Cronaca
Donald Trump: born in the USA… ma con le Bibbie “made in China”!
Le copie della Bibbia adottata da Donald Trump cpme strumento di promozione della sua candidatura alle elezioni sono state stampate in Cina, paese apertamente osteggiato dal tycoon. Quando il business è più forte delle convinzioni politiche.

Ma come… un personaggio che si autodefinisce 100% americano doc, utilizza bibbie stampate in Cina?!? Proprio in quel Paese oggetto di una sua precisa crociata?!? Le copie, facenti parte dell’iniziativa God Bless the Usa, lanciata dal tycoon in corsa per la rielezione a Presidente, sarebbero state stampate in Asia, nel Paese accusato dal tycoon di rubare posti di lavoro agli americani.
“Signor” business
I registri commerciali globali, come riportato aii media americani, svelano che una tipografia della città cinese di Hangzhou ha spedito da inizio anno circa 120mila Bibbie negli Usa. Migliaia di copie del testo sacro con il marchio God Bless the Usa, realizzate in un paese che The Donald accusa da tempo di compiere pratiche commerciali sleali: la Cina. Il valore stimato di tre spedizioni separate è di 342.000 dollari, ossia meno di 3 dollari a copia. Il prezzo minimo per la Bibbia promossa da Trump è di 59,99 dollari. Facendo due conti, i potenziali ricavi dalle vendite sono pari a circa 7 milioni di dollari. Addirittura esiste anche una versione autografata da Trump in persona, acquistabile online, proposta a 1.000 dollari. Un affare niente male… benedetto dal Signore, per finanziare la campagna repubblicana.
Un combo promozionale per riportare la religione cristiana in America
Il valore totale dei libri si aggirerebbe sui sette milion di dollari. Il carico maggiore di libri, circa 70 mila copie, è giunto al porto di Los Angeles il 28 marzo, due giorni dopo l’annuncio del tycoon di aver stretto un accordo con il famoso cantante country Lee Greenwood – acceso sostenitore della politica di Trump – per promuovere la Bibbia. L’iniziativa, oltre alla Bibbia, prevedeva anche una copia della Costituzione, la Dichiarazione d’indipendenza, il Bill of Rights e il Pledge of Allegiance. “Questa Bibbia – aveva specificato Trump al momento del lancio – serve a ricordare che la cosa che dobbiamo riprenderci e riportare in America è la nostra religione”.
Come ti plasmo i futuri elettori a partire dalla scuola
Nello Stato dell’Oklahoma vengono distribuirle in tutti i distretti scolastici perché, in base a una disposizione di legge, il Sacro Testo deve essere insegnato in tutte le classi (a partire dalle middle-school). Il sovraintendente Ryan Walters, mente del piano, in passato ha dichiarato che la Bibbia «rappresenta uno dei documenti fondamentali alla base della nostra Costituzione e della nascita del nostro Paese». Nonostante la levata di scudi di molti distretti, che invocavano la distinzione fra l’istruzione in uno Stato laico e i fondamenti della religione, il progetto è andato avanti.
Il testo regolamentare
Non basta la tradizionale suddivisione in Vecchio e Nuovo Testamento, la Bibbia da utilizzare nelle scuole deve possedere alcune caratteristiche specifiche. Essere rilegata in pelle o simil pelle (in modo da costare di più?), contenere la Pledge of Allegiance, la Dichiarazione di Indipendenza, il Bill of Rights e la Costituzione statunitense. E dopo avere emesso il bando per trovare sul mercato un fornitore adatto, è emerso che solo uno che rispetta perfettamente quei criteri: la Bibbia di Trump, nell’edizione “repubblicana” realizzata da Lee Greenwood.
Chi è Lee Greenwood
Cristiano battista, Greenwood è l’idolo riconosciuto della musica country americana, autore di God bless the U.S.A., brano che apre sempre i comizi dell’ex presidente. Considerata la sua signature song, è stata incisa nel 1984 ma è diventata una sorta di inno nel 2001 dopo gli attentati dell’11 settembre. In carriera ha venduto circa 25 milioni di dischi in tutto il mondo e, manco a dirlo, è molto amico del tycoon…
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Cronaca
Un sushi davvero stupefacente: arrestato a Roma pusher che nascondeva hashish nei “nigiri” al salmone
L’uomo, già noto alle forze dell’ordine, riceveva gli ordini via WhatsApp e consegnava il “menu speciale” tra Montespaccato, Mostacciano e Anagnina. La polizia lo ha fermato in via Enna: nella borsa frigo cinque pacchi di hashish termosaldati e oltre duemila euro in contanti.

A Roma il sushi può dare alla testa. Soprattutto quando non è a base di tonno o salmone, ma di hashish. La polizia ha arrestato un pusher di 45 anni, italiano e già noto alle forze dell’ordine, che aveva trovato un metodo ingegnoso – e grottesco – per distribuire la sua merce: spacciava droga confezionata come nigiri al salmone, pronta da “gustare” solo per i clienti giusti.
Il blitz è scattato lunedì 28 luglio intorno alle 21, quando gli agenti del VII distretto San Giovanni hanno notato una Fiat Panda a noleggio ferma in via Enna. Al volante il 45enne, subito agitato alla vista della pattuglia. La scena non ha convinto i poliziotti, che hanno deciso di procedere con una perquisizione approfondita.
Nel bagagliaio, dentro una borsa frigo, la sorpresa: cinque pacchi di hashish termosaldati, per un totale di 510 grammi, ognuno con l’immagine di eleganti nigiri di salmone stampata sopra. Accanto alla “scorta”, oltre 2.000 euro in contanti, probabilmente frutto delle ultime consegne.
Dalle verifiche sul cellulare è emerso il sistema di ordini e consegne via WhatsApp. I clienti inviavano l’indirizzo e l’uomo partiva per le sue “consegne gastronomiche” in diverse zone della Capitale, tra cui Montespaccato, Mostacciano e Anagnina. Una sorta di delivery illegale, che trasformava il sushi in un piatto davvero stupefacente.
Dopo il fermo, il 45enne è stato accompagnato in commissariato e sottoposto a rito direttissimo, al termine del quale è scattato l’arresto per detenzione ai fini di spaccio di sostanza stupefacente.
Per una volta, il proverbiale “sushi d’asporto” non è finito sulla tavola ma in sequestro, mentre il finto chef della droga dovrà ora rispondere delle sue specialità… proibite.
Politica
Tajani sorride, i Berlusconi comandano: Forza Italia a Cologno fra consigli, statuti e voglia di rinnovamento
Antonio Tajani arriva a Cologno Monzese per un incontro “tra amici”, ma la regia politica di Forza Italia è ormai tutta nelle mani degli eredi del Cav. Pier Silvio parla di “rinnovamento”, e il segretario obbedisce: nuovo statuto, nuova comunicazione, stesso sorriso forzato.

«Parleremo di tutto, del futuro e anche di Forza Italia». Antonio Tajani prova a recitare il copione del leader saldo, mentre si presenta alla villa di Marina Berlusconi a Cologno Monzese. Lo accompagna il mantra di sempre: «Li conosco da quando sono ragazzi, questi incontri li abbiamo sempre fatti». Ma dietro le parole di circostanza, la fotografia è chiara: chi comanda davvero sono gli eredi del Cavaliere.
A tavola con lui ci sono Marina e Pier Silvio, veri azionisti politici e finanziari del partito – il loro credito verso Forza Italia sfiora i 90 milioni di euro – e Gianni Letta, garante della liturgia familiare. L’incontro era stato rinviato due settimane fa tra voci di malumori, ora torna come se nulla fosse: «Un incontro tra amici», dice Tajani, cercando di smussare i rumors su un partito percepito come troppo appiattito sugli alleati e incapace di ritagliarsi uno spazio proprio.
La realtà è che basta una frase di Pier Silvio Berlusconi per orientare la rotta: quando ha parlato di “rinnovamento”, Tajani ha eseguito. In pochi giorni è arrivato il nuovo statuto, è stato scelto Simone Baldelli come coordinatore della comunicazione e si è dato il via a un lifting silenzioso della catena di comando. Tutto senza clamori, ma con un messaggio inequivocabile: Forza Italia è un marchio di famiglia, e chi la gestisce in politica lo fa in affitto.
Intanto, le voci di insofferenza per il segretario crescono: la linea prudente di Tajani, fatta di piccoli compromessi e temi secondari come lo Ius scholae, convince poco i custodi del brand berlusconiano. «Ascolto i consigli che arrivano dagli amici», ripete lui, ma gli amici hanno appena deciso quali note dovrà suonare.
Per ora Tajani sorride e incassa. La regia resta a Cologno, la bacchetta pure.
Cronaca Nera
La madre di Andrea Sempio rompe il silenzio: «Non ha ucciso Chiara Poggi, sta pagando un’accusa ingiusta»
Dopo mesi di sospetti, microfoni e titoli urlati, la madre di Andrea Sempio racconta l’angoscia di una famiglia nell’occhio del ciclone. Dallo «scontrino del parcheggio» al peso dei giudizi mediatici, l’appello è uno solo: «Chiarite tutto, mio figlio non ha mai fatto del male a Chiara».

Stamattina, davanti al cancello di casa, Daniela Ferrari ha deciso di parlare. «Basta con le bugie in tv e sui giornali», ha detto affrontando le telecamere di Morning News. Lo ha fatto con la voce ferma di chi da 151 giorni vede la faccia del proprio figlio passare da un talk show all’altro come quella di un assassino annunciato. Eppure, giura, Andrea Sempio non ha ucciso Chiara Poggi.
Il nuovo capitolo del giallo di Garlasco ha travolto ancora una volta la sua famiglia. Da quando la Procura ha riaperto l’inchiesta puntando i riflettori sul ragazzo, la vita nella villetta di provincia è diventata un inferno di chiamate, sguardi e sospetti. «Non ha ammazzato Chiara e lo ripeterò fino alla morte», ha detto la madre davanti ai microfoni, ripercorrendo punto per punto i tasselli di una vicenda che non sembra finire mai.
Ferrari ha parlato dell’alibi di Andrea, legato a un dettaglio minuscolo ma diventato simbolico: uno scontrino del parcheggio di Vigevano. «Quel pezzo di carta l’ho conservato su consiglio delle detenute del carcere dove ho lavorato negli anni Ottanta», ha spiegato. «Mi dicevano: qualsiasi cosa succeda, tieni le prove. E così ho fatto». Secondo lei, quello scontrino dimostra che Andrea era altrove, lontano dalla casa dei Poggi.
Poi ha ricordato l’interrogatorio che l’ha vista protagonista, quando ha scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere. «Mi sentivo già male prima, avevo capogiri. Non sono mai svenuta, ma la pressione di quei momenti è stata devastante», ha raccontato. Intorno, il clima familiare è fatto di ansia costante e sospetti che corrono più veloci della giustizia.
Daniela ripercorre con precisione la mattina del 13 agosto 2007. «Io ero in auto a Gambolò, mio marito a casa con Andrea. Quando sono tornata, lui è andato a Vigevano e poi dalla nonna. È rientrato con gli stessi vestiti, puliti, senza una macchia. Se fosse stato nella casa di Chiara, come dicono, come avrebbe fatto a non sporcarsi di sangue?»
Il punto cruciale, per lei, resta uno: «Non esiste impronta che possa cambiare la verità. Mio figlio non è entrato in quella casa per uccidere Chiara». E aggiunge: «Credo che i Poggi sappiano che Andrea non c’entra nulla. Non aveva motivi, lei era solo la sorella di un suo amico».
La madre non nasconde la paura di un processo che potrebbe trascinarsi per anni. «E se lo arrestassero? Sarebbe arrestato da innocente», sospira. «Noi stiamo vivendo nell’angoscia dalla mattina alla sera. La nostra salute si sta rovinando sul nulla».
E c’è spazio anche per l’amarezza verso l’eco mediatica: «Gli imbecilli che pensano che sia colpevole ci saranno sempre. Si sta puntando a mio figlio per ripulire la faccia di qualcun altro», un riferimento chiaro, seppur mai nominato, ad Alberto Stasi, il primo imputato del caso.
Il suo appello finale è un misto di speranza e stanchezza: «Spero che la Procura chiarisca tutto il prima possibile. Noi viviamo con la sensazione di essere già stati condannati senza processo».
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