Italia
Alberto Stasi: riprendersi la vita dopo dieci anni di carcere
Libero parzialmente non ha l’obbligo di fare attività di volontariato, ma deve comunicare ai magistrati qualsiasi attività che esuli dalle sue abitudini.

Dopo dieci anni di detenzione nel carcere di Bollate, Alberto Stasi, condannato per l’omicidio di Chiara Poggi, ha ottenuto la semilibertà. Una nuova fase della sua vita inizia, con maggiore autonomia, ma con un passato ingombrante alle spalle.
Diciotto anni dopo il delitto di Chiara Poggi
Era il 13 agosto 2007 quando Chiara Poggi fu trovata senza vita nella sua casa di Garlasco. Dopo un lungo iter giudiziario, la Cassazione stabilì la colpevolezza di Alberto Stasi, all’epoca fidanzato con la studentessa, condannandolo a sedici anni di carcere per omicidio. Alberto Stasi si trova in semilibertà dopo aver trascorso dieci anni in carcere, scontando parte della condanna a sedici anni per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto quel 13 agosto del 2007. La Cassazione aveva stabilito la sua colpevolezza, e dal 2015 Stasi ha vissuto in detenzione nel carcere di Bollate. Con il passare del tempo e il rispetto delle regole carcerarie, ha potuto accedere a misure alternative di pena, come la semilibertà, concessa dal Tribunale di Sorveglianza.
Cosa significa semilibertà?
Regime di semilibertù significa poter uscire dal carcere la mattina e rientrare la sera, seguendo orari precisi. Quindi piena libertà di movimento nella provincia di Milano, con possibilità di frequentare bar, negozi, cinema e pranzare fuori dal luogo di lavoro. Gli è stata restituita la patente e il permesso di guidare. Non ha alcun obbligo di attività sociali o volontariato, ma deve comunicare ai magistrati qualsiasi attività non abituale. Il prossimo step nel percorso giudiziario sarà l’affidamento ai servizi sociali, un regime ancora più flessibile rispetto alla semilibertà. Tuttavia, Stasi non sembra avere fretta, preferendo concentrarsi su piccole attività quotidiane per riabituarsi alla vita fuori dal carcere. La sua storia resta legata al passato, ma il suo presente è fatto di una nuova normalità, lontana da Garlasco e da qualsiasi esposizione mediatica. Una lenta ripresa della vita al di fuori delle mura di Bollate, ma sempre con restrizioni e sotto controllo giudiziario.
Lontano dai riflettori, via da Garlasco
All’uscita dal carcere, pochi amici lo attendevano per un discreto aperitivo, ma Stasi ha preferito evitare. “Meglio di no, non sono un tipo da movida”, ha detto. Nonostante la notorietà del caso, molti giovani non conoscono la sua storia, tanto che uno di loro gli ha chiesto un selfie, dicendo: “Bella zio, lo sapevo che non c’entravi niente”. Stasi ha evitato l’invito, cercando di mantenere un profilo basso. Garlasco, dove tutto è iniziato, è ormai un capitolo chiuso. Sebbene sua madre viva ancora lì, evita di tornarci, incontrandola dai parenti. “Non ho tutto questo interesse a rientrare”, afferma, concentrandosi sulla vita tra Milano e l’hinterland, dove in futuro cercherà casa.
Cosa farà ora Alberto? Progetti e piccoli desideri quotidiani
Il passo successivo sarà l’affidamento ai servizi sociali, ma Stasi non sembra avere fretta. Per ora, si accontenta di piccoli obiettivi, come visitare la Pinacoteca di Brera. Vuole anche girare per i padiglioni della Fiera di Rho e riprendere a giocare a tennis dopo due anni di inattività. Lontano dagli eccessi mediatici, cerca il silenzio e una nuova normalità, consapevole che il suo nome resterà per sempre legato a una vicenda che ha segnato la cronaca italiana. Un lento ritorno alla vita fuori dal carcere, con un passato impossibile da cancellare.
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Italia
Plasmon torna italiana dopo 50 anni: il biscotto dell’infanzia rientra a casa
Il gruppo emiliano NewPrinces rileva lo storico marchio dai colossi americani di Kraft Heinz. Un ritorno al made in Italy che sa di rivincita industriale (e sentimentale)

Dopo cinquant’anni trascorsi all’estero, Plasmon torna italiana. Lo storico marchio di biscotti per l’infanzia – icona dolce di generazioni di bambini e segreto inconfessabile per molti adulti – è stato acquistato dal gruppo emiliano NewPrinces (ex Newlat Food), che ha rilevato le attività italiane di Heinz per una cifra vicina ai 120 milioni di euro.
A vendere è stato il colosso statunitense Kraft Heinz, che dal 1967 controllava Plasmon e che ora cede non solo il marchio madre, ma anche altri brand come Nipiol, BiAglut, Aproten e Dieterba, tutti specializzati nell’alimentazione infantile e dietetica. Il cuore produttivo dell’operazione è lo stabilimento di Latina, dove ogni anno vengono sfornati 1,8 miliardi di biscotti, omogeneizzati e pappe.
Fondata nel 1902 a Milano dal medico Cesare Scotti, Plasmon è stata per decenni un punto fermo della tavola italiana, soprattutto durante il boom demografico del dopoguerra. Complice la pubblicità in Carosello e le scatole di latta diventate oggi oggetto vintage, il marchio ha conquistato una fiducia senza tempo.
La vendita alla Heinz americana, avvenuta negli anni Sessanta, aveva segnato l’inizio di una lunga fase di internazionalizzazione, ma anche di distacco emotivo dal territorio. Ora, grazie a NewPrinces, il brand fa ritorno in mani italiane. Una mossa non solo industriale ma anche simbolica, che parla di filiere locali, know-how nazionale e voglia di riportare valore a casa.
Lo stabilimento di Latina, considerato tra i più avanzati d’Europa nel settore, continuerà a produrre anche per il mercato britannico, almeno per un periodo transitorio. Ma il controllo, questa volta, torna sotto bandiera tricolore.
NewPrinces – già attiva con brand storici come Polenghi e Delverde – punta così a rafforzare la propria posizione nel comparto baby food. In un mercato da 200 milioni di euro di fatturato e un margine operativo lordo di circa 17 milioni.
Una buona notizia, per una volta. Che sa di latte caldo, biscotti e orgoglio nazionale.
Italia
Dallo stupro di gruppo al profilo su OnlyFans: la nuova vita (e le nuove domande) di Asia Vitale
La ragazza simbolo del caso Palermo si mostra oggi senza filtri su OnlyFans. Rivendica il controllo sul proprio corpo. Ma tra emancipazione e contraddizione, resta l’amaro dubbio: stiamo assistendo a una rinascita o a una nuova forma di esposizione?

Due anni fa il suo nome è diventato simbolo. Asia Vitale, la ragazza di Palermo violentata da sette ragazzi in un cantiere abbandonato, oggi riappare sotto una luce diversa: quella di una webcam. Dopo la chiusura del suo profilo Instagram e il calo dei follower, ha aperto un nuovo canale su OnlyFans. Si chiama AsiaVitale3.0 e propone contenuti sessuali a pagamento. Tutto legale, tutto consenziente, tutto rivendicato.
“Il corpo è mio”, dice. “Chi ha problemi con questo mestiere dovrebbe cambiare mentalità”. Eppure, la sua storia personale rende difficile ignorare la frattura tra passato e presente. Dopo aver subito un’aggressione brutale e aver vissuto anni in comunità per allontanarsi da una famiglia che lei stessa definisce “tossica”, oggi Asia monetizza la propria immagine, il proprio corpo, la propria sessualità.
Non c’è giudizio, ma c’è stupore. Non si tratta di negare la libertà di scelta, ma di registrare una contraddizione che interroga chi osserva. Come si arriva, da una violenza così feroce, a scegliere di mettersi di nuovo sotto gli occhi di tutti, stavolta per guadagnare?
“Ho rimosso le loro facce”, dice parlando dei suoi aggressori. “Cerco solo di andare avanti”. Racconta di un rapporto con il sesso profondamente cambiato, più consapevole, più adulto. Ma confessa anche un trauma più recente: un sequestro subito a Ballarò, da parte della madre di uno degli accusati, che voleva costringerla a ritirare la denuncia.
Oggi lavora in un hotel a Courmayeur e prova a costruirsi una nuova vita. OnlyFans la aiuta a far quadrare i conti, ma non garantisce stabilità. I video vengono pagati, ma possono anche essere rivenduti illegalmente. Un’altra forma di sfruttamento, di cui Asia è perfettamente consapevole.
Il suo è un racconto di sopravvivenza. Ma anche una domanda aperta: dopo tutto questo dolore, davvero la libertà passa ancora per l’esposizione del corpo?
Italia
Bibbiano, processo demolito: il mostro non esisteva, ma intanto lo avevano già impiccato in piazza
Doveva essere l’inchiesta del secolo, il complotto delle élite rosse che rubavano i bambini. Invece si è rivelato un gigantesco castello di carte: assoluzioni a pioggia, accuse smontate, reati prescritti. Ma niente paura: qualcuno, da qualche parte, urla ancora “Bibbiano!”.

Il processo più discusso degli ultimi anni si è chiuso con un verdetto che ribalta tutto. Il caso Bibbiano, diventato simbolo di presunti affidi illeciti orchestrati da una rete tra servizi sociali e terapeuti, esce demolito dalla sentenza di primo grado. Dei 14 imputati, solo tre sono stati condannati. Tutti gli altri assolti, molti con formula piena. La “macchina degli orrori” raccontata per anni, tra allontanamenti forzati e abusi mai avvenuti, semplicemente non c’è.
È quanto ha stabilito il tribunale collegiale di Reggio Emilia. Federica Anghinolfi, l’ex responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza, su cui pendeva una richiesta di 15 anni di carcere, è stata condannata a 2 anni per falso ideologico, pena sospesa. Stessa sorte per il suo collaboratore Francesco Monopoli (un anno e otto mesi) e per la neuropsichiatra Flaviana Murru (cinque mesi). Niente più. Le accuse più gravi – come l’associazione per delinquere e la manipolazione dei minori – si sono sgretolate.
Un colpo durissimo per l’accusa, che aveva ipotizzato un sistema radicato e cinico: terapeuti che costruivano falsi ricordi di abusi, relazioni manipolate per sottrarre bambini alle famiglie, affidi gestiti con logiche distorte. Le indagini erano state lunghe, oltre cento i capi di imputazione. Ma in aula quella narrazione non ha retto. I giudici hanno smontato punto per punto l’impianto accusatorio, parlando, in molte assoluzioni, di fatti “che non sussistono”.
Il pm Valentina Salvi aveva costruito il caso insieme ai carabinieri, sostenendo che gli operatori dei servizi sociali della Val d’Enza falsificassero le relazioni sui minori per farli allontanare dalle famiglie. Ma il processo ha mostrato falle, forzature, testimonianze non sempre coerenti. E ha restituito una verità ben diversa da quella immaginata.
Sul piano politico, il caso Bibbiano era diventato un campo di battaglia. Ma oggi, davanti a una sentenza che svuota il teorema accusatorio, resta una domanda scomoda: quanto ha pesato la spettacolarizzazione mediatica su una vicenda che, forse, non avrebbe mai dovuto essere un processo simbolico?
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