Società
Il Primo Maggio, tra piazze, canti e bandiere: la festa che ricorda chi ha lottato per tutti noi
Dal massacro di Chicago del 1886 ai cortei con gli striscioni colorati, il Primo Maggio è la memoria viva delle battaglie operaie. Tra rivendicazioni, conquiste e qualche retorica, resta la giornata in cui il lavoro si prende la scena. E prova a contare ancora qualcosa.
Non è solo un giorno rosso sul calendario, il Primo Maggio. È una giornata che ha il rumore delle fabbriche, l’odore di benzina e sudore, il suono delle parole gridate in piazza, ma anche il gusto della carne sulla brace e la voce stonata di un cantante sul palco del Concertone. È festa, sì. Ma lo è perché prima è stata lotta.
Il Primo Maggio nasce lontano, in un’altra epoca e in un altro continente. Chicago, 1886: i lavoratori americani chiedono che la giornata lavorativa sia limitata a otto ore. Lo fanno con uno sciopero che paralizza la città. Il 4 maggio, in piazza Haymarket, durante una manifestazione pacifica, qualcuno lancia una bomba contro la polizia. La reazione è brutale: sparatoria, morti, processi sommari, impiccagioni. Otto anarchici vengono accusati. Cinque moriranno. Nessuna prova, solo un messaggio da lanciare: chi lotta, paga. Ma quell’episodio, che sarebbe potuto finire nell’oblio delle rivolte perdenti, diventa mito. Simbolo. E da lì nasce la festa del lavoro.
Il primo a istituirla ufficialmente è il movimento operaio americano, ma è in Europa che la data prende davvero piede. In Italia arriva nel 1891, sospesa durante il fascismo e poi rilanciata nel Dopoguerra con nuovo vigore, anche grazie all’unità dei sindacati. Da allora, il Primo Maggio è diventato la festa laica per eccellenza, la giornata che appartiene a tutti – disoccupati compresi – e che racconta ciò che siamo attraverso ciò che facciamo.
Eppure, ogni anno ci si divide: c’è chi partecipa al corteo con bandiere rosse e fazzoletto al collo, chi va al mare, chi guarda il Concertone di Roma e chi si chiede ancora a cosa serva. In un’epoca in cui i confini del lavoro si sono sfaldati, in cui lo smart working ha trasformato le case in uffici e i contratti a chiamata hanno sostituito la certezza dello stipendio fisso, parlare di “classe lavoratrice” sembra quasi un esercizio di nostalgia. Ma forse è proprio per questo che serve ancora il Primo Maggio.
Serve per ricordare che le otto ore di lavoro, le ferie, i contributi, la malattia retribuita, non sono stati regali. Sono stati conquiste. Di gente che si è presa manganellate, che è finita in galera, che ha perso il posto, la vita, la voce. Serve per guardare i rider sotto la pioggia, le cassiere che non si possono permettere il lusso della domenica, gli stagisti eterni e i precari cronici. Serve per dare un nome a chi lavora ma non ha tutele, e a chi le ha ma rischia di perderle.
E serve, forse, anche per sorridere. Perché il lavoro, per chi ce l’ha, è dignità. E anche se non è perfetto, anche se logora, stanca e spesso umilia, è ancora la leva più potente per sentirsi parte del mondo. Per guadagnarsi il pane – e non solo.
Ci sono poi le curiosità. In Francia, ad esempio, il Primo Maggio si regala il mughetto, “muguet”, come portafortuna. In Spagna, fino a pochi anni fa, non era nemmeno considerata una festa importante. In Svizzera, è festa solo in certi cantoni. E in Cina si celebra il 1° maggio con un’intera “settimana d’oro” di vacanze. Anche la Santa Sede, nel 1955, ha provato a mettere un timbro cattolico sulla giornata, istituendo san Giuseppe lavoratore come patrono di chi fatica. Ma il DNA della festa resta laico, popolare, agitato, a volte urlato.
E se oggi il Concertone si è trasformato in un palco su cui salire per promuovere il nuovo singolo, anche quello ha un senso. Perché la cultura, come il lavoro, è ciò che ci definisce. E vedere giovani e meno giovani alzare le braccia, cantare, commuoversi, è comunque un modo di dire “io ci sono”. Anche quando il contratto non c’è.
Quindi sì, grigliate pure. Andate al mare, accendete la TV. Ma almeno per un momento, ricordate che il Primo Maggio non è solo un giorno di riposo. È il giorno in cui milioni di persone, nel mondo, ricordano che lavorare non significa solo produrre. Significa vivere con dignità. E ogni tanto – una volta all’anno – val la pena ricordarlo.