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Cronaca

Il limite dei 30 all’ora a Bologna non va giù

La situazione della limitazione della velocità a Bologna sembra essere soggetta a diverse sfide e problemi di attuazione.

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    I 30 all’ora non li rispetta più nessuno, pochi controlli e troppa fretta. E’ questa la sintesi di una indagine realizzata a Bologna dopo l’introduzione del limite dei 30 km all’ora. Per tutti. La situazione della limitazione della velocità a Bologna sembra essere soggetta a diverse sfide e problemi di attuazione. Nonostante la presenza di segnaletica stradale e diverse campagne informative effettuate a tutti i livelli, molti automobilisti sembrano non rispettare il limite di velocità imposto. Non ce la fanno proprio.

    Meno incidenti e molte più multe. Ma non bastano

    Il reportage evidenzia che in molte strade della città, anche con pochissimo traffico, le auto viaggiano a velocità comprese tra i 45 e i 50 chilometri all’ora, ben oltre il limite consentito. Anche in presenza di cartelli che invitano a rallentare, la tendenza a superare il limite sembra diffusa. Nessuno mette in dubbio i numeri dell’incidentalità forniti da Palazzo d’Accursio, secondo i quali nei primi tre mesi della nuova norma il calo totale dei sinistri sarebbe stato del 14,5%. E nemmeno si contestano i nuovi autovelox e la validità delle multe.

    Controlli quasi inesistenti

    Il fatto è che per ora la scarsità dei controlli da parte delle autorità di polizia municipale e dei carabinieri sembrano contribuire alla difficoltà da parte degli automobilisti di accettare e adeguarsi a nuovi comportamenti. Sebbene siano stati installati nuovi autovelox fissi e siano previsti controlli, la presenza effettiva di tali strumenti sembra non essere sufficiente a disincentivare gli automobilisti dall’eccesso di velocità.

    Una sensazione di impunità

    E in più se ci aggiungiamo la mancanza di sanzioni effettive la percezione che il rispetto dei limiti di velocità non sia una priorità e che i trasgressori possano agire impunemente, sta diventando un vero e proprio deterrente perché la città possa adeguarsi senza recalcitrare e accolga il limite come doveroso e soprattutto come gesto virtuoso.

    Una norma che deve essere ancora digerita

    La situazione attuale sembra indicare che la limitazione della velocità a 30 chilometri all’ora a Bologna non è ancora pienamente rispettata dagli automobilisti, e che la presenza e l’efficacia dei controlli potrebbero rappresentare una sfida da affrontare per garantire il rispetto delle normative stradali.

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      Storie vere

      Il microchip ha salvato il gatto Shoto, misteriosamente lontano da casa a 3000 km di distanza

      Un gatto texano ritrova la sua famiglia dopo 2 anni ad una distanza di oltre 3.000 km. Grazie al microchip il felino è stato ritrovato e riconosciuto, con enorme felicità da parte dei proprietari.

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        Un vecchio proverbio popolare sostiene che i gatti abbiano 7 vite. Se la cosa fosse vera – anche se sappiamo tutti che non lo è – il felino texano Shoto ne ha sicuramente spesa una in un’avventura ai limiti del credibile. La ragione per cui i gatti sembrano in grado di sopravvivere a situazioni pericolose è legata alla loro agilità e alla loro capacità di cadere sempre in piedi grazie alla flessibilità della loro colonna vertebrale.

        Senza sue notizie da ben due anni

        I proprietari del gatto protagonista di questa storia lo avevano perso più di due anni fa, in un freddo giorno di gennaio. I loro sforzi per ritrovare il proprio pelosetto si erano rivelati del tutto inutili e la preoccupazione di saperlo fuori casa, da solo con quelle temperature così fredde aveva fatto loro stringere il cuore. Le speranze di ritrovarlo si stavano via via spegnendo, dopo tante ricerche nessun successo… finché non hanno ricevuto una telefonata che, inaspettatamente, ha riacceso quella fiamma.

        Il chip col quale si è risalito ai proprietari

        Shoto era stato ritrovato e riconosciuto grazie al suo microchip. A quel punto è iniziato il viaggio dei proprietari per percorrere migliaia di km e riportarlo a casa. Ventisei ore di trasferta per ricongiungersi con l’amato felino.

        Sui social la storia del ritrovamento di Shoto

        Sui social la notizia è stata data in questo modo

        «Più di due anni fa, a Karla e alla sua famiglia è accaduto l’impensabile quando il loro amato gatto Shoto è uscito di casa ed è scomparso durante un’ondata di freddo particolarmente intensa a gennaio. Shoto era il primo gatto di questa famiglia e, nonostante i loro sforzi, non è mai stato trovato. Sentivano terribilmente la sua mancanza ». Così scrive il rifugio Dakin di Springfield, in Massachusetts, sui loro account social. E’ qui che uno sconosciuto ha consegnato il micio, dopo averlo trovato.

        Arrivato al rifugio in uno stato precario

        L’animale all’arrivo appariva molto magro e in cerca di cure. Lo staff lo ha preso subito con sé e lo ha rimesso in forma. Controllando il suo microchip, si è messo in contatto con i proprietari. E pensare che i proprietari, vedendo arrivare una chiamata con il prefisso del Massachusetts, avevano inizialmente pensato si trattasse di telemarketing e inizialmente non volevano neanche rispondere…

        Un viaggio lunghissimo per riportalo a casa

        L’iniziale ritrosia fortunatamente è stata vinta, permettendo di ricevere la bellissima ed assolutamente insperata notizia: Shoto era stato ritrovato. Immediatamente Karla ha pianificato il lungo viaggio per recuperarlo: un viaggio di 26 ore e oltre 3mila chilometri da macinare. Ma nessuna distanza poteva certo mettersi fra lei e il suo amato gatto di casa. Nessuno, a parte Shoto, potrà mai sapere come l’animale sia arrivato fino in Massachusetts, chi abbia incontrato lungo il suo peregrinare e con quali esperienze abbia dovuto confrontarsi per sopravvivere. Due anni che rappresenteranno per sempre il suo segreto.

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          Storie vere

          Coppia gay di Arezzo sfida la legge italiana. Bloccata in California dopo una maternità surrogata

          Coppia gay ricorre a maternità surrogata e resta bloccata in California: ad Arezzo scatterebbe il processo.

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            Una coppia di giovani professionisti italiani, entrambi residenti ad Arezzo, si trova al centro di una vicenda legale e umana che sta facendo discutere. I due uomini, desiderosi di allargare la loro famiglia, si erano rivolti a una clinica specializzata in California per ricorrere alla maternità surrogata. La gravidanza, avviata circa nove mesi fa, è culminata con la nascita del loro figlio a febbraio. Tuttavia, il sogno di tornare in Italia con il neonato si è trasformato in un incubo legale.

            Maternità surrogata reato universale

            Con l’entrata in vigore di una nuova legge sotto il governo Meloni, la maternità surrogata è stata dichiarata reato universale. Questo significa che la pratica è perseguibile anche se effettuata all’estero. Tornare in Italia comporterebbe per la coppia il rischio di arresto e una multa di 600mila euro. Inoltre, il destino del neonato, nato con cittadinanza americana, rimane incerto in caso di fermo dei genitori.

            Una norma contraddittoria

            L’avvocato Gianni Baldini, noto per il suo impegno sui diritti civili, sta seguendo il caso. Baldini ha sottolineato le contraddizioni della norma, evidenziando come la gravidanza fosse già in corso al momento dell’entrata in vigore della legge. “Non possiamo pensare che chiunque si avvalga di questa pratica decida all’improvviso per l’aborto,” ha dichiarato. La coppia, attualmente in possesso di una green card per motivi sanitari, sta valutando le opzioni legali, ma rimane bloccata in California. Il caso potrebbe aprire la strada a una questione di incostituzionalità davanti alla Corte Costituzionale. Secondo Baldini, la norma presenta numerosi aspetti controversi, tra cui il principio di doppia incriminazione, dato che la maternità surrogata è legale in California e in altri 66 Paesi nel mondo.

            Storia di disobbedienza civile

            La coppia, scossa e preoccupata, desidera tornare in Italia, dove ha una casa e una vita lavorativa, ma teme le conseguenze legali. “Vorrebbero rientrare avendo chiaro il quadro che li aspetta,” ha spiegato Baldini. Nel frattempo, la loro storia rappresenta un simbolo delle sfide legali e morali legate alla genitorialità e ai diritti civili in un contesto legislativo in evoluzione.

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              Cronaca Nera

              Garlasco e il giallo della nicotina sui capelli di Chiara: il nodo che (forse) non cambierà nulla

              Dalla nicotina nei capelli di Chiara Poggi all’alibi di ferro di Sempio, passando per scarpe troppo grandi e impronte insanguinate: il caso Garlasco torna sotto la lente dopo 18 anni. Ma il nuovo indagato sembra sempre più lontano dalla scena del crimine. Intanto l’avvocato della famiglia Poggi avverte: “Servirà smontare l’intera sentenza contro Stasi”.

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                C’è un dettaglio che emerge dal passato e che, come in ogni giallo che si rispetti, rischia di alimentare dubbi, ma anche di risolversi in un nulla di fatto. Sui capelli di Chiara Poggi, la ragazza uccisa a Garlasco il 13 agosto 2007, venne rilevata nicotina. Ma Chiara non fumava e nemmeno il fidanzato Alberto Stasi, oggi in carcere con una condanna definitiva per omicidio. Allora di chi è quella traccia?

                Per l’avvocato Gian Luigi Tizzoni, legale della famiglia Poggi, la risposta è già scritta nero su bianco da anni. “Basta leggere pagina 121 e 122 della sentenza d’appello che condannò Stasi”, spiega. “È noto che il padre di Chiara fosse un fumatore accanito e che quindi la ragazza fosse una fumatrice passiva”.

                Una spiegazione semplice, che rimanda all’ambiente familiare e sembra svuotare di mistero quella che qualcuno ha già battezzato come “pista nicotina”. Ma questa è solo una delle tessere di un puzzle ben più ampio.

                Il fascicolo d’indagine oggi si riapre su Andrea Sempio, amico del fratello della vittima, già archiviato anni fa e ora di nuovo indagato per omicidio. La Procura di Pavia ha rimesso mano al caso, ma secondo molti osservatori – e soprattutto secondo l’avvocato Tizzoni – per accusare Sempio servirebbe non solo inchiodarlo sulla scena del crimine, ma riscrivere da capo l’intera storia giudiziaria di Garlasco.

                Ecco perché. Primo: Chiara è morta tra le 9.12 e le 9.36 di quella mattina. Sempio, come testimonia uno scontrino del parcheggio a Vigevano, alle 10.18 era già lontano dalla casa del delitto. Secondo: l’impronta di scarpa rinvenuta sul tappetino del bagno – una taglia 42 – coincide con la misura calzata da Stasi. Sempio porta un 44. Terzo: le impronte sul dispenser del bagno appartengono ad Alberto Stasi, unico identificato in quella scena del crimine.

                E ancora: Sempio aveva una bicicletta rossa, mentre i testimoni indicarono una bici nera come quella vista allontanarsi dalla villetta. Anche il Dna sotto le unghie di Chiara non sembra in grado di ribaltare le sentenze passate: la traccia genetica rilevata, infatti, non è databile e Sempio frequentava abitualmente casa Poggi. Potrebbe aver lasciato quel segno anche settimane prima dell’omicidio.

                Infine, l’avvocato Tizzoni segnala un dettaglio non secondario: la nomina per potersi costituire parte offesa nel procedimento contro Sempio non gli è ancora stata notificata. “Al contrario – osserva – la Procura sembra aver già interloquito con la difesa di Stasi”.

                A complicare ulteriormente il quadro c’è l’ombra di una potenziale revisione per Stasi, mai formalmente avviata. Ma anche questa ipotesi resta sullo sfondo.

                Il caso di Garlasco, insomma, sembra riproporsi sotto nuove vesti, ma con vecchie certezze difficili da scardinare. Da qui l’impressione che tutto ruoti attorno a una sola domanda: davvero, a distanza di 18 anni e con una condanna definitiva, esiste un elemento capace di riscrivere la verità giudiziaria sul delitto di Chiara Poggi?

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