutto, dovrà spiegare perché si continui a credere che basti l’etichetta “Unione Europea” per farsi spalancare tutte le frontiere. Siamo nel 2025: quella stagione è finita.

                E l’Europa? Zitta. Come al solito. O, nella migliore delle ipotesi, affaccendata a trovare una frase abbastanza vuota da suonare importante e abbastanza ambigua da non dare fastidio a nessuno. Un comunicato stampa in corpo 10, senza firme né conseguenze. Diplomazia 2.0: quando prendi schiaffi, fai finta di non sentirli.

                Intanto, dal lato libico, il premier della Cirenaica Osama Saad Hammad gongola. Ha umiliato mezza Europa con una nota stampa e un cambio di gate. E ha fatto passare un messaggio chiaro: “la Libia orientale non è vostra alleata, né vostra cliente”. Potete mandarci soldi, droni, corsi di formazione per la guardia costiera, ma non vi illudete di comandare. Quello l’abbiamo già fatto noi, con voi sulla pista d’atterraggio.

                Il paradosso? Piantedosi era andato in missione per parlare – manco a dirlo – di migranti. Tema che in Libia è una questione di potere, milizie, traffici, porti. Cioè esattamente tutto ciò che l’Europa continua a fingere di non vedere. E in cambio, si becca l’ennesimo no secco, urlato a voce bassissima ma risuonante fino a Roma.

                In un mondo normale, questa debacle avrebbe provocato dimissioni, interrogazioni, crisi diplomatiche. Invece, probabilmente, finirà con qualche riga sui giornali e un’altra missione “strategica” già programmata tra un mese. Magari stavolta a Tripoli. O a Tobruk. Basta che si apra la porta. E che qualcuno, almeno una volta, controlli prima chi c’è dietro.

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