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Cronaca Nera

Cosa c’entra un vecchio caso con Emanuela Orlandi?

Il misterioso ritrovamento di ossa alla Magliana nel 2007, in origine collegato alla scomparsa di Libero Ricci, ha rivelato uno scheletro composto da cinque persone diverse. Tra queste, nuove analisi del DNA suggeriscono che uno dei resti potrebbe appartenere a Magdalena Chindris, scomparsa nel 1995, e un altro a Katy Skerl, uccisa nel 1984. La vicenda è ulteriormente complicata dal coinvolgimento di Marco Accetti, collegato anche al caso Emanuela Orlandi, che aggiunge nuovi elementi a questi enigmi irrisolti.

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    Cosa c’entrano delle vecchie ossa trovate alla Magliana con Emanuela Orlandi? Mai dire mai con i cold case, anche quelli più insoliti. La scienza progredisce e questo permette agli inquirenti di trovare sempre nuovi tasselli anche in quei casi che sembrano senza soluzione. La vicenda è complicata e misteriosa: a seguito della scomparsa di un anziano, Libero Ricci, le forze dell’ordine ritrovarono alla Magliana nel 2007 uno scheletro composto e nelle vicinanze i documenti del pensionato.

    Si parlò all’epoca del “collezionista di ossa” della Magliana: lo scheletro non solo non apparteneva a una sola persona ma a cinque, e nessuno di loro, due maschi e tre femmine, era Ricci, che risulta ancora scomparso e non poteva essere l’autore di quella macabra composizione. Ora però ci sono buone possibilità di risalire all’identità di una delle persone che facevano parte di quei poveri resti: come riporta il Corriere della Sera, potrebbe trattarsi di Magdalena Chindris, scomparsa nel 1995 a 47 anni.

    I resti contrassegnati con F3 dai tecnici del laboratorio Circe sono infatti risaliti all’età e all’epoca della morte di una donna tra i 35 e i 45 anni morta tra il 1995 e il 2000. Ora il Dna di F3 sarà comparato a quello di Ester, figlia di Magdalena che il 31 maggio 1995 si ritrovò di fronte a una scena incredibile. Chindris era nata in Romania, ma da giovanissima si era trasferita in Italia. Era sposata con l’intellettuale Aldo Rosselli – che quel giorno era a Firenze – ed era colta e brillante.

    Quel 31 maggio Ester trovò in casa della madre una scala al centro della stanza, il ventilatore staccato, una cravatta a mo’ di cappio e macchie di sangue sulle pareti. Tuttavia quello che sembrava una scena suicidiaria non presentava nessun corpo: Magdalena Chindris non è la sola persona che si cerca tra quei resti attraverso il Dna: altre ossa infatti, quelle contrassegnate con F2, potrebbero appartenere a Katy Skerl, uccisa nel 1984 e il cui corpo risulta scomparso nel 2015. Ed è qui che il caso assume una nuova luce in base a una bizzarra coincidenza.

    A segnalare il trafugamento di Skerl fu Marco Accetti, il fotografo che disse che il corpo della 17enne fosse stato portato via nel 2005 dalla sua tomba. Non solo: Accetti, che si ritiene possa essere l’Amerikano, ovvero colui che telefonava alla famiglia nei giorni della scomparsa di Emanuela Orlandi nel 1983. Accetti inoltre si è autoaccusato per il rapimento della “ragazza con la fascetta” e ha affermato di essere in possesso del suo flauto, due circostanze che gli inquirenti hanno escluso.

    Non finisce qui: Magdalena Chindris avrebbe conosciuto Accetti. Fu infatti la donna a confermare l’alibi del fotografo nel corso del processo per la morte di Josè Garramon. All’epoca, il compagno di Chindris, Gherardo Gherardi, sarebbe stato un cliente dello stesso Accetti.

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      Cronaca Nera

      “Corona aveva rapporti con i clan”: le rivelazioni del pentito William Alfonso Cerbo, detto “Scarface”

      William Alfonso Cerbo, 43 anni, ex collettore economico del clan Mazzei di Catania, ha raccontato ai pm della Dda di Milano che Fabrizio Corona “si rivolgeva a Gaetano Cantarella quando aveva problemi su Milano”. Tra i ricordi, una richiesta di “recupero di 70mila euro a Palermo” e una cena con Lele Mora legata all’Ortomercato.

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        Il pentito William Alfonso Cerbo, detto “Scarface”, ha chiamato in causa Fabrizio Corona nel corso del maxi processo “Hydra” sulla presunta alleanza tra Cosa Nostra, ’ndrangheta e camorra in Lombardia. Davanti ai pm della Dda di Milano Alessandra Cerreti e Rosario Ferracane, Cerbo ha raccontato di essere stato “collettore economico a Milano del clan Mazzei di Catania” e di aver avuto contatti diretti con il mondo dello spettacolo.

        Secondo quanto emerge dai verbali, l’ex re dei paparazzi “si rivolgeva a Gaetano Cantarella, storico affiliato al clan Mazzei, quando aveva problemi su Milano o per un recupero credito di 70mila euro a Palermo legato a una truffa subita da un suo amico”. Cerbo ha anche ricordato che “Corona e Cecilia Rodriguez vennero nella mia discoteca a Catania”, sottolineando come Cantarella avesse rapporti con “diversi personaggi dello spettacolo”.

        Nel corso dei sei interrogatori, tra settembre e ottobre, Cerbo – oggi 43enne – ha ammesso la propria “partecipazione al reato associativo” e depositato una memoria di 27 pagine in cui elenca i punti della sua collaborazione con la giustizia. Tra questi, la scomparsa di Cantarella, ucciso nel 2020 in un episodio di lupara bianca su cui indagano i magistrati milanesi.

        In un altro capitolo della memoria, Cerbo parla anche di Lele Mora. “Una domenica sera andammo a cena a casa di Lele Mora a discutere di affari all’Ortomercato”, ha raccontato. “Voleva sapere che tipo di frutta avrei potuto fornire, le quantità e i prezzi. Mi disse di avere rapporti stretti con il presidente della Sogemi e che sarei potuto essere utile grazie ai miei prezzi”.

        Cerbo sostiene di aver inviato all’ex agente dei vip “il package della frutta in arrivo”, che Mora avrebbe poi girato a contatti all’interno del mercato ortofrutticolo milanese.

        L’inchiesta “Hydra” coordinata dalla Dda di Milano mira a ricostruire le connessioni economiche e criminali tra le principali organizzazioni mafiose in Lombardia. E le parole di “Scarface” – tra imprenditori, personaggi televisivi e affari illeciti – aggiungono un tassello inquietante alla trama di rapporti tra mondi apparentemente lontani.

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          Cronaca Nera

          Il mistero del guanto scomparso nel delitto Mattarella: arrestato un ex funzionario per depistaggio

          Era una delle prove più importanti dell’inchiesta sull’omicidio dell’ex presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella. Ma quel guanto, repertato nel 1980 e mai più ritrovato, è ora al centro di un presunto depistaggio. Arrestato l’ex funzionario di polizia Filippo Piritore, presente al sopralluogo.

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            Un guanto di pelle marrone, da mano destra, ritrovato davanti al sedile passeggero della Fiat 127 usata dai killer di Piersanti Mattarella. È questo il dettaglio che, a 45 anni di distanza, riaccende i riflettori su uno dei delitti più oscuri della storia repubblicana. Secondo la procura di Palermo, quel guanto sarebbe stato fatto sparire da un ex funzionario della Squadra Mobile, Filippo Piritore, arrestato con l’accusa di depistaggio.

            La presenza di Piritore sulla scena è attestata da una fotografia della Scientifica scattata durante il sopralluogo, subito dopo il ritrovamento dell’auto utilizzata per la fuga. Secondo la prassi, l’indumento avrebbe dovuto essere repertato e sottoposto ad analisi, ma ciò non avvenne.

            E qui inizia la zona d’ombra. Il giorno successivo, il 7 gennaio 1980, Piritore — già in possesso degli oggetti trovati sulla vettura — attribuì al guanto una “destinazione diversa” rispetto al resto del materiale, che venne invece riconsegnato al proprietario della macchina.

            Dalla documentazione rinvenuta oggi dalla Squadra Mobile emerge che l’ex funzionario avrebbe inviato il guanto all’allora sostituto procuratore Pietro Grasso, titolare delle indagini, tramite un agente della Scientifica. Una procedura anomala, secondo i magistrati, perché un reperto di quel tipo avrebbe dovuto restare agli esperti della polizia tecnica per le analisi balistiche e biologiche.

            “La prassi adottata presenta diverse preoccupanti stranezze”, sottolineano i pm palermitani. Non solo il guanto è sparito, ma non esiste traccia di alcun verbale di consegna o ricevuta firmata dal magistrato o dal suo ufficio.

            Per gli inquirenti, quella mancata registrazione rappresenta un passaggio cruciale in un possibile depistaggio volto a cancellare elementi utili per risalire agli autori materiali e ai mandanti del delitto. E quel piccolo oggetto di pelle scura, svanito nel nulla, torna oggi a pesare come un simbolo della verità mancata.

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              Cronaca Nera

              Pamela Genini: il sangue di Milano. Red flag, segnali d’allarme e come intervenire prima che sia troppo tardi

              L’omicidio della 29enne modella e imprenditrice ha riaperto il dibattito sui segnali che precedono un femminicidio. Ecco i “campanelli” che non vanno ignorati e cosa fare per proteggersi.

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              Pamela Genini

                La morte di Pamela Genini, uccisa giovedì sera 14 ottobre nella sua casa a Milano da un uomo che avrebbe cercato di strapparle la vita dopo una discussione degenerata, ha scioccato l’opinione pubblica. I primi elementi, ricostruiti da Sky TG24, da Il Fatto Quotidiano e da altri quotidiani nazionali, riportano che Pamela aveva manifestato la volontà di interrompere la relazione. ‒ L’aggressore, Gianluca Soncin, 52 anni, avrebbe approfittato dell’accesso all’appartamento per poi trascinarla sul balcone e colpirla più volte con un coltello. I vicini hanno sentito le urla e hanno chiamato le forze dell’ordine.

                Dietro questa tragedia ci sono segnali già emersi nel passato, che sono spesso ignorati finché non è troppo tardi. Come in molti casi di femminicidio, esistono red flag ‒ segnali d’allarme ‒ che, se riconosciuti, possono permettere un intervento precoce. Ecco quali sono, da cosa derivano e cosa si può fare per prevenirli.

                I red flag: segnali che non vanno sottovalutati

                Dai fatti noti su Pamela Genini emergono alcuni di questi indicatori:

                • Volontà di porre fine alla relazione: quando una persona manifesta la decisione di lasciare o distaccarsi, può generare crisi violente se l’altro non accetta la fine. Nel caso di Genini, la volontà di chiudere era chiara.
                • Precedenti litigi, minacce o aggressioni: fonti indicano che la relazione era già nota per tensioni. I vicini avevano sentito urla, e alcune segnalazioni precedenti avevano allarmato.
                • Stalking o controllo ossessivo: possesso di chiavi copiate (come emerso nel caso di Soncin che avrebbe fatto copie della chiave di nascosto) è un segno di comportamento coercitivo e invasivo dello spazio personale.
                • Violenza improvvisa o escalation rapida: l’aggressione sul balcone, la modalità con cui l’omicidio è avvenuto (trascinamento, uso di coltello multiplo) dimostrano una escalation non moderata.

                Altri segnali più sottili che spesso precedono la violenza sono: isolamento sociale, svalutazione o umiliazioni, gelosia eccessiva, controllo degli spostamenti, delle relazioni con amici/famiglia, frequenti richieste di spiegazioni, comportamento imprevedibile.

                Perché alcuni red flag vengono ignorati

                Ci sono varie ragioni:

                • Minimizzazione: la persona affetta da violenza può credere che “non è così grave”, che passerà, che l’altro cambierà.
                • Vergogna o senso di colpa: chi subisce può sentire che è colpa sua, o che denuncia significherebbe fallimento personale.
                • Dipendenza economica o emotiva: il temere le conseguenze della fine della relazione (isolamento, perdita, solitudine).
                • Scarsa conoscenza dei diritti o delle risorse disponibili.

                Cosa fare concretamente: prevenire, proteggere, intervenire

                1. Ascoltare le persone in difficoltà: quando qualcuno parla di paura, di momenti in cui si sente in pericolo, non liquidare il racconto come semplice “drama”.
                2. Segnalare alle autorità competenti: polizia, carabinieri, numero antiviolenza nazionale 1522. Centri antiviolenza, associazioni come Di.Re sono risorse fondamentali.
                3. Mettere in sicurezza: cambiare luoghi, rafforzare porte, evitare di restare da sola in situazioni di rischio.
                4. Cercare sostegno psicologico: la violenza psicologica è spesso precoce e invisibile. Un esperto può aiutare a riconoscere manipolazione e comportamenti abusanti.
                5. Educazione affettiva: insegnare sin da giovani cosa siano il rispetto, i confini, il consenso. Le scuole e le istituzioni hanno un ruolo cruciale nel costruire modelli relazionali sani.

                La riflessione a partire dal caso Genini

                La tragedia di Pamela Genini deve spingere non solo all’indignazione ma all’azione concreta. È un promemoria che il femminicidio non è mai un evento isolato, ma l’esito estrema di una serie di segnali ignorati. Secondo dati recenti in Italia, il numero di donne uccise da partner o ex‐partner è in aumento rispetto ai periodi precedenti, con circa più di 50 casi già nel 2025.

                Non basta la cronaca, se poi non cambiano le misure: rafforzamento delle leggi, più centri antiviolenza accessibili, formazione delle forze dell’ordine, sensibilizzazione dei medici, insegnanti, amici, parenti.

                Il femminicidio di Pamela Genini è una ferita che scuote la coscienza collettiva. Ma è anche un campanello d’allarme per chiunque: i red flag esistono, sono visibili a chi vuole vedere. Non possiamo più permetterci di ignorarli. Ogni segnale va preso sul serio, ogni vittima potenzialmente salvata merita che qualcuno l’ascolti, che qualcuno intervenga.

                Perché spesso chi salva una persona è chi osa chiedere: “Stai bene? Hai bisogno d’aiuto?”. Chiedere può davvero fare la differenza.

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