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Netanyahu non si accontenta più del tiro a segno sui palestinesi: ora spara anche agli italiani

Il premier israeliano, ormai allergico a ogni forma di limite, trasforma anche i diplomatici stranieri in bersagli. Tajani protesta, la UE si indigna, ma da Tel Aviv arrivano solo frasi di circostanza. Se non è una guerra totale, ci assomiglia parecchio.

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    Netanyahu ha un nuovo sport preferito: il tiro al diplomatico. Dopo mesi di bombardamenti a tappeto sulla popolazione palestinese, adesso Tel Aviv ha deciso che non bastano più i civili, le ambulanze e i giornalisti. Tocca anche ai rappresentanti internazionali. E tra loro c’era pure un italiano.

    Succede a Jenin, campo profughi nella Cisgiordania occupata. Una delegazione composta da oltre trenta diplomatici di mezzo mondo – tra cui il viceconsole italiano Alessandro Tutino – si trovava lì per una visita ufficiale, concordata, autorizzata, scortata. L’Idf, l’esercito israeliano, ha pensato bene di accoglierli sparando colpi in aria. Un modo singolare di dire “benvenuti”, ma d’altronde chi osa avvicinarsi alla realtà dell’occupazione, oggi, rischia di essere preso a fucilate.

    Nessun ferito, per miracolo. Ma la sostanza non cambia: Israele ha sparato contro una delegazione diplomatica. Punto.

    Il nostro ministro degli Esteri Antonio Tajani ha protestato via X, ricordando che “le minacce ai diplomatici sono inaccettabili”. Una nota diplomatica che, nel delirio bellico di Netanyahu, suona come una cartolina da Capri a chi sta radendo al suolo Gaza con i bulldozer e gli F-16.

    La risposta israeliana è da manuale: “Erano fuori percorso”. Una scusa che fa ridere se non fosse tragica. Non importa che il tragitto fosse stato approvato, né che i diplomatici indossassero giubbotti identificativi. Quando ti trovi nella terra di nessuno voluta da Netanyahu, vale solo una regola: chiunque non sia armato fino ai denti è un bersaglio potenziale.

    Nel gruppo erano presenti anche funzionari di Francia, Spagna, Regno Unito, Canada, Russia, Cina, Egitto, e decine di altri. Ma il messaggio è universale: chi prova a guardare cosa succede nei territori occupati, può finire nel mirino. Letteralmente.

    La UE ha chiesto spiegazioni. La Spagna ha condannato. L’Onu tace. E Netanyahu sorride.

    Perché in fondo non è un errore. È il metodo. È l’avvertimento. È l’arroganza di chi si sente autorizzato a tutto, protetto da una comunità internazionale che balbetta e da alleati che non pongono mai un limite.

    Oggi un colpo in aria. Domani? Forse un colpo in petto. E poi ci diranno che il diplomatico si era “allontanato dal percorso”.

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      L’amore proibito dei nonni di Leone XIV: scandali, arresti e un cognome nuovo

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        Quella dei nonni di Papa Leone XIV sembra una storia uscita da un romanzo di inizio Novecento, tra scandali, amori proibiti e un’identità reinventata. A far parlare è la vicenda di Salvatore Giovanni Riggitano, nonno paterno del pontefice, e della sua relazione con Suzanne Fontaine, una donna che avrebbe cambiato il corso della sua vita e quello della sua discendenza.

        L’amore proibito e l’arresto

        Nel 1908, la città di Chicago viveva un’epoca di fervore culturale e sociale. Nei circoli esclusivi dell’élite cittadina, come il Lovers of Italy, si incontravano persone colte e influenti. Proprio in quel club, Salvatore Riggitano, un emigrato siciliano, insegnante di musica e lingue, conobbe Suzanne Fontaine, figlia di una delle famiglie francofone più rispettate della città. Tra i due nacque una passione travolgente, ma c’era un problema. Salvatore era già sposato con Daisy Hughes, una donna determinata a difendere il proprio onorabilità a ogni costo. Quando Hughes scoprì la relazione, non esitò a portare i due amanti in tribunale, accusandoli di condotta indecorosa.

        Il caso finì sulle pagine dei giornali scandalistici dell’epoca, con titoli sensazionalistici che descrivevano la vicenda come uno scandalo morale senza precedenti. Riggitano e Fontaine furono arrestati, esposti al giudizio di una società rigida e perbenista. Eppure, nonostante tutto, decisero di rimanere insieme per tutta la vita.

        Perché Leone XIV si chiama Prevost?

        L’arresto segnò una svolta per Salvatore. Per sottrarsi al disonore e ricostruire la propria vita, decise di cambiare nome, adottando il cognome Prevost, quello della madre di Suzanne Fontaine. In questo modo, cercò di lasciarsi alle spalle il passato e dare vita a una nuova famiglia con l’amata Suzanne.

        La discendenza di questa coppia avrebbe portato, un secolo più tardi, al soglio pontificio. Nel 1917 nacque il loro primo figlio, John Centi Prevost, seguito nel 1920 da Louis Prevost, futuro padre di Papa Leone XIV. Non tutto della vicenda è chiaro. I registri pubblici mostrano una realtà frammentata: non si sa con certezza se Salvatore e Daisy Hughes abbiano mai formalizzato un divorzio. E neppure se Salvatore e Suzanne si siano mai sposati ufficialmente. Quello che è certo è che il loro amore durò fino alla fine. Salvatore morì nel 1960, ma la sua scelta di prendere il cognome Prevost continua a vivere nella storia, arrivando fino al Vaticano con l’elezione di Papa Leone XIV.

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          Ryanair alle strette per il bagaglio a mano. Fioccano sentenze…

          Un tribunale spagnolo ha costretto Ryanair a rimborsare il costo del bagaglio a mano di un passeggero, dichiarando illegittimi i sovrapprezzi imposti dalla compagnia. La decisione potrebbe segnare una svolta nel settore dei voli low cost.

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            Per i viaggiatori abituati a volare con Ryanair, il bagaglio a mano è diventato negli ultimi anni una vera e propria battaglia economica. La politica della compagnia irlandese ha spesso imposto costi aggiuntivi per portare una valigia in cabina, con regole stringenti su peso e dimensioni. Ora, però, una sentenza del tribunale di Salamanca potrebbe cambiare le cose. Il giudice spagnolo, nfatti, ha stabilito che il bagaglio a mano è una parte essenziale del trasporto aereo e deve essere incluso nel costo del biglietto, purché rientri in limiti ragionevoli. Questo ha portato Ryanair a dover rimborsare 147 euro a un passeggero che, tra il 2019 e il 2024, ha pagato supplementi per poter portare la sua valigia con sé.

            Colpo basso ai low cost?

            La decisione del tribunale spagnolo si inserisce in un contesto più ampio, in cui i giudici europei stanno sempre più spesso intervenendo sulle politiche delle compagnie aeree. Il problema, secondo le autorità, non è tanto l’applicazione di restrizioni su peso e dimensioni, quanto la mancanza di trasparenza nella comunicazione ai viaggiatori. Secondo la legge spagnola sulla navigazione aerea, il bagaglio a mano è un elemento fondamentale del servizio di trasporto e, quindi, non può essere separato dal biglietto. Tuttavia, le compagnie mantengono il diritto di applicare tariffe per bagagli più grandi o extra, ma senza eccessi che penalizzino ingiustamente i consumatori.

            Bagaglio a mano sempre gratuito? Sì, no, nì…

            La sentenza di Salamanca non sancisce un diritto assoluto al bagaglio a mano gratuito, ma rafforza il principio che un supplemento deve essere giustificato e non può derivare da un criterio troppo severo. Diverse sentenze, in Italia e in Europa, stanno andando nella stessa direzione: il bagaglio a mano dovrebbe essere parte integrante del viaggio, non un’opzione extra. Tuttavia, la legge europea non ha ancora stabilito regole comuni, lasciando alle compagnie ampia discrezionalità su prezzi e regolamenti.Le associazioni dei consumatori stanno già lavorando per una maggiore regolamentazione in questo ambito, cercando di ottenere norme più chiare e omogenee per tutti i vettori. Nel frattempo, i passeggeri potrebbero avere buone possibilità di ottenere rimborsi, soprattutto se ritengono di aver pagato ingiustamente supplementi per bagagli di dimensioni ragionevoli.

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              Londra firma con l’Ue: il primo vero addio alla Brexit è cominciato

              Con due documenti firmati ieri nella capitale britannica, il governo Starmer ha rimesso il Regno Unito in rotta verso Bruxelles. I tabloid gridano alla resa, Farage minaccia, ma la realtà è chiara: Londra ha iniziato a smontare pezzo per pezzo il castello vuoto della Brexit.

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                Londra – Le firme sono arrivate puntuali, i sorrisi erano distesi. Ma nelle redazioni dei tabloid britannici si è gridato al tradimento. Il Regno Unito ha compiuto ieri, senza annunci roboanti ma con una determinazione chirurgica, il primo vero passo di riavvicinamento all’Unione Europea. Un patto in due atti, siglato a Londra da Keir Starmer, Ursula Von der Leyen e Antonio Costa, che demolisce l’illusione autarchica venduta ai cittadini britannici con la Brexit.

                Dopo anni passati a issare muri doganali e slogan vuoti, il governo laburista ha preferito i fatti: difesa comune, sicurezza condivisa, mobilità giovanile e abbattimento delle barriere commerciali. E la risposta dei professionisti dell’odio non si è fatta attendere. Il Mail on Sunday ha parlato di “resa” e Nigel Farage ha alzato la voce: “Non toccate la Brexit”. Ma il vento, evidentemente, è cambiato.

                Il primo documento firmato prevede una cooperazione strategica sulla difesa e un accesso, seppure condizionato, al fondo Rearm dell’Ue: 150 miliardi di euro per progetti comuni, ma solo se le imprese britanniche si alleeranno con quelle europee e se Londra pagherà il giusto contributo. Altro che “prendiamo il controllo”: qui si torna, finalmente, alla logica del contare e collaborare, dopo anni di teatrini autarchici.

                Il Regno Unito ha anche aderito ufficialmente al Pesc, la politica estera e di sicurezza dell’Unione. Una svolta, se si pensa che solo fino a pochi mesi fa Londra recitava la parte del battitore libero, salvo poi scoprire di non contare nulla, né a Bruxelles né a Washington.

                Il secondo documento affronta i nodi pratici: controlli più snelli su carne e prodotti animali, pesca prorogata per i pescherecci europei, cooperazione sull’immigrazione e contro il crimine organizzato. Su quest’ultimo punto, difficile trovare un solo poliziotto o giudice britannico che non abbia denunciato i danni provocati dalla fine della collaborazione con Europol.

                Il capitolo giovani è forse il più eloquente: ritorna la mobilità per gli under 30 da e per l’Ue, con quote prestabilite e diritti limitati, ma con la libertà di muoversi, imparare, lavorare. L’Ue ha chiesto il ripristino dell’Erasmus e delle rette ridotte per gli europei, ma Londra ha opposto resistenza. Tuttavia, i britannici potranno tornare a usare gli e-gates, entrando nei Paesi Ue senza le umilianti code che oggi li equiparano a qualsiasi altro “extracomunitario”.

                Keir Starmer lo ha detto chiaramente: “Non ci chiuderemo in noi stessi. Questo accordo è concreto, porta crescita, salari più alti e bollette più basse”. E ha rivendicato: “È ciò per cui i britannici hanno votato lo scorso anno”. Nessun rimpianto per la Brexit, anzi. Il messaggio è stato netto: chi ha promesso libertà ha consegnato soltanto burocrazia, costi e solitudine.

                Downing Street ha rincarato la dose: “L’accordo firmato dai conservatori con l’Ue è un fallimento. Questo nuovo approccio migliorerà la vita di produttori, consumatori e famiglie”. Parole che fino a ieri sarebbero sembrate eresia, oggi suonano come semplice realtà.

                Ma non tutti applaudono. La Commissione Affari Esteri di Westminster – a guida laburista – ha lamentato l’assenza di una visione strategica e ha chiesto al governo di osare di più. La presidente Emily Thornberry ha parlato di “fiducia, non cautela” e di “valori condivisi da difendere insieme all’Europa, soprattutto in tempi di guerra e minacce globali”.

                Anche Sandro Gozi, copresidente della Commissione Parlamentare euro-britannica, ha parlato a Repubblica di “una nuova fase” da costruire “sulla fiducia, sull’innovazione, sull’intelligenza artificiale, sulla ricerca, sui giovani”. Temi che sembravano scomparsi dall’agenda britannica da anni, e che adesso tornano al centro.

                La verità, sotto le firme e le dichiarazioni, è che la Brexit sta lentamente morendo, svuotata dai fatti e sgonfiata dalle necessità. Chi la difende ancora, lo fa solo per ideologia o per interesse. Il resto del Paese ha già voltato pagina.

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