Televisione
Un Posto al Sole e uno in Paradiso: il Napoli vince lo scudetto… e il cast esplode in festa!
A Napoli, vincere uno scudetto non è mai solo una vittoria sportiva. È una rivoluzione emotiva, un’esplosione d’identità, un rito collettivo che unisce generazioni, quartieri e perfino fiction e realtà. Lo sa bene il cast di Un Posto al Sole, che ha celebrato il quarto trionfo tricolore del Napoli con uno scatto corale, simbolo di una città intera in festa.

Il cast di UPAS – i fedelissimi telespettatori lo chiamano con questo acronimo – festeggia il quarto tricolore: quando il calcio non è solo sport, ma identità, orgoglio e spettacolo collettivo. La soap opera più longeva della televisione italiana – e una delle più amate di sempre – ha voluto rendere omaggio alla squadra di Antonio Conte, protagonista di un campionato al cardiopalma, con una foto che è diventata virale. Gli attori storici della serie, insieme alla troupe, festeggiano lo scudetto come autentici tifosi, mischiando finzione e vita reale, come accade ogni giorno tra le strade di Posillipo e quelle di Secondigliano. In particolare, il personaggio del portiere di Palazzo Palladini – Raffaele – (interpretato dall’attore Patrizio Rispo) è un fedelissimo sostenitore del Napoli, capace addirittura di andare in vacanza dove la sua squadra del cuore effettua il ritiro estivo.
Un rapporto simbiotico
Il legame tra Un Posto al Sole e Napoli è viscerale. Come la squadra azzurra, anche la soap racconta la complessità e l’umanità di una città che non si arrende mai, che soffre, lotta e poi – magari in zona Cesarini – vince. Per questo la celebrazione del cast non è un semplice gesto di simpatia calcistica: è una dichiarazione d’amore vera e propria.
Scudetto, spettacolo e spirito napoletano
Dai vicoli ai set televisivi, passando per i balconi addobbati di azzurro e i clacson impazziti fino all’alba, il quarto scudetto del Napoli è una pagina di storia popolare. E come ogni pagina scritta con il cuore partenopeo, non manca di ironia, passione e senso di appartenenza. Un successo che travalica il calcio, diventando spettacolo culturale e sociale.





Conte, cultura e cuore: Napoli al centro
Con Antonio Conte alla guida, la squadra ha incarnato lo spirito combattivo della città, conquistando un titolo che vale più di tre punti alla volta. Vale l’anima di un popolo, vale le lacrime di chi aspettava questo momento da anni. E il fatto che a celebrarlo siano anche gli attori di una soap, lo dimostra: a Napoli il calcio è un trionfo popolare.
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Televisione
Gerry Scotti rilancia “La ruota della fortuna”: la vera sfida è battere i pacchi di De Martino
Con un nuovo studio, una band dal vivo e premi da capogiro, Canale 5 punta tutto sul ritorno del game show più iconico della tv italiana. Ma la sfida vera non è contro i concorrenti: è tra due stili, due epoche e due mondi opposti

Gira la ruota, gira il destino e, soprattutto, girano gli ascolti. Da lunedì sera è tornato su Canale 5 uno dei quiz più iconici della nostra tv: La ruota della fortuna. Ma stavolta non si tratta solo di indovinare parole, consonanti o vocali: la scommessa è a tutto campo. Mediaset ha messo Gerry Scotti nella difficile posizione di rispondere, col sorriso e con le lettere, ai numeri da capogiro di Affari tuoi. E in prima linea, su Rai 1, c’è un De Martino in forma smagliante.
In termini calcistici, quella di Canale 5 è una marcatura a uomo. A uno show garbato ma emozionale, Mediaset contrappone il ricordo di un gioco che – con Mike Bongiorno – è stato prima di tutto scuola d’italiano. Con La ruota della fortuna, generazioni di spettatori hanno imparato lo spelling giocando, unendo intrattenimento e cultura popolare. Oggi Gerry prova a raccogliere quell’eredità, con uno studio rinnovato (lui lo paragona al palco di Sanremo), una band dal vivo, una valletta che non si può più chiamare valletta – Samira – e un nuovo gran finale: La ruota delle meraviglie, con premi fino a 200.000 euro.
Sulla carta, tutto perfetto. Ma basta questo per reggere il confronto con De Martino e i suoi pacchi carichi di suspense? Il pubblico dell’access prime time è fedele, abitudinario, e se c’è una cosa che ama più delle novità, è il ricordo. In tv, si sa, tutto è déjà-vu. La novità, spesso, è solo la forma aggiornata di un’emozione antica.
Gerry, comunque, ci sta mettendo l’anima. Ha capito che questa Ruota non è solo un format, ma una missione. Una sfida che va oltre gli ascolti: riguarda la memoria televisiva di un Paese. Se riuscirà a farci tornare a dire “la S di Savona” con la stessa emozione di trent’anni fa, allora sì, avrà vinto davvero. Anche senza superare i pacchi.
Televisione
Pier Silvio spara a zero su Blasi e Leotta: “Reality brutti e sbagliati”. Le due? Nemmeno una parola
Dietro la stroncatura pubblica di Pier Silvio Berlusconi ai reality condotti da Ilary Blasi e Diletta Leotta c’è l’amarezza di un bilancio in rosso e la delusione cocente per due flop annunciati. La reazione delle dirette interessate? Nessuna replica. Ma dietro il silenzio si nasconde la consapevolezza che il vento a Mediaset è cambiato.

“Brutti, fatti male. Ho provato rabbia e brividi”. Parole come pietre. Pier Silvio Berlusconi non si è limitato a una critica tecnica: ha lanciato un siluro in diretta ai due volti femminili su cui Mediaset aveva investito di più. Ilary Blasi e Diletta Leotta, per lui, non hanno solo fallito. Hanno danneggiato l’immagine e gli incassi dell’azienda.
Dietro la stroncatura, c’è un retroscena preciso. Durante una riunione interna con i vertici del Biscione, l’ad di Publitalia, Stefano Sala, ha mostrato i numeri disastrosi della stagione. Gli investitori hanno voltato le spalle a The Couple e a La Talpa, considerati “contenuti deboli, poco appealing per il pubblico di prime time”. Un’ecatombe che ha scatenato la furia di Pier Silvio: “Mai più errori così. Dovevamo capirlo prima”.
Leotta e Blasi sono rimaste in silenzio. Contattate dai cronisti, hanno risposto tramite portavoce di “non voler commentare”. Una scelta obbligata? Forse. Perché a Cologno l’aria è tesa, e ogni parola fuori posto può trasformarsi in una porta chiusa.
Chi conosce bene i corridoi di Mediaset sa che il silenzio, in certi casi, è più eloquente di mille repliche. Ilary è da tempo in una zona grigia, protetta solo dalla sua lunga storia con la rete. Diletta, star in prestito dal mondo dello sport, è sempre sembrata un corpo estraneo ai reality. E ora potrebbe pagare lo scotto.
Pier Silvio non fa prigionieri. Con lui o fuori. La stagione che verrà non conoscerà indulgenze, né ricordi affettuosi del passato. La tv, dopotutto, è fatta per essere guardata. E se nessuno guarda, qualcuno deve uscire.
Televisione
“Bad Influence”, il lato oscuro dei baby influencer: su Netflix il doc che svela l’inferno dietro i like
Piper Rockelle e “The Squad” sono i volti noti di una macchina da milioni di follower. Ma dietro la fama, il documentario mostra un mondo fatto di pressioni, business familiare e silenzi pericolosi. Quando l’infanzia diventa contenuto.

Si chiama Bad Influence e promette di scuotere coscienze e algoritmi. Il documentario Netflix in tre episodi, disponibile dal 9 aprile 2025, è un viaggio disturbante e necessario nel cuore del fenomeno dei baby influencer. Creato da Jenna Rosher e Kief Davidson, due registi con un passato da documentaristi impegnati, il titolo è già destinato a sollevare discussioni accese. Perché al centro c’è una verità scomoda: dietro milioni di like, si nasconde spesso un prezzo altissimo.
Il volto simbolo del documentario è Piper Rockelle, star di YouTube con oltre 11 milioni di iscritti, protagonista del collettivo “The Squad”. Nelle clip sembra tutto perfetto: challenge, coreografie, prank e sorrisi. Ma le testimonianze di ex membri, genitori e collaboratori raccontano un altro lato della medaglia. Uno fatto di dinamiche tossiche, isolamento, pressioni economiche e accuse gravissime.
Il documentario non si limita a puntare il dito su un singolo caso. Fa molto di più: indaga un intero sistema che ha trasformato l’infanzia in un prodotto vendibile. Dai video per “bambini” agli account gestiti dai genitori, dalle sponsorizzazioni ai contratti vincolanti, Bad Influence mostra come i minori siano spesso al centro di una filiera commerciale senza regole né reali tutele.
Decoy Productions, la casa dietro il progetto, mette insieme materiale d’archivio, interviste esclusive e ricostruzioni che non risparmiano nessuno: né i genitori-manager, né le piattaforme, né il pubblico. Perché se è vero che YouTube e TikTok hanno rivoluzionato l’intrattenimento, è anche vero che l’impatto sui più giovani — quando non addirittura sui bambini — è una bomba a orologeria che finora nessuno ha davvero disinnescato.
E allora la domanda è semplice: chi protegge questi ragazzini? Chi garantisce loro un futuro, una salute mentale stabile, un’identità che non sia solo l’estensione del proprio username? Il documentario si interroga anche su questo, mostrandoci un mondo in cui il confine tra gioco e lavoro si dissolve, e la privacy diventa merce di scambio tra views e profitto.
Tra le scene più forti, il racconto di un ex membro del collettivo che parla di burnout, isolamento emotivo e di un ambiente competitivo in cui i bambini diventano “numeri” e “personaggi”, non più persone. Un universo dove la luce dei riflettori è sempre accesa, anche quando vorresti solo spegnerla.
Bad Influence non è solo un documentario: è una riflessione urgente sul presente digitale in cui siamo immersi. Che siate genitori, educatori, influencer o semplici utenti, questo titolo vi costringerà a fare i conti con la realtà. Una realtà che forse non avevamo voglia di guardare. Ma che ora è impossibile ignorare.
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