Cucina
Marron Glacé quando le castagne diventano magia: storia, segreti e una ricetta irresistibile
Con l’autunno alle porte, torna la voglia di sapori antichi e avvolgenti. I marron glacé, con la loro dolcezza vellutata, rappresentano uno dei simboli più raffinati della stagione, trasformando semplici castagne in vere e proprie delizie da gourmet.

Le origini dei marron glacé sono avvolte in un’aura di leggenda e mistero. Si racconta che questo prelibato dolce sia nato in Francia, nel XVII secolo, alla corte del re Sole, Luigi XIV. Fu proprio il suo pasticcere a ideare questa ricetta come omaggio al sovrano. Tuttavia, alcune fonti sostengono che la prima traccia scritta del marron glacé risalga addirittura al 1550, in Piemonte, allora parte del Ducato di Savoia. Che si tratti di un’invenzione francese o italiana, i marron glacé sono diventati presto un simbolo di raffinatezza e lusso, apprezzati nei salotti aristocratici di tutta Europa.
Le caratteristiche nutrizionali: un dolce che fa bene
I marron glacé, nonostante la loro dolcezza, sono un alimento che offre anche diversi benefici nutrizionali. Essendo a base di castagne, sono ricchi di carboidrati complessi e fibre, utili per l’energia e la digestione. Contengono vitamine del gruppo B e C, minerali come potassio, magnesio e fosforo, che contribuiscono al benessere del sistema nervoso e alla salute muscolare. Naturalmente, l’elevato contenuto di zucchero li rende un alimento da consumare con moderazione, soprattutto per chi deve tenere sotto controllo la glicemia.
Come si preparano i marron glacé: la ricetta passo passo
Preparare i marron glacé in casa richiede tempo e pazienza, ma il risultato ripagherà ogni sforzo. Ecco la ricetta tradizionale per cimentarti in questa dolce impresa.
Ingredienti:
- 1 kg di castagne grandi e di qualità (preferibilmente marroni)
- 1 kg di zucchero
- 1 litro di acqua
- 1 baccello di vaniglia
- 1 cucchiaino di bicarbonato di sodio
Preparazione:
- Preparazione delle castagne: Incidi le castagne sulla parte piatta con un taglio a croce, poi immergile in una pentola con acqua e il bicarbonato. Porta a ebollizione e cuoci per circa 5 minuti. Scolale e, ancora calde, sbucciale con attenzione, togliendo sia la buccia esterna che la pellicina interna.
- Prima cottura: In una casseruola capiente, versa l’acqua e il baccello di vaniglia inciso per il lungo. Aggiungi lo zucchero e porta a ebollizione, mescolando fino a quando lo zucchero non si sarà sciolto completamente. Immergi delicatamente le castagne sbucciate e fai sobbollire a fuoco basso per circa 15 minuti. Spegni il fuoco e lascia riposare le castagne nello sciroppo per 24 ore.
- Seconda cottura: Il giorno seguente, porta di nuovo a bollore le castagne nello sciroppo e cuoci per altri 5 minuti. Spegni e lascia riposare ancora per 24 ore. Ripeti questa operazione per altri 3 giorni: le castagne assorbiranno gradualmente lo sciroppo, diventando sempre più dolci e lucide.
- Asciugatura: Dopo l’ultimo riposo, scola delicatamente le castagne e disponile su una griglia, facendo attenzione a non romperle. Lascia asciugare per 24 ore in un ambiente fresco e asciutto.
- Glassa finale: Per ottenere una glassa perfetta, scalda lo sciroppo rimanente fino a farlo leggermente addensare. Immergi ciascuna castagna nello sciroppo, facendo attenzione a ricoprirla uniformemente. Rimetti le castagne sulla griglia e lasciale asciugare completamente.
I tuoi marron glacé sono pronti per essere gustati o confezionati come un prezioso regalo autunnale.
Un piccolo lusso da concedersi con moderazione
I marron glacé, con la loro dolcezza vellutata e il loro sapore intenso, sono il simbolo della stagione autunnale e del piacere del palato. Sperimentare questa ricetta a casa non è solo un esercizio di pazienza, ma anche un modo per riscoprire la bellezza della tradizione e dei sapori autentici. E se anche tu, come Margherita nelle sue letterine alla Barilla, ami i dolci che sanno di fantasia e di coccole, i marron glacé sono ciò che fa per te.
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Piadina, regina dell’estate: storia, ricetta e segreti della sfoglia più romagnola che c’è
Una sfoglia semplice fatta di farina, strutto, acqua e sale. Ma dietro c’è un patrimonio culturale che profuma di Riviera, biciclette arrugginite e mani infarinate. Dalla storia antica alle varianti gourmet, ecco tutto quello che c’è da sapere sulla piadina, la compagna ideale delle serate d’agosto.

C’è un suono che racconta l’estate romagnola meglio di mille canzoni da spiaggia: è il fruscio della piadina che si gonfia sulla piastra rovente. Un respiro breve, antico, che profuma di farine grezze, di strutto vero, di mani sapienti e facce sorridenti dietro ai chioschi. In Riviera, la piadina non è solo cibo: è un rito. Si mangia dopo il bagno, tra una partita a racchettoni e un tramonto sulla battigia. Si condivide, si piega, si sbrodola. E non conosce crisi: è democratica, inclusiva, low cost e incredibilmente buona.
E dire che le sue origini sono tutt’altro che estive. La piadina nasce come pane povero contadino, una sfoglia rustica senza lievito, da cuocere al volo su lastre di pietra o di terracotta. A raccontarla per primo è addirittura Giovanni Pascoli, che le dedica alcuni versi pieni d’amore. “La piada romagnola” la chiama lui, sottolineando come bastino pochi ingredienti e un fuoco acceso per nutrire un popolo intero.
La versione canonica prevede farina, strutto (o olio, se proprio vogliamo essere gentili con il colesterolo), acqua tiepida e sale. L’impasto si lavora a mano, con pazienza, e poi si stende a disco con il mattarello, fino a raggiungere uno spessore che varia da zona a zona. Nella zona di Forlì e Cesena, ad esempio, è più sottile; a Rimini si avvicina quasi a una tortilla; mentre a Ravenna e dintorni la piada è più alta, morbida e rustica. Ciascuno ha la sua, e guai a dire che “tanto è la stessa cosa”.
Ma è sul ripieno che si gioca la vera partita. Il classicone, manco a dirlo, è crudo, squacquerone e rucola, un mix perfetto di grasso, cremoso e amaro, dove ogni morso sa di sabbia sotto i piedi e risate notturne. Ma c’è anche chi la farcisce con salsiccia e cipolle caramellate, con verdure grigliate e stracchino, con porchetta e pecorino o con frittata e melanzane. I più temerari azzardano anche versioni dolci: Nutella, fichi caramellati, marmellata di ciliegie. Un sacrilegio? Forse. Ma anche il sacrilegio, d’estate, ha un suo fascino.
La piadina è anche un pezzo d’identità. Tanto che nel 2014 è arrivata l’IGP – Indicazione Geografica Protetta, che ne tutela forma, spessore, ingredienti e persino temperatura. Ma il cuore della piadina resta nei chioschi: quelle baracche bianche e blu, spesso in bilico tra la statale e il mare, dove le signore arrotolano impasti con una naturalezza da coreografe. E dove la fila non manca mai, nemmeno alle due di notte.
Un tempo si mangiava in silenzio, con la fame vera. Oggi si scatta la foto, si posta su Instagram, si chiacchiera mentre si morde. Ma lo spirito è lo stesso: conviviale, informale, pieno di sale e libertà. Perché la piadina non ha orari né etichette: si mangia calda in piedi, magari con la birra in mano e i piedi nudi sulla sabbia.
E se qualcuno osa dire che è solo una “focaccia romagnola”, beh, che si prepari a essere smentito. Con dolcezza, certo. Ma anche con la forza di secoli di sfoglia.
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Sushi al pesto, tartufo e bufala: le follie gastronomiche dell’estate italiana
Dai maki al pesto ai nigiri con burrata, passando per uramaki al tartufo nero e tempura di babà: l’estate 2025 è il trionfo della contaminazione gastronomica. L’obiettivo? Far impazzire turisti, influencer e algoritmi. Anche a costo di far venire il mal di pancia al buon gusto.

Il sushi non è più quello di una volta. E in fondo, forse è giusto così: chi ha detto che il riso deve stare con il pesce crudo, la soia e il wasabi? L’estate 2025 ha sdoganato la versione italica del sushi con una creatività che definire ardita è un eufemismo.
Il tour comincia a Portofino, dove lo “chef creativo” del momento serve un roll pesto e pinoli con topping di burrata. “Omaggio alla Liguria”, dicono. “Insulto alla gastronomia”, rispondono i puristi. Il colore verde acceso dell’alga nori che si fonde col verde più spento del pesto ricorda vagamente l’albero di Natale. A Ferragosto.
Spostiamoci a Positano, dove il sushi roll con alici di Cetara e mozzarella di bufala campana fa impazzire TikTok. I turisti tedeschi ci mettono sopra il ketchup, quelli americani fanno “wow”. Il sommelier abbina un prosecco con nota di ananas e il gioco è fatto. L’Asia può attendere.
Ma il premio per la più spregiudicata invenzione dell’anno va a un locale di Assisi, dove il “Sushufolo” – roll di riso con carpaccio di fassona, crema di tartufo nero e scaglie di pecorino – è l’ultimo sacrilegio in menù. Servito su pietra calda, accompagnato da una ciotolina di vin santo. Il Giappone ha chiesto l’estradizione.
A Milano, invece, il “fusion estremo” è una religione. In zona Navigli, un locale propone “sushi carbonara”, con guanciale croccante e uovo a bassa temperatura. Si mangia rigorosamente con le bacchette. E con gli occhi chiusi.
Ovviamente, i social impazziscono: reels, stories, TikTok pieni di bocche aperte, occhi stupiti e didascalie con hashtag tipo #SushItalia o #NigiriColParmigiano. Il confine tra genialità e delirio gastronomico è sempre più sottile. E spesso condito con l’olio al tartufo.
La morale? Nessuna. Se non quella, forse, che l’estate è lunga, gli stomaci forti e il like facile. Nel dubbio, tenete a portata di mano un antiacido. E magari un onigiri vero.
Cucina
La febbre del cocomero: da frutto popolare a simbolo hipster dell’estate 2025
Non è più solo il frutto da tagliare a fette sotto l’ombrellone. Il cocomero si reinventa: ingrediente di cocktail d’autore, protagonista di dessert stellati, musa per packaging di bellezza e persino oggetto di culto su TikTok. E mentre il prezzo per una maxi anguria sfiora i 30 euro, scoppia la “cocomero mania”.

Un tempo si mangiava sulla spiaggia, appoggiati al bagnasciuga, con le mani appiccicose e il succo che colava sulle ginocchia. Oggi, invece, l’anguria si serve in calici da vino, viene affettata in cubi minimal per dessert da ristorante stellato, e profuma – letteralmente – le notti estive di chi la sceglie come nota di testa nel nuovo Eau de Parfum da boutique.
È ufficiale: il cocomero non è più solo un frutto. È un manifesto estetico.
La “cocomero mania” è esplosa come una granita al sole, complice l’ascesa social dell’anguria: tra TikTok, Instagram e Pinterest, il frutto rosa è diventato sfondo, oggetto, pattern, trend. C’è chi lo scolpisce in forme artistiche, chi lo utilizza per creare stoviglie biodegradabili, chi ne fa la base per un gelato molecolare da servire al tavolo con l’azoto liquido.
E poi ci sono i cocktail, ovviamente. Dal Watermelon Spritz con gin botanico al Margarita all’anguria affumicata, il frutto più pop dell’estate si è guadagnato un posto d’onore nei menu dei rooftop bar di Milano, Roma e Barcellona.
Non solo food. Brand cosmetici e case di moda ne esaltano l’effetto pop: la fragranza watermelon è ovunque, dagli shampoo alle creme corpo, passando per le candele da 60 euro l’una. Persino nei beachwear si moltiplicano i pattern ispirati all’anguria, che torna prepotente anche su borse, teli mare e accessori.
E il prezzo? Come ogni moda, ha il suo costo. In alcune città, una maxi anguria biologica può superare i 25-30 euro. E se la si vuole già tagliata, il ricarico raddoppia.
L’anguria, insomma, non è più la merenda proletaria che fu. Ma forse, proprio per questo, piace ancora di più. Perché dietro la scorza verde e le righe scure, batte ancora un cuore rosso capace di conquistare ogni estate. Anche questa.
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