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Cinema

James Bond è in crisi: tra ritardi, Amazon e il fantasma di Daniel Craig, il futuro di 007 è un’incognita

Dopo l’addio di Daniel Craig, il nuovo Bond è ancora un mistero. Tra la gestione Amazon, le difficoltà nel trovare un attore e la crisi dei blockbuster, il rischio è quello di allontanare definitivamente il pubblico. Riuscirà 007 a tornare in azione prima di battere il record di inattività della saga?

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    Così recitavano gli ultimi titoli di No Time to Die, mentre la Royal Albert Hall, il 28 settembre 2021, piombava in un silenzio sbalordito. Il pubblico si chiedeva se fosse davvero la fine dell’agente segreto più famoso del mondo. Poi la rassicurazione: James Bond tornerà. Sì, ma quando? E soprattutto: come?

    Quasi tre anni e mezzo dopo, la risposta è ancora un gigantesco punto interrogativo. Nel frattempo, il Regno Unito ha cambiato tre primi ministri, il principe Carlo è diventato re, ma 007 è ancora senza volto e senza missione. Se prima era solo una questione di tempo, oggi il problema è più profondo: la saga di Bond è entrata in un pantano fatto di contratti, battaglie legali, strategie aziendali e un’industria cinematografica che non sa più cosa farne degli eroi tradizionali.

    L’effetto Amazon e il braccio di ferro con Eon Productions

    L’acquisizione di MGM da parte di Amazon nel 2021 per 8,45 miliardi di dollari ha creato un’anomalia unica nel panorama di Bond. Da una parte, Amazon vuole spremere il franchise, portandolo nel XXI secolo con spin-off, serie TV e videogiochi. Dall’altra, Barbara Broccoli e Michael G. Wilson, custodi della saga da sempre, detengono ancora il controllo creativo e vogliono proteggere 007 dalla macchina da guerra dell’intrattenimento digitale.

    Jeff Bezos, con la sua visione da colosso dello streaming, ha dichiarato di voler “sviluppare la proprietà intellettuale”, ma per ora la saga è ferma. Se il modello Marvel ha dimostrato quanto sia difficile mantenere alta la qualità con un’espansione aggressiva, Broccoli e Wilson non vogliono correre lo stesso rischio. Ma senza una chiara direzione, il franchise rischia di diventare irrilevante.

    Bond, il blockbuster in un mondo che non crede più nei blockbuster

    Un altro grande ostacolo è la crisi del cinema post-Covid. No Time to Die ha incassato 774 milioni di dollari globalmente, una cifra dignitosa, ma lontana dai fasti di Skyfall. Oggi il panorama è ancora più cupo: colossi come Mission: Impossible, Indiana Jones e persino Star Wars hanno arrancato al botteghino. Il costo di produzione di un film di Bond si aggira sui 250 milioni di dollari e con il mercato sempre più dominato dallo streaming, i produttori devono essere sicuri che ne valga la pena.

    Il risultato? Il nulla cosmico. I contratti con MGM, Amazon, Universal e United Artists devono essere ridefiniti prima ancora di pensare al prossimo 007. E mentre gli analisti finanziari discutono, il pubblico aspetta.

    Chi sarà il nuovo Bond?

    La ricerca del nuovo James Bond è un altro nodo irrisolto. La produzione vuole un attore tra i 30 e i 35 anni, né troppo noto né troppo sconosciuto, capace di reggere il peso di un decennio nel ruolo. Tom Hardy (47), Tom Hiddleston (43) e persino il più giovane James Norton (39) sono ormai fuori gioco. Idem per Paul Mescal e Barry Keoghan, impegnati nei biopic sui Beatles di Sam Mendes.

    Chiunque venga scelto, avrà un contratto molto più complesso rispetto ai suoi predecessori. Non più tre film e un quarto opzionale, ma un pacchetto che potrebbe includere spin-off, serie TV, videogiochi e apparizioni speciali in altri prodotti legati al brand. In poche parole, una gabbia dorata.

    Il rischio di lasciare troppo spazio alla concorrenza

    Mentre Bond resta fermo ai box, Hollywood sforna sempre più imitazioni. Progetti come The Day of the Jackal con Eddie Redmayne e Black Doves con Keira Knightley cercano di riempire il vuoto lasciato da 007. Il pericolo è che il pubblico perda definitivamente interesse nel franchise originale.

    Come ha detto Charlie Higson, autore dei romanzi Young Bond: “È assurdo pensare che la gente abbia smesso di desiderare eroi come James Bond. In tempi incerti, c’è ancora più bisogno di personaggi che taglino fuori le stronzate e risolvano le cose con un’auto, una pistola, un drink e una battuta spiritosa”.

    Ma il tempo sta scadendo. Per ora, l’ultimo messaggio lasciato dalla produzione rimane quello di No Time to Die, sulle note di We Have All the Time in the World di Louis Armstrong. Ma davvero è così?

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      Cinema

      Kathy Bates e i fantasmi di Misery: “Mi sentivo impreparata, come una contadinotta”

      L’attrice premio Oscar ripercorre l’esperienza che le cambiò la vita: dal disorientamento sul set al successo travolgente. Una carriera costruita tra fragilità iniziali e ruoli indimenticabili.

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      Kathy Bates

        Kathy Bates non dimenticherà mai l’esperienza di Misery non deve morire, film che nel 1990 la consacrò come una delle attrici più potenti del cinema americano. Intervistata da Variety, l’interprete di Annie Wilkes ha raccontato senza filtri il disorientamento provato all’epoca: un successo improvviso che la travolse e la mise a confronto con le proprie insicurezze.

        “C’è una foto di me mentre scendo da un’auto con un bavaglino di pizzo nero e un reggiseno bianco sotto. Sembravo ridicola. Vivevo tutto come un incubo. Mi sentivo una contadinotta capitata per caso in un mondo troppo grande per me”, ha ricordato Bates, oggi 76enne.

        Una vittoria che pesa

        Con Misery, tratto dal romanzo di Stephen King e diretto da Rob Reiner, Bates vinse l’Oscar come miglior attrice protagonista per il ruolo della fan psicopatica che sequestra lo scrittore interpretato da James Caan. Un traguardo enorme, arrivato però in un momento in cui lei stessa non si sentiva pronta.

        “Guardando indietro, mi sono sentita non protetta. Non avevo idea di cosa stessi facendo. Ero una ragazza di Memphis, figlia di genitori anziani, e vent’anni indietro rispetto ai tempi. Non conoscevo niente di quel mondo, e quella sensazione mi ha perseguitata per anni”, ha raccontato.

        Le difficoltà sul set e il rimprovero a Reiner

        Il regista Rob Reiner, in passato, aveva confermato le incertezze dell’attrice, sottolineando come quell’ingenuità fosse paradossalmente vicina alla goffaggine e alla follia del personaggio di Annie Wilkes. Bates, invece, ritiene che il problema fosse più profondo. “Non ero solo inesperta. Mi mancavano gli strumenti per affrontare l’impatto emotivo e mediatico del cinema. Venivo dal teatro, ma il cinema era un’altra cosa”.

        Con ironia, l’attrice ha persino scherzato sul finale del film, rimproverando bonariamente Reiner: “Perché non mi hai fatto tagliare il piede a James Caan, come nel libro?”. Una battuta che racconta il suo rapporto complesso ma affettuoso con quel set.

        Dopo Misery, una carriera di conferme

        Nonostante le incertezze, Misery aprì a Bates le porte di Hollywood. Solo un anno dopo fu protagonista di Pomodori verdi fritti alla fermata del treno, anche quello un ruolo che la mise a dura prova. “Non mi sentivo all’altezza, ma andai avanti”, ha confessato.

        Il resto è storia del cinema: da Titanic di James Cameron a Primary Colors, da A proposito di Schmidt fino al cult Waterboy con Adam Sandler. Bates ha attraversato generi diversi, dimostrando una versatilità unica, fino a diventare una presenza fissa anche in televisione con American Horror Story.

        Il peso della fragilità

        Quella fragilità iniziale, ammette oggi, è stata però anche una risorsa: “Il senso di inadeguatezza mi ha permesso di avvicinarmi ai personaggi con umiltà. Ho imparato a trasformare le mie insicurezze in emozioni autentiche da portare sullo schermo”.

        Kathy Bates è ormai un’icona di Hollywood, ma non dimentica le difficoltà che hanno segnato i suoi primi passi. Il ruolo di Annie Wilkes le ha cambiato la vita, tra paure e riconoscimenti, lasciando un segno indelebile nella storia del cinema.

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          Cinema

          Leonardo DiCaprio corre verso l’Oscar, Margot Robbie mezza nuda a Londra: in Italia vince “Demon Slayer”

          Il nuovo film di Paul Thomas Anderson con DiCaprio è già in corsa per l’Academy, Margot Robbie fa scintille all’anteprima di A Big Bold Beautiful Journey. Da noi, invece, il box office è dominato da Demon Slayer: Il castello dell’infinito (808 mila euro), seguito dall’horror The Conjuring – Il rito finale.

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            A Hollywood si gioca già la partita dell’Oscar. Leonardo DiCaprio, con One Battle After Another diretto da Paul Thomas Anderson, si candida al premio più ambito senza passare per i festival, scavalcando la trafila che un tempo dettava legge. Margot Robbie, dal canto suo, ha monopolizzato i flash all’anteprima londinese di A Big Bold Beautiful Journey, più nuda che vestita, confermandosi regina di stile e provocazione.

            E in Italia? I numeri raccontano una realtà diversa: a portare pubblico in sala sono i giovanissimi. In testa al box office troviamo Demon Slayer: Kimetsu No Yaiba – Il castello dell’infinito, capace di incassare 808 mila euro con 97 mila spettatori in un solo giorno su 334 schermi. Mica male per un anime.

            Scende al secondo posto l’horror The Conjuring – Il rito finale, che con 325 mila euro dimezza gli incassi del giorno precedente ma porta comunque il totale a 6 milioni. Terza piazza per Material Love (o The Materialists) di Celine Song: commedia sofisticata con Dakota Johnson divisa tra Chris Evans e Pedro Pascal, 87 mila euro e 1,17 milioni complessivi.

            Quarto posto per Downton Abbey – Il gran finale di Simon Curtis, 66 mila euro e un totale di 71 mila. Più giù resiste, al quinto, Elisa di Leonardo Di Costanzo, dramma psicologico con Barbara Ronche, che aggiunge 20 mila euro e arriva a 251 mila.

            Tra le curiosità: I Puffi restano sesti con oltre 2,49 milioni complessivi, mentre Come ti muovi sbagli di Gianni Di Gregorio raccoglie 121 mila euro totali. L’animazione tedesca Grand Prix e il sequel Troppo cattivi 2 si contendono l’ottava e nona posizione. In decima chiude il film-concerto Francesco De Gregori Nevergreen di Stefano Pistolini, con 9 mila euro.

            Il pubblico adulto, insomma, continua a latitare: le sale si riempiono solo quando a trainare sono horror o anime. Tutti gli altri aspettano il nuovo film di DiCaprio, ma davanti a uno schermo televisivo.

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              Cinema

              Pretty Woman: Valeria Golino al posto di Julia Roberts? Il provino che poteva cambiare la storia del cinema

              Valeria Golino e il provino finale per Pretty Woman: “Quando vidi Julia Roberts, capii che avrebbero preso lei”.

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                Insomma la trasmissione Belve di Rai2, condotta da Francesca Fagnani, ci regala sempre più spesso delle vere e proprie chicche. Come nel caso dell’intervista all’attrice e regista Valeria Golino che, nella puntata del 26 novembre, ha raccontato un dettaglio sorprendente sul film Pretty Woman. Ovvero? L’indimenticabile e spezza cuori Vivian Ward, personaggio femminile del film interpretata da Julia Roberts, poteva essere affidata proprio a Valeria Golino. L’attrice e regista italiana, allora reduce dal successo del film Rain Man, arrivò infatti all’ultima fase di selezione per il ruolo, contendendolo proprio alla futura star americana.

                Il provino finale? Un incubo condiviso

                Valeria Golino ha raccontato di essere stata tra le ultime due candidate per il ruolo di Vivian. La competizione si giocò in un clima surreale e imbarazzante. “Eravamo nello stesso posto, vestite uguali, un incubo”, ha rivelato l’attrice. Eppure, al di là della tensione, Golino comprese subito il verdetto: “Quando ho visto Julia, con quella vitalità tutta americana, ho capito che avrebbero preso lei. Io ero più malinconica”. Nonostante quella delusione, Valeria non ha mai espresso rammarico, anzi: “Non ho mai detto che avrei potuto farlo io. Ha vinto la migliore per quel ruolo”. Un riconoscimento elegante e sincero che sottolinea la consapevolezza dell’attrice italiana del peso che Julia Roberts ha dato al personaggio di Vivian Ward, trasformandolo in un’icona del cinema.

                Una scelta che ha fatto storia

                Il regista Gary Marshall si trovò di fronte a un bivio artistico. Scegliere Julia Roberts, con la sua spiccata energia positiva e il fascino tipicamente americano, o Valeria Golino, dalla bellezza enigmatica e dall’aria malinconica. La scelta – per fortuna – cadde sulla Roberts, la cui interpretazione segnò non solo il successo del film ma anche il suo ingresso nell’Olimpo delle star di Hollywood.

                Golino: un successo che non conosce confini

                Tuttavia, è intrigante immaginare oggi come sarebbe stata Pretty Woman con Valeria Golino nel ruolo principale. Il suo approccio al personaggio avrebbe probabilmente dato una sfumatura diversa, meno solare e più introspettiva, forse arricchendo Vivian Ward di un’aura più sofisticata. Non ottenere quel ruolo non ha fermato la carriera di Valeria Golino, che continua a essere una delle attrici italiane più apprezzate a livello internazionale. “Da giovane, il successo lo prendevo per scontato. Poi ho imparato la disciplina”, ha confessato l’attrice, che a vent’anni aveva già vinto la Coppa Volpi a Venezia. Oggi, guardando indietro, durante l’intervosta con la Fagnani, Golino riflette su quel momento con la maturità di chi sa riconoscere il proprio valore e quello degli altri. La sua grazia nel raccontare questa esperienza dimostra come la vera grandezza risieda anche nell’umiltà: “Quello era il ruolo di Julia. E lo ha fatto splendidamente”.

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