Cinema
Il Natale politicamente scorretto del film “Una poltrona per due”
Il miope atteggiamento di un certo tipo di revisionismo prende di mira anche un classicone natalizio, che rappresenta un appuntamento fisso del pubblico davanti alla tv, durante le feste. In questo 2024 anche per tre giorni al cinema, in versione restaurata.

Per molti sta diventando un’ossessione… questa ricerca spasmodica di un orientamento ideologico, di un atteggiamento sociale nell’evitare l’offesa – ma anche solo lo svantaggio – verso determinate categorie di persone o verso un ideale, un concetto specifico. Un’attività che sembra appassionare molti e che, in tutta franchezza, sembra averci davvero preso la mano…
Un appuntamento imperdibile, come la tombolata con i nonni
Anche il Natale non sfugge a questa tendenza. Mentre in tv impazzano gli spot su pandori e panettoni e spopolano le pellicole natalizie, in molti ne aspettano una in particolare: Una poltrona per due di John Landis, con Eddie Murphy e Dan Aykroyd. Un film che, alla pari solo de La vita è meravigliosa di Frank Capra, riesce immediatamente a creare la magica atmosfera che tutti ricercano nelle festività natalizie. Si tratta, da anni, di un imperdibile appuntamento per gli italiani, che il 24 sera all’unisono sintonizzano gli apparecchi televisivi su Italia 1 per la puntuale messa in onda della pellicola, uscita per la prima volta nelle sale nel 1983.
Per tre giorni in sala
In questo periodo, inoltre, è stato possibile vederla nuovamente anche al cinema. Ma solo per tre giorni, oltretutto in una particolare versione restaurata. Un appuntamento immancabile per gli appassionati, guastato dalle consuete polemiche degli adepti del “politicamente corretto”, che vorrebbero riscrivere la storia e le sue tradizioni.
Tutte le “colpe” della pellicola
Mentre la cronaca quotidianamente ci offre innumerevoli spunti per scrivere articoli intelligenti, uno di recente (pubblicato su un noto mensile italiano), sottolineava come inspiegabile che “un titolo tanto osteggiato (e a ragione) negli ultimi anni abbia addirittura la possibilità di venir proiettato per tre giorni in sala, soprattutto dopo i dibattiti che si è portato dietro in tempi recenti”. Le colpe del film sarebbero svariate: razzismo, la cosiddetta N-word, blackface, donne che vengono rappresentate come oggetti…
Non è la prima volta, in passato se la presero pure con l’elefantino Dumbo
Ma la vera onta del film in questione sarebbe quella di essere stato girato all’inizio degli anni Ottanta, quando vigeva una diversa comicità e sensibilità. La follia di questa idea non è nuova: nel 2021 alcuni benpensanti provarono a proporre la censura per cartoni animati come Peter Pan e Dumbo, film come Via col vento e American Beauty, addirittura libri scritti da autori del calibro di Jules Verne, Ian Flemig e Agatha Christie.
La follia della cancel culture
E’ il risultato di una cancel culture imperante che tenta in ogni modo (e a volte ci riesce pure) di proporre un revisionismo storico su tutto… o quasi. Una deriva che, anche in questo 2024 agli sgoccioli, appare quantomeno anacronistica. Nell’articolo sopracitato ci si indigna per la blackface di Dan Aykroyd, sottolineando come “non faccia più ridere”. L’autrice del pezzo si preoccupa di consigliare: “Servirebbe parlarne e rifletterci sopra per sì, contestualizzarlo, ma soprattutto per non tirarsi indietro quando c’è da indicare ciò che conteneva (e contiene) di inopportuno. Un’avvertenza affinché non si riproduca un simile linguaggi”.
Ma davvero qualcuno ritiene lo spettatore medio così stupido?
Partendo quindi dal presupposto che lo spettatore medio sia totalmente incapace di distinguere ciò che è adeguato da ciò che non lo è. Un concetto sorprendentemente sciocco, come quando ci viene spiegato che i film sui serial killer rappresentano storie di fantasia, dalle quali non si deve prendere esempio!
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Cinema
Pretty Woman, il retroscena clamoroso: Richard Gere disse no, Julia Roberts lo convinse con un biglietto
La commedia romantica più amata di sempre rischiava di essere un dramma sociale con un finale amaro. Richard Gere non voleva il ruolo, Julia Roberts non era la prima scelta. Ma poi successe la magia: tra imprevisti, risate vere e giacche comprate per strada, Pretty Woman diventò leggenda.

Pretty Woman è entrato nella storia come il film che ha consacrato Julia Roberts a icona planetaria e ha rilanciato Richard Gere come protagonista romantico per eccellenza. Ma dietro la favola metropolitana da quasi mezzo miliardo di dollari al botteghino, si nasconde un retroscena che in pochi conoscono.
Nella prima versione della sceneggiatura, scritta da J.F. Lawton, il film finiva in tragedia. Vivian veniva abbandonata da Edward e la sua amica Kit moriva di overdose durante una gita a Disneyland. Altro che commedia: un cupissimo dramma sociale, senza lieto fine. Fu solo con l’arrivo della Disney e del regista Garry Marshall che il copione prese una svolta radicale. Si decise di trasformare la storia in una fiaba urbana, con un finale romantico e memorabile.
Anche il casting fu un percorso a ostacoli. Julia Roberts, all’epoca una promessa ancora in ombra, dovette sostenere due audizioni per conquistare il ruolo. I dirigenti Disney volevano nomi più noti: Meg Ryan, Jennifer Connelly, persino Winona Ryder vennero considerate. Tutte rifiutarono, in parte per via del tono iniziale troppo duro del film.
Quanto a Richard Gere, il no fu quasi categorico. L’attore rifiutò più volte il ruolo di Edward, finché Julia non si presentò a New York con un biglietto scritto a mano: “Per favore, dì di sì”. Fu il gesto decisivo. La chimica tra i due, una volta sul set, fece il resto.
Molte delle scene più amate furono improvvisate. La chiusura del portagioie sul dito di Vivian? Inventata sul momento. La risata fragorosa davanti alla TV? Vera, provocata da Marshall che solleticava i piedi di Julia. Anche la celebre giacca rossa fu comprata per strada dai costumisti dopo averla vista indosso a una sconosciuta.
Oggi Pretty Woman è un classico senza tempo. E se un sequel non si farà mai — per volontà del cast e dopo la scomparsa di Garry Marshall — resta intatto il fascino di un film nato da mille imprevisti, ma entrato nel cuore di tutti.
Cinema
“Jurassic World. La rinascita”: dinosauri trumpiani e messicani in fuga. Scarlett spara, il pubblico sorride
Nel nuovo “Jurassic World. La rinascita”, i dinosauri tornano a inseguire umani, i buoni scappano, i cattivi complottano e Scarlett Johansson mena le mani. Ma il vero colpo di scena? Un T. Rex trumpiano che rincorre messicani nel deserto. Esagerato? Sì. Ma lo spettacolo non manca.

Se pensavate che la saga di Jurassic Park avesse già detto tutto, preparatevi al ritorno dei dinosauri con un’agenda politica. Jurassic World. La rinascita è l’ultimo reboot di un franchise che ha più vite di un Velociraptor, diretto dal sobrio Gareth Edwards e scritto da David Koepp, che dopo il primo film del 1993 evidentemente aveva voglia di farsi un regalo nostalgico.
Il film parte con Scarlett Johansson versione mercenaria da palestra, alias Zora, che imbraccia un fucile grande quanto un frigorifero e si lancia in missione accanto a Duncan, interpretato da Mahershala Ali, basco in testa e carisma rilassato. Il compito? Recuperare campioni di sangue da tre dinosauri iper-mutati nascosti su un’isola vietatissima. Classico.
Nel mezzo, un’adorabile famigliola messicana in vacanza (male) si ritrova inseguita da un T. Rex con la faccia – o almeno l’atteggiamento – di Donald Trump. Un’idea sottile come un meteorite, ma che funziona: il D. Rex (Distortus Rex, giuro) irrompe come un politico in campagna elettorale e semina il panico. Ed è qui che il film trova il suo groove: esagerato, caricaturale, senza alcuna intenzione di prendersi sul serio.
I dinosauri, ovviamente, sono i veri protagonisti: alcuni sembrano usciti da una sfilata punk, altri ricordano i vecchi amici di “Gioele” nei caroselli Rai, ma quando entra in scena il T. Rex originale nella palude – sì, proprio lui – tutto si fa più epico. C’è anche un baby-dinosauro che mangia dolcetti e fa amicizia con una bambina: una deriva alla Spielberg degli anni Ottanta che strappa sorrisi.
I dialoghi? Boh. Servono a malapena a tenere insieme le scene. I personaggi? Si reggono sul carisma degli attori, più che sulla scrittura. Ma a salvarci è il ritmo da videogame e l’azione scatenata, tra giungle tropicali, laboratori segreti e una nave cargo che sembra uscita da Skull Island.
Il messaggio di fondo – combattere le multinazionali farmaceutiche assetate di profitti usando dinosauri come cavie – è meno chiaro di quanto sembri, ma chi se ne importa? Quando un T. Rex trumpiano rincorre messicani armati di machete, ogni sottotesto politico passa in secondo piano.
Scarlett ce la mette tutta. I dinosauri fanno il loro dovere. E il pubblico, alla fine, applaude.
E allora? Non sarà il film dell’anno. Ma per due ore di fuga, zanne e assurdità ben piazzate, va più che bene.
Cinema
Kevin Spacey riparte dal cinema europeo: «Perdono chi mi ha giudicato, ma non tornerò a lavorare con loro»
Kevin Spacey torna a parlare pubblicamente in Italia e lo fa con tono pacato ma deciso: «Ho perdonato chi mi ha condannato senza processo, ma non lavorerò più con loro». Dopo l’assoluzione, l’attore è pronto a rimettersi in gioco con tanti nuovi progetti.

Kevin Spacey sta tornando. Dopo sei anni di silenzio forzato e di allontanamento dallo show business, l’attore due volte premio Oscar è apparso sul palco dell’Italian Global Series Festival a Rimini, dove ha ricevuto il Maximo Excellence Award e parlato apertamente del suo percorso umano e professionale, segnato dalle accuse di molestie per le quali è stato completamente assolto.
«Sono entusiasta di tornare a lavorare», ha detto Spacey davanti a una platea calorosa. «Ho tantissime storie da raccontare». Ma l’attore non si è limitato a guardare avanti: ha ripercorso anche il periodo buio della sua vita, sottolineando il valore della gratitudine verso chi gli è rimasto accanto e il distacco definitivo da chi lo ha abbandonato. «Sono pieno di riconoscenza verso coloro che hanno atteso l’esito del processo prima di giudicarmi. Quelle persone hanno la mia fiducia e farò di tutto per mantenerla. Quanto a chi mi ha condannato senza conoscere la verità: li perdono, ma non cercherò mai più una collaborazione con loro».
Spacey ha citato Franco Nero, che nel 2023 lo ha voluto nel film L’uomo che disegnò Dio, come primo a tendere una mano dopo l’esilio hollywoodiano. «Franco ha alzato la testa e ha detto: ‘Kevin, ti voglio nel mio film’. È stato il primo, e ha fatto partire una tendenza. Da allora ho ripreso a lavorare, e non mi sono più fermato».
L’attore ha anche ricordato il recente intervento a Cannes, dove ha ricevuto un riconoscimento alla carriera dal Better World Fund Gala. In quell’occasione aveva dichiarato con sarcasmo: «Chi avrebbe mai detto che omaggiare uno scagionato in tutti i tribunali sarebbe stato considerato un atto di coraggio?». Ora però il tono è diverso, più misurato, quasi zen. «Questa pausa forzata mi ha concesso di riflettere, di rivalutare, di ascoltare. E di capire con chi valga davvero la pena lavorare».
Dopo Johnny Depp, anche Kevin Spacey sceglie l’Europa per il suo ritorno: meno Hollywood, più storie d’autore. Ma con la voglia di ricominciare davvero.
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