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Politica

Sangiuliano e la soap turca: l’ammissione della tresca e il ministro in mutande. Ma non si dimette!

Nonostante le pressioni e lo scandalo che lo coinvolge, Gennaro Sangiuliano non lascia la poltrona. Ammette la relazione con Maria Rosaria Boccia, si giustifica con scuse imbarazzanti, ma continua a tenere stretta la sua carica. Intanto, l’ex amante documenta i corridoi di Montecitorio con occhiali-telecamera e sembra più che mai decisa a vendicarsi.

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    Gennaro Sangiuliano, alias Genny Delon, si è trovato nel bel mezzo di una bufera che avrebbe travolto chiunque altro. Ma non lui. Nonostante abbia ammesso la tresca con Maria Rosaria Boccia, il ministro della Cultura non ha alcuna intenzione di dimettersi. E mentre cerca di giustificare la sua condotta con scuse che farebbero arrossire anche il più sfacciato, la Boccia, sempre più simile a una donna in cerca di vendetta, continua a gettare benzina sul fuoco.

    “Reciproca stima professionale” diventata… altro

    Nel tentativo di spiegare l’inevitabile, Sangiuliano ha finalmente ammesso: “Quando la nostra reciproca stima professionale è diventata un fatto privato, io per primo ho ritenuto di dover fermare la nomina a Consigliera per i Grandi Eventi”. Una giustificazione che suona più come una confessione, ma che non sembra affatto sufficiente per placare le polemiche. Sangiuliano, sposato e ministro della Repubblica, dovrebbe rappresentare un esempio di integrità e rigore, ma la sua condotta appare sempre più lontana da questo ideale.

    Le giustificazioni di Genny: “Nessun documento sensibile, solo cuoricini su WhatsApp”

    Ecco come Genny Delon ha cercato di difendere il suo operato, con una serie di dichiarazioni che non hanno fatto altro che peggiorare la situazione. “Nessun documento sensibile, nessun video, al massimo qualche foto privata, ma nulla di più… o qualche messaggio della chat di WhatsApp con i cuoricini, non c’è altro”, ha dichiarato, come se minimizzare potesse bastare a salvarlo. Ma davvero pensava che bastasse? Sangiuliano si è anche affrettato a precisare: “Ho pagato tutto io con la mia carta di credito personale”, cercando di sgomberare il campo da eventuali accuse di uso improprio di fondi pubblici.

    Una vendetta annunciata: la Boccia non perdona

    Maria Rosaria Boccia, invece, sembra intenzionata a non lasciare nulla di intentato. Da amante abbandonata a vendicatrice spietata, il passo è stato breve. Da quando è stata messa da parte dopo aver, a quanto pare, ceduto alle lusinghe del potente di turno, ha deciso di svelare tutto, compresi i dettagli più scomodi. Tra le sue “imprese” più recenti, spicca la documentazione video dei corridoi di Montecitorio, ottenuta grazie a un paio di occhiali-telecamera Ray-Ban. Sì, avete capito bene: l’influencer campana ha girato indisturbata nei palazzi del potere, riprendendo tutto con discrezione, ma non senza destare sospetti.

    “Seguitemi”: il tour notturno di Montecitorio con gli occhiali-telecamera

    Tra le storie su Instagram condivise dalla Boccia, spiccano quelle realizzate all’interno di Palazzo Montecitorio, in cui documenta i corridoi e persino alcuni uffici, apparentemente indisturbata, mentre altre persone le passano accanto ignare. “Un tour del palazzo… seguitemi!”, scrive aggiungendo un’emoji che ride, il tutto accompagnato dalle note di “La notte” di Arisa. Ma a svelare il trucco è stata Selvaggia Lucarelli sul Fatto Quotidiano, che ha notato come le riprese fossero state realizzate con occhiali-telecamera Ray-Ban, uno strumento che ha suscitato non pochi interrogativi sulla legalità di queste operazioni.

    “Nulla di illegale!”: la difesa di Maria Rosaria Boccia

    Immediata la replica della Boccia, che ha risposto alle critiche con una storia su Instagram: “Nulla di illegale!”, ha scritto, specificando che il dispositivo utilizzato per catturare foto e video ha un piccolo LED bianco che si accende quando è in funzione. Una giustificazione che non ha certo calmato le acque, ma ha solo alimentato ulteriormente il fuoco della polemica.

    E ora?

    Genny Delon ha cercato di salvare la faccia e il suo incarico, ma resta da vedere quanto ancora potrà resistere sotto il peso di uno scandalo che sembra non volersi placare. La Meloni, intanto, non nasconde la sua preoccupazione: “Cos’altro esce su di te?”, gli ha chiesto durante l’interrogatorio a Palazzo Chigi. Per ora, Sangiuliano resta saldo sulla sua poltrona, ma con una simile vendetta in corso, la sicurezza del ministro potrebbe essere solo apparente.

    La domanda è: quanto tempo passerà prima che un nuovo colpo di scena metta definitivamente fine a questa telenovela politica?

    Una vendetta senza fine?

    Con Maria Rosaria Boccia decisa a non lasciar cadere nulla nel dimenticatoio, il rischio che emergano nuovi dettagli imbarazzanti è sempre più concreto. La sua determinazione a vendicarsi per essere stata messa da parte, dopo aver ceduto alle lusinghe di Sangiuliano, sembra essere la forza motrice dietro ogni nuova rivelazione. La Boccia ha dimostrato di saper giocare le sue carte con astuzia, e la sua presenza sui social non fa altro che alimentare il fuoco della curiosità e dello scandalo.

    Occhiali-telecamera: fino a dove si è spinta?

    A questo punto, non possiamo fare a meno di chiederci fino a che punto Maria Rosaria Boccia abbia deciso di spingersi nella sua vendetta. Gli occhiali-telecamera Ray-Ban, utilizzati per documentare i corridoi di Montecitorio, potrebbero essere stati usati anche in altre circostanze, più intime e personali? L’idea che possa aver portato quegli stessi occhiali in situazioni private, magari in camera da letto, è un pensiero che inquieta.

    Il ministro in mutande: l’incubo peggiore di Genny Delon

    Immaginate la scena: un video imbarazzante che mostra un ministro della Repubblica in mutande, svelato al pubblico per mano di una ex amante tradita. Sarebbe il colpo di grazia per Genny Delon, che già fatica a mantenere la sua posizione in un governo che vacilla sotto il peso di scandali e tensioni interne.

    Mentre il ministro cerca di mantenere una facciata di rispettabilità e la Meloni tenta di tenere insieme una compagine di governo sempre più litigiosa, l’ombra di un possibile video compromettente si allunga. Tutti speriamo, per il bene della dignità politica e personale, che la Boccia non abbia deciso di spingersi così oltre, regalandoci l’imbarazzante visione di un ministro in mutande. Ma con una vicenda così intricata e imprevedibile, ogni giorno potrebbe riservarci un nuovo e sconvolgente episodio.

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      Politica

      Onorevoli morosi: i parlamentari che non pagano le quote e fanno piangere le casse dei partiti (ma non mollano la poltrona)

      Sono eletti, ma non pagano. Siedono in Aula, ma latitano alla cassa. In tutti i partiti abbondano i morosi delle quote, quelli che dovrebbero versare contributi e invece fanno gli gnorri. Mentre i tesorieri impazziscono e i bilanci piangono, spunta la minaccia dell’incandidabilità. Ma qualcuno pensa davvero che funzionerà?

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        Pagano le bollette, forse. Versano il mutuo, magari. Ma quando si tratta di pagare le quote al partito, gli onorevoli si eclissano come fossero a un vertice Nato… ma senza invito. Benvenuti nel meraviglioso mondo degli “onorevoli morosi”: categoria trasversale, bipartisan, e sorprendentemente creativa nel trovare scuse per evitare di saldare i conti con il proprio partito.

        Il caso più emblematico è quello del Movimento 5 Stelle, che ha scoperto di avere un buco di 2,8 milioni di euro in quote non versate da parlamentari e consiglieri regionali. E per non farsi mancare nulla, ci sono altri 1,4 milioni mai restituiti in indennità di fine mandato. A quel punto il tesoriere Claudio Cominardi ha detto basta: “O paghi o resti fuori dai giochi”. Tradotto: niente più candidature né incarichi per chi fa lo gnorri alla cassa.

        Il risultato? Il partito ha chiuso comunque il bilancio 2024 con un avanzo di oltre due milioni. Magia? No, solo una buona gestione e qualche recupero forzato. Altro che “uno vale uno”: qui vale chi versa.

        Ma non pensiate che i grillini siano un’eccezione. Il vizietto del “non pago, tanto chi se ne accorge” colpisce un po’ ovunque. Nel Partito democratico, il buco da morosità è di 441 mila euro, anche se in leggero calo rispetto all’anno scorso grazie ad azioni legali. Insomma: se non vuoi versare spontaneamente, ti citano. Con affetto, si intende. E nonostante tutto, al Nazareno si brinda: avanzo da 650 mila euro, anche grazie al 2×1000 (oltre 10 milioni). Unico problema? L’affitto: 502 mila euro per la sede. Perché sì, la politica costa. Soprattutto se vuoi farla con il parquet.

        Il partito con il miglior comportamento? Sinistra italiana, che vede lievitare i contributi da 204 a 281 mila euro in un anno. Unico caso virtuoso. Forse perché, senza grandi mecenati, lì le quote sono come il pane: o le hai, o resti a digiuno.

        E il centrodestra? Beh… Fratelli d’Italia, che lascia i versamenti alla volontà degli eletti, ha perso 1,2 milioni. La Lega ne ha lasciati sul campo 700 mila. Risultato: entrambi in rosso, e con i bilanci da rianimare. Tanto che anche loro stanno meditando il modello 5 Stelle: “paghi o fuori”.

        In casa Forza Italia, invece, le cose vanno (relativamente) meglio. Il buco c’è – 307 mila euro di disavanzo – ma a tappare le falle ci hanno pensato 128 imprenditori con un cuore grande come una donazione: oltre 1,5 milioni versati. Altro che fundraising: questo è il Superenalotto.

        E intanto, mentre i tesorieri fanno i conti con Excel e tachipirina, i parlamentari si dividono in tre categorie:
        – quelli che pagano senza fiatare,
        – quelli che rimandano “alla prossima settimana” da sei mesi,
        – e quelli che proprio spariscono, rispondendo alle PEC con gif di gattini.

        L’idea dell’incandidabilità per chi non versa? Bellissima. Ma un po’ come il gelato in spiaggia: parte bene, poi si squaglia.

        Perché diciamolo: in politica tutti promettono, ma alla cassa arrivano in pochi. Soprattutto se devono mettere mano al portafogli e non al microfono.

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          Politica

          Bengasi chiude i cancelli: la figuraccia internazionale di Piantedosi (e dell’Europa)

          Missione saltata, delegazione espulsa, onta pubblica: la trasferta del Viminale in Libia orientale si trasforma in un boomerang diplomatico. E Bengasi lancia un messaggio chiarissimo: “Qui comandiamo noi”.

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            Atterrano, si guardano intorno, pronti per stringere mani, scattare foto e pronunciare le solite frasi fatte tipo “collaborazione fruttuosa”, “dialogo costruttivo”, “fronte comune sui flussi migratori”. E invece… “Preparatevi a ripartire”. No, non è l’incipit di un racconto comico, ma la sintesi cruda della missione (fallita) del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e della delegazione Ue a Bengasi. Una scena da film, solo che il genere è commedia nera: atterrati a Benina, dichiarati personae non gratae e gentilmente accompagnati alla porta d’imbarco. Game over in meno di un’ora.

            Per la cronaca, con Piantedosi c’erano anche i ministri dell’Interno di Grecia e Malta, oltre al Commissario europeo alle Migrazioni, Margaritis Schinas. Un bel team. Una missione “strategica”. Un disastro annunciato.

            La Libia, lo sanno anche i sassi, è un Paese spaccato in due: a ovest il governo riconosciuto da ONU e amici, a est il blocco filorussissimo della Cirenaica, che ha già fatto capire più volte che l’Europa può bussare, ma a porte chiuse. E invece la delegazione Ue è arrivata come se nulla fosse, con la delicatezza di un elefante in una cristalleria tribale. Risultato: tutti a casa, senza passare dal via.

            Il comunicato del governo libico orientale è stato più esplicito di una testata diplomatica: “Violazioni delle procedure”, “mancanza di rispetto delle leggi libiche”, “sovranità nazionale calpestata”. E, ciliegina sulla torta, la definizione lapidaria: “persona non grata”. Tradotto: “non ci servite, non vi vogliamo, non fate finta che sia un incidente. Non è un incidente. È un messaggio”.

            E che messaggio. Dietro il linguaggio istituzionale c’è una verità politicamente scottante: la Libia non è più terreno neutro, ma un campo minato dove le missioni europee entrano a proprio rischio e pericolo. E in questo caso, senza nemmeno il rischio: solo il pericolo, concretizzato in una figuraccia mondiale.

            Il Viminale, che già non brilla per agilità diplomatica, ora dovrà spiegare come mai una missione internazionale sia stata gestita con tanta leggerezza, come se Bengasi fosse un quartiere periferico di Roma e non una roccaforte semi-autonoma in mano a milizie e potentati locali. Ma soprattutto, dovrà spiegare perché si continui a credere che basti l’etichetta “Unione Europea” per farsi spalancare tutte le frontiere. Siamo nel 2025: quella stagione è finita.

            E l’Europa? Zitta. Come al solito. O, nella migliore delle ipotesi, affaccendata a trovare una frase abbastanza vuota da suonare importante e abbastanza ambigua da non dare fastidio a nessuno. Un comunicato stampa in corpo 10, senza firme né conseguenze. Diplomazia 2.0: quando prendi schiaffi, fai finta di non sentirli.

            Intanto, dal lato libico, il premier della Cirenaica Osama Saad Hammad gongola. Ha umiliato mezza Europa con una nota stampa e un cambio di gate. E ha fatto passare un messaggio chiaro: “la Libia orientale non è vostra alleata, né vostra cliente”. Potete mandarci soldi, droni, corsi di formazione per la guardia costiera, ma non vi illudete di comandare. Quello l’abbiamo già fatto noi, con voi sulla pista d’atterraggio.

            Il paradosso? Piantedosi era andato in missione per parlare – manco a dirlo – di migranti. Tema che in Libia è una questione di potere, milizie, traffici, porti. Cioè esattamente tutto ciò che l’Europa continua a fingere di non vedere. E in cambio, si becca l’ennesimo no secco, urlato a voce bassissima ma risuonante fino a Roma.

            In un mondo normale, questa debacle avrebbe provocato dimissioni, interrogazioni, crisi diplomatiche. Invece, probabilmente, finirà con qualche riga sui giornali e un’altra missione “strategica” già programmata tra un mese. Magari stavolta a Tripoli. O a Tobruk. Basta che si apra la porta. E che qualcuno, almeno una volta, controlli prima chi c’è dietro.

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              Politica

              Lollobrigida e la bresaola yankee: il ministro e la teoria della carne ormonata “di scambio”

              Francesco Lollobrigida tenta il colpo diplomatico: “Facciamo la bresaola con la loro carne ormonata, ma solo per il loro mercato”. L’idea, presentata al forum di Bruno Vespa, scatena l’ironia dei social. E c’è chi parla di “bresaola sconsigliata” e salumi con la retromarcia.

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                Francesco Lollobrigida ha parlato. E quando lo fa, il made in Italy trema. Al forum in Masseria di Bruno Vespa, il ministro dell’Agricoltura ha rivelato la sua arma segreta per convincere Donald Trump a rivedere i dazi: vendere agli americani bresaola fatta con la loro carne, piena di ormoni, secondo il loro “modello alimentare”. Sì, avete letto bene. Perché, come spiega lo stesso ministro con slancio acrobatico, “tanto già importiamo il 90% della carne per fare la bresaola”. E allora, perché non prenderla direttamente dagli USA? Magari infilandoci un fiocco tricolore, per poi rivendergliela “secondo i loro standard”, aggiunge lui, “anche se io la sconsiglio”. Una trovata geniale, quasi da Premio IgNobel.

                Il popolo dei social si è scatenato. C’è chi scrive che “persino il criceto che ha in testa si dissocia” e chi invoca il ritiro del passaporto alimentare italiano. Ma il ministro non indietreggia. Dopo aver difeso il vino con la celebre frase “anche l’abuso di acqua può portare alla morte”, ora prova a far passare l’idea che la bresaola ormonata americana sia una brillante strategia diplomatica. Più che un baratto commerciale, un compromesso al sapore di contraddizione.

                Dietro l’azzardo, c’è l’ansia da trattativa. Trump minaccia dazi fino al 17% su prodotti europei e Lollobrigida, di ritorno da una missione americana, si aggrappa a ogni leva possibile: dalla bresaola “made in USA” alla soia. “La compriamo quasi tutta da Brasile e Argentina”, dice, “solo un sesto dagli Stati Uniti”. Quindi? Un’ulteriore offerta sul piatto per “riequilibrare” una bilancia commerciale che ci vede esportare verso Washington per 8 miliardi, contro appena 1,7 importati.

                E così, pur ribadendo che la carne americana non rispetta i nostri standard sanitari, il ministro si mostra pronto a trasformarla in salumi “per loro”. Con la logica contorta del “noi non la mangiamo, ma se la vogliono loro…”, si spalanca un nuovo fronte gastronomico-diplomatico, dove la salute pubblica si mescola alla geopolitica commerciale.

                A Manduria, dove si teneva il forum, tra un calice di Primitivo e l’altro, qualcuno deve aver pensato che fosse uno sketch. Invece no. È la nuova frontiera del made in Italy, versione Lollobrigida: noi ci teniamo i salumi buoni, agli altri vendiamo la bresaola sconsigliata. E speriamo che Trump abbocchi.

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