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Personaggi e interviste

Valeria Rossi e la vita oltre il successo: “Con ‘Tre parole’ comprai casa ai miei genitori”

Dall’esplosione della sua hit estiva alle scelte personali che l’hanno portata a lasciare il mondo della musica, Valeria Rossi si racconta. Un viaggio che parte dalla difficile giovinezza, passa per un successo travolgente, e arriva fino ai progetti attuali legati alla bioenergetica.

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    Valeria Rossi, classe 1969, nasce a Tripoli e cresce a Roma, una città che segnerà profondamente la sua vita e carriera. Scrittrice, cantante e antropologa, Rossi è nota al grande pubblico per il brano “Tre parole”, un vero e proprio tormentone dell’estate 2001 che ha raggiunto le vette delle classifiche italiane, vendendo 200 mila copie e aggiudicandosi un triplo Disco d’oro. Tuttavia, la sua carriera artistica e personale va ben oltre quel successo lampo, caratterizzata da un percorso ricco di sfide, rinascite e riflessioni profonde. Così si racconta in un’intervista a Repubblica.

    L’infanzia e la giovinezza: tra esilio e solitudine

    Valeria Rossi nasce a Tripoli da una famiglia di origini italiane, costretta a lasciare la Libia quando Gheddafi prese il potere e confiscò tutti i loro beni. “Non ci siamo trasferiti, siamo dovuti scappare dopo che Gheddafi ci aveva espropriato di ogni bene,” racconta Valeria, descrivendo un’infanzia segnata dalla migrazione forzata e dall’inizio di una nuova vita a Roma, in condizioni economiche difficili. Suo padre, Giuseppe, che in Libia gestiva un’azienda di import-export, dovette ricominciare da zero, mentre sua madre, Clara, trovò impiego al CNR grazie a un concorso vinto. Valeria descrive quegli anni come una fase di grande solitudine e introspezione, in cui cominciò a formarsi una determinazione che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita: “Ero una adolescente molto solitaria e chiusa in me stessa. In quei momenti è uscita una forte determinazione che poi mi ha sempre aiutata”.

    Il trauma dell’abuso e la forza di rinascere

    Una delle esperienze più dolorose della sua vita, che ha segnato profondamente la sua crescita, è stato l’abuso subito durante l’infanzia, un argomento di cui Valeria ha scelto di parlare apertamente solo in anni recenti. “Da ragazzina, avevo appena 10 anni, sono stata abusata. Si tratta di una storia molto accidentata e dolorosa nella mia crescita,” confessa. Valeria ha trovato la forza di raccontare questa vicenda nel suo libro “Come un cane bianco”, spiegando quanto sia stato difficile affrontare quel trauma in un’epoca in cui parlare di abusi era un tabù, anche all’interno della famiglia: “Perché adesso ne stiamo parlando ed è importante farlo. Ma prima non bisognava parlarne, nemmeno in famiglia. […] Ti senti abbandonata. Anche perché è successo in un ambiente che in teoria doveva essermi vicino, che doveva proteggermi.”

    Il successo di “Tre parole” e la carriera musicale

    Nonostante il successo straordinario di “Tre parole”, Valeria Rossi ha sempre avuto un rapporto ambivalente con quella hit che l’ha resa famosa, ma che l’ha anche “imprigionata” in un ruolo che non sentiva pienamente suo. “Mentre tutto questo succedeva, io man mano mi estraniavo con la mente. Pareva di vivere in una bolla,” riflette Valeria, ricordando come quel successo improvviso l’abbia travolta, senza darle il tempo di metabolizzarlo. Nonostante l’enorme successo, Valeria non si è mai sentita completamente a suo agio nel ruolo di pop star: “Quando hai un successo di quella portata ti si appiccica un’etichetta addosso e ti chiedono di fare sempre la stessa cosa. In questo caso la stessa canzone. […] Non mi sono cristallizzata solo su quello. Ho fatto tante altre cose.”

    La rinascita personale e professionale

    Dopo il successo di “Tre parole”, Valeria ha continuato il suo percorso, laureandosi in Antropologia e dedicandosi a nuove passioni, come l’analisi bioenergetica, una psicoterapia somatopsichica ideata da Alexander Lowen. “Ho studiato molto e mi sono specializzata nell’analisi bioenergetica […] La pratico innanzitutto per me. Ma anche per aiutare gli altri,” spiega Valeria, descrivendo la sua nuova fase di vita, lontana dai riflettori, ma non meno intensa. Oggi, vive a Monza con il marito e il figlio, dedicandosi a vari progetti legati alla bioenergetica e al sociale, un campo che le sta molto a cuore.

    La vita oggi: tra famiglia e nuove sfide

    Oggi Valeria Rossi si divide tra la famiglia e i suoi nuovi impegni professionali e sociali. “Non sono troppo chioccia ma cerco di tirare su la pianta, annaffiarla e farla crescere. Sono molto vicina a mio figlio,” racconta parlando del suo ruolo di madre. Inoltre, continua a portare avanti il progetto Voiceplant, che unisce la musica, il patrimonio vegetale e umano: “Mettiamo insieme musica, patrimonio vegetale e patrimonio umano. […] Traduciamo la frequenza della pianta in suono e poi componiamo.”

    Valeria Rossi è un esempio di come si possa rinascere dalle difficoltà, trasformando le esperienze dolorose in forza e resilienza, e continuando a coltivare le proprie passioni e impegni con determinazione e coraggio. Un percorso che dimostra come il successo, quando è vissuto con consapevolezza, può essere solo una tappa in un viaggio molto più lungo e significativo.

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      Basta con l’alcol, faceva male a chi mi vuole bene: i buoni propositi di Mauro Corona

      L’opinionista a “Verissimo”: “Sono in cura da due mesi per il vino, alcool è tragico”. Dalla Toffanin Mauro Corona confessa la dipendenza dal vino, i processi subiti, il percorso di cura iniziato dopo la sospensione della patente. “Ho smesso perché facevo male a chi mi voleva bene”.

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        Ospite di Verissimo, Mauro Corona, noto alpinista, scrittore e opinionista di È Sempre Cartabianca, ha aperto il suo cuore parlando della sua battaglia contro l’alcol. “Sono in cura da due mesi per il vino – ha spiegato – dico vino perché è poetico, alcool è tragico”. Un modo delicato per raccontare un dramma personale che per anni ha segnato la sua vita e le sue relazioni.

        Ha perduto la patente

        Corona ha rivelato di aver perso la patente proprio a causa dell’alcol e che quella sospensione è stata il vero punto di svolta: “Non guido da due mesi. È stato difficile, ma non tanto per l’astinenza fisica, quanto per la mancanza di allegria e della compagnia degli amici. Dopo una scalata si andava a bere qualcosa, ora invece ho detto stop, e stop è stato”.

        I processi e gli eccessi: “Vedevo il demonio”

        Parlando senza filtri, Corona ha ripercorso gli episodi più bui del suo passato, causati dalle cosiddette “bevute strane”. Non tutte, racconta, erano caratterizzate da violenza o eccessi: alcune erano tranquille, ma altre degeneravano. “Mi succedeva di vedere il demonio e fare terra bruciata intorno a me”, ha ammesso.

        Le ripercussioni legali

        A causa di questi comportamenti, negli anni Mauro Corona ha dovuto affrontare numerosi problemi legali: “Ho avuto tanti processi: ubriachezza molesta, interruzione di funzione religiosa, turpiloquio in luogo sacro, sequestro di persona… E anche offese a gente che mi voleva bene”. Un elenco doloroso che testimonia quanto la dipendenza avesse preso il sopravvento su di lui.

        La decisione di smettere: “Facevo male a chi mi amava”

        Nonostante le cadute e i momenti difficili, Corona ha trovato la forza di cambiare. “Ho smesso di bere perché facevo del male a chi mi voleva bene”, ha raccontato commosso. Una scelta difficile ma necessaria, maturata non per obbligo esterno, ma per un profondo senso di responsabilità verso le persone care. Il percorso di cura intrapreso da Mauro non è semplice: rinunciare a quello che per anni è stato un rifugio richiede costanza e forza di volontà. Ma, come ha sottolineato lui stesso, la consapevolezza di poter ferire gli altri è stata più forte di qualsiasi richiamo all’alcol.

        Un nuovo capitolo

        Con la sua testimonianza a Verissimo, Mauro Corona non solo ha raccontato la sua personale battaglia, ma ha anche lanciato un messaggio di speranza: è possibile rialzarsi, è possibile riprendersi la propria vita. Con la sua schiettezza, ancora una volta, ha mostrato che anche gli uomini più forti e apparentemente indistruttibili devono, a volte, fermarsi e chiedere aiuto.

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          Sabrina Impacciatore e il delirio lisergico: “Mi sentivo Pam, la moglie di Jim Morrison”

          Tra viaggi psichedelici, identità di genere fluide e storie ai limiti del reale, l’attrice racconta gli anni della sua metamorfosi interiore: “Con Jim Morrison ho parlato davvero. O almeno, così mi sembrava”.

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            C’è stato un tempo in cui Sabrina Impacciatore non era semplicemente Sabrina Impacciatore. Era Pam, la moglie di Jim Morrison.
            Così almeno racconta lei stessa, ripercorrendo con sorprendente sincerità gli anni delle sue esplorazioni più estreme: tra esperienze psichedeliche, identità sessuali fluide e visioni al limite del mistico.

            «Mi sento transessuale da sempre», ammette senza esitazione, ricordando un episodio emblematico: «Un cantautore, dopo averci provato inutilmente con me, alla fine mi disse: “Sabrina, se c’hai il c*o dimmelo”**». Un’affermazione che, lungi dall’offenderla, sembra averle dato la misura di quanto la sua percezione di sé fosse da sempre fuori dagli schemi comuni.

            Gli anni della giovinezza, del resto, sono stati segnati da una curiosità onnivora, anche verso gli angoli più oscuri dell’esperienza umana. Droghe? Provate quasi tutte, confessa. E se le sostanze più dure le hanno lasciato addosso solo disagio e amarezza, sono gli allucinogeni ad averla trascinata in quel vortice onirico da cui, in qualche modo, ancora oggi sembra attingere.

            «Le droghe allucinogene sono state le più affascinanti. E sì, ci sono rimasta sotto», racconta senza nascondersi. Una volta, sotto effetto di acidi, vide Jim Morrison in persona, in una scena degna di un film di Terry Gilliam: «Era su un galeone di pirati. È sceso, ha camminato sulle acque e mi ha chiamato: “Pam”». E lei, per un paio d’anni, si convinse davvero di essere Pam Courson, la compagna storica del frontman dei Doors. Una convinzione così radicata da permeare ogni suo gesto quotidiano.

            L’amore, in quegli anni, si muoveva sulle stesse onde scomposte. Una notte d’amore con una donna? C’è stata, certo, ma con la stessa leggerezza con cui si prende una scorciatoia senza sapere bene dove porterà. «È stata una notte sola. Il giorno dopo, tutto era già cambiato», dice, senza dare a quell’esperienza un significato diverso da quello che ha voluto avere: un momento, niente di più.

            Oggi Sabrina sorride di quella stagione, senza rinnegarla. Un percorso tumultuoso che l’ha portata a costruire una carriera fuori dagli schemi, proprio come lei. Tra un’apparizione psichedelica e una battuta disarmante, resta una delle poche interpreti italiane capace di raccontare il caos senza imbrigliarlo nella retorica.

            E forse, da qualche parte nei suoi sogni più segreti, quel galeone dei pirati solca ancora i mari lisergici, con Jim Morrison che la chiama Pam. E lei, stavolta, sorride e gli fa ciao da lontano.

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              Max Cavallari: “Dopo il malore volevo smettere. Ma Bruno mi diceva di continuare”

              Dal primo incontro in un villaggio turistico agli anni d’oro dei Fichi d’India, passando per il malore che ha cambiato tutto: Max Cavallari racconta Bruno Arena, le risate, i tormentoni, i successi e i dolori mai detti. E promette: «Un giorno racconterò quello che è successo davvero a Zelig».

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                Bruno Arena non se n’è mai davvero andato. A raccontarlo è Max Cavallari, che da anni porta avanti da solo il nome dei Fichi d’India. Parlando del suo compagno di scena e di vita, Max usa sempre il «noi», come se Bruno fosse ancora lì, seduto accanto a lui, pronto a sparare una battuta fuori tempo, a infilarsi in un altro tormentone nato dal nulla.

                Max, quanto le manca Bruno?
                «Tanto. Ma è come se fosse sempre presente tramite me. Vado ancora in scena con il suo Maggiolino giallo: l’ho comprato apposta, per averlo vicino. La gente nei miei spettacoli riscopre i nostri personaggi. Ormai le vere amicizie sono rare: a volte è meglio la solitudine».

                Un legame che non era solo professionale: era anche familiare.
                «Bruno era pure mio cognato: ho avuto una figlia dalla sorella di sua moglie. Sono padrino di suo figlio, lui è padrino della mia Alice. Ci vedevamo a Natale, ai compleanni. Per il resto, eravamo come due poli opposti. Ma era lo zio della mia bambina, che oggi ha 32 anni».

                La vostra comicità?
                «Era avanspettacolo puro. Facevamo ridere con poco: venivamo dal popolo, raccontavamo personaggi veri, senza filtri, senza regole. Eravamo clown, quelli veri. Oggi, la comicità è solo volgarità».

                Dopo il malore di Bruno, ha pensato di smettere?
                «Sì, volevo mollare tutto. Ma quando andavo a trovarlo, lui mi faceva capire che dovevo continuare. Gli amici sono spariti, i parenti pure, tranne i suoi genitori. I fan, invece, mi hanno telefonato, mi hanno spinto a ricominciare. E sono ancora Max Cavallari dei Fichi d’India».

                C’è una battuta che più di tutte le riporta a lui?
                «I tormentoni “ahrarara” e “tichi tic”. Con quelle due parole mi sono comprato casa. “Ahrarara” nasce da un gioielliere con la erre moscia, Sergio Baracco: Bruno si era talmente immedesimato che una volta si infilò un topazio finto nel naso e finì al pronto soccorso».

                Una delle prime vendette tra voi?
                «Gli regalai una bicicletta Bianchi con le ruote bucate. Per ripicca minacciò di scassarmi la mia. Lui andava in bici a Colorado, io arrivavo con una Porsche cabrio. Una notte, Pier Silvio Berlusconi vide noi due, la Porsche e la bici e chiese: “Ma guadagnate uguale?”».

                È vero che all’inizio vi stavate sulle palle?
                «Sì, tanto. Lui era allenatore di basket all’oratorio, io ero il ragazzino imbranato. In squadra c’era uno che si chiamava Cavallari e faceva sempre canestro: Bruno non lo faceva mai giocare, solo per il cognome!».

                Il numero 17, una ferita mai chiusa.
                «Bruno odiava il 17: era il giorno dell’incidente che gli aveva lasciato i buchi in fronte. Ogni 17 del mese si bloccava, non faceva nulla. E il 17 gennaio 2013 fu il giorno del suo malore. Io me lo sono tatuato: 1+7 fa 8, il giorno in cui sono nato».

                Perché vi chiamavate Fichi d’India?
                «Perché sono frutti pungenti fuori e dolci dentro. Proprio come noi».

                Come vi siete conosciuti artisticamente?
                «A Palinuro. Bruno lavorava nei villaggi Touring, io in un’altra struttura. Ci trovammo in una discoteca, il Ciclope, dove c’era pure un ragazzino scatenato che saltava come un pazzo. Era Jovanotti. Bruno mi prese subito in giro: “Ah, sei quel cretino che non mi fa giocare a basket?”».

                L’incontro con Benigni?
                «Indimenticabile. Ci mandò un’auto a prenderci: pensavamo a una limousine, arrivò un rottame di Opel. Ma era tutto vero: Roberto fa lavorare chi ha bisogno. Ci voleva al Festival di Sanremo come Gatto e Volpe, ci definì “gli ultimi clown del millennio”. Ridevamo: improvvisavamo tutto, ma ce la cavavamo sempre».

                Con Maurizio Costanzo un altro legame forte.
                «Una mente geniale. Dormiva tre ore per notte. Anche in vacanza creava un ufficio in piscina: non riusciva a smettere di lavorare».

                Oggi ci sono ancora veri comici?
                «Pochi. Far ridere è diventato difficile. Tutti sono incattiviti. Prima bastava poco. Anche Zelig ha dato quello che poteva. Anzi, lì un giorno racconterò quello che hanno fatto davvero a Bruno. È una storia pesante».

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