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Politica

Discriminazioni in divisa e odio politico: l’Italia sotto accusa nel dossier del Consiglio d’Europa

Abusi di polizia contro i rom, razzismo negli stadi e politici come Salvini e Vannacci accusati di fomentare odio. Ecco come l’Italia si trova sotto il fuoco delle accuse europee.

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    Le accuse piovono come macigni sul governo Meloni e sulle istituzioni italiane, con il dossier del Consiglio d’Europa che non risparmia nessuno. A partire dalle forze dell’ordine, fino ad arrivare a figure politiche di primo piano come Matteo Salvini e il generale Roberto Vannacci. Un documento che fa tremare i palazzi del potere, scoperchiando un sistema di discriminazioni che sembra radicato a tutti i livelli, dallo sport alla politica, passando per le strade di Firenze e Roma.

    In un passaggio inquietante del rapporto, si fa riferimento a un video diffuso dal leghista di Firenze che ha ripreso una donna rom, aggiungendo il commento beffardo: “Votateci e non la vedrete più”. Una battuta da bar che è diventata virale, ma che è solo la punta dell’iceberg di una serie di episodi che macchiano l’immagine del nostro Paese. Tra questi, il caso più emblematico è quello di Hasib Omerovic, un trentaseienne di etnia rom che si è gettato dalla finestra per sfuggire alle torture di quattro poliziotti a Roma. Uno di loro ha patteggiato, mentre per altri tre è stato chiesto il processo.

    Lo sport sotto assedio: le denunce di Egonu, Maignan e Lukaku

    Anche il mondo dello sport non è immune da questo clima tossico. Paola Egonu, star della pallavolo italiana, ha più volte raccontato delle umiliazioni e insulti razzisti subiti sia sul campo che fuori. Romelu Lukaku e Mike Maignan, rispettivamente campioni di calcio e portieri di livello mondiale, hanno denunciato pubblicamente episodi di razzismo durante le partite. Insulti, cori razzisti, gesti inaccettabili che sembrano essere tollerati negli stadi italiani, dove troppo spesso la discriminazione si nasconde dietro lo scudo della tifoseria accanita.

    Politici e discorsi d’odio: i protagonisti del razzismo istituzionalizzato

    Non potevano mancare nel dossier le accuse dirette a figure politiche di spicco. Matteo Salvini, con le sue dichiarazioni esplosive, è stato citato più volte per discorsi xenofobi e omofobi. Anche il generale Roberto Vannacci, già noto per le sue uscite pubbliche piene di odio contro le persone LGBTQ+, è entrato nel mirino dell’Ecri. Non si tratta solo di opinioni personali, ma di figure istituzionali che, con le loro parole, contribuiscono a un clima di tensione e divisione sociale.

    Il rapporto del Consiglio d’Europa è chiaro: in Italia il discorso pubblico è diventato sempre più xenofobo, e le parole di politici come Salvini e Vannacci alimentano una spirale di odio contro migranti, rifugiati e minoranze. Non sono casi isolati, ma esempi di come la retorica politica stia modellando una società sempre più intollerante.

    La polizia sotto accusa: abusi e fermi etnici

    Non solo i politici. Il rapporto dell’Ecri punta il dito anche contro le forze dell’ordine italiane, accusate di fare frequentemente fermi e controlli basati sull’origine etnica. La cosiddetta “profilazione razziale” è una piaga diffusa, e gli abusi nei confronti delle comunità rom e migranti non sono più ignorabili.

    Il caso di Hasib Omerovic è solo uno dei tanti. La sua tragica storia di soprusi subiti per mano di poliziotti corrotti getta un’ombra oscura sul sistema delle forze dell’ordine italiane. E non è un caso isolato: episodi di violenza e abusi sono stati segnalati anche a Verona, dove alcuni agenti sono stati arrestati per maltrattamenti, soprattutto contro i migranti.

    Mattarella difende la polizia: “Un corpo dello Stato che merita stima”

    Nel mezzo di questo turbinio di accuse, arriva puntuale la reazione del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Con un gesto che non può essere considerato casuale, Mattarella ha telefonato al capo della polizia, Vittorio Pisani, per esprimere il suo stupore rispetto alle affermazioni contenute nel rapporto europeo, ribadendo la sua stima e vicinanza alle forze dell’ordine.

    Un intervento che, però, non basta a nascondere il malcontento diffuso. Sebbene Mattarella si sia sempre mostrato attento a criticare gli abusi, la difesa incondizionata della polizia in questo contesto solleva interrogativi. La polizia è uno strumento dello Stato, ma chi la controlla quando si trasforma da protettrice dei cittadini a carnefice?

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      Politica

      Liliana Segre: «Provo repulsione per il governo Netanyahu. Ma l’attacco di Hamas resta la causa scatenante»

      «Israele ha superato i limiti del diritto di difesa, ma non è genocidio. E Trump? Ha bullizzato Zelensky: una scena che mi ha fatto provare disgusto».

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        Liliana Segre non si nasconde. Non lo ha mai fatto, neppure nei momenti in cui il silenzio sarebbe stato più comodo. E oggi, alla soglia dei novantaquattro anni, la senatrice a vita torna a parlare. Lo fa con parole dure, scomode, che rifiutano semplificazioni e schieramenti ciechi. Lo fa nell’intervista inedita che apre il libro Non posso e non voglio tacere. Riflessioni di una donna di pace, in uscita per Solferino. E in queste pagine, come sempre, Segre non arretra.

        «Provo uno sconforto che rasenta la disperazione», dice, osservando il conflitto che da Gaza al Libano infiamma il Medio Oriente. Vede due popoli in trappola, israeliani e palestinesi, «condannati a odiarsi, guidati dalle peggiori componenti delle rispettive leadership». Non ha dubbi sulla natura criminale dell’attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas, che definisce «fanatismo sanguinario». Ma non per questo risparmia critiche a Israele: «Sento una profonda repulsione verso il governo Netanyahu, una destra estrema, ipernazionalista, con componenti fascistoidi e razziste». Aggiunge che ogni governo israeliano avrebbe reagito con forza dopo un simile trauma, ma la guerra a Gaza «ha avuto connotati di ferocia inaccettabili» e non ha rispettato il diritto internazionale.

        Il nodo del genocidio, termine sempre più usato nei dibattiti e nelle piazze, viene affrontato con lucidità. Segre lo respinge: «La guerra di Gaza è stata atroce, ma non è corretto parlare di genocidio. La responsabilità primaria è di Hamas, ma Israele ha compiuto stragi e distruzioni immani andando oltre il diritto di difesa».

        Eppure, ricorda, Hamas non è il popolo palestinese. «Non rappresenta i palestinesi, non lotta per uno Stato, vuole solo la distruzione di Israele. Lo stesso vale per l’Iran, che li strumentalizza per combattere l’“entità sionista”». Non nega gli errori di Israele, anzi: li elenca, e ammette che lo Stato ebraico ha delle responsabilità gravi per la condizione dei palestinesi. Ma torna al 2005, al ritiro da Gaza, a quella possibilità «sprecata» con l’ascesa violenta di Hamas. E continua ad augurarsi la soluzione dei due Stati: «È difficile, ma non impossibile. La storia ha visto svolte impensabili anche nel Medio Oriente».

        Segre, come sempre, alza lo sguardo. E vede il panorama cupo dell’Occidente: la rielezione possibile di Trump, l’estrema destra che cresce in Germania e Austria, il pantano francese, le interferenze russe e l’influenza di miliardari americani sulle elezioni europee. «L’Unione Europea è sotto attacco», avverte, e la crisi ucraina le brucia nel cuore. «Se Kiev venisse abbandonata, sarebbe un tradimento come quello di Monaco nel 1938, quando si diedero i Sudeti a Hitler illudendosi di fermarlo». Il paragone non è retorico, è amaro e consapevole.

        Ma la ferita più fresca è quella dell’incontro tra Trump e Zelensky alla Casa Bianca, il 28 febbraio scorso: «Vedere Trump bullizzare Zelensky, accusarlo, minacciarlo, è stato disgustoso. Io ricordo gli Stati Uniti dei soldati che ci liberarono dal nazifascismo. Questa America non la riconosco più. Non avrei mai immaginato una presidenza Usa che abbandona le democrazie europee per mettersi in combutta con le dittature».

        Liliana Segre non tace. Non vuole e non può farlo. Anche quando le sue parole dividono, anche quando il dolore è troppo grande per essere racchiuso in formule. La sua voce resta un monito, una coscienza viva che rifiuta il cinismo dell’indifferenza.

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          Politica

          L’ossessione albanese di Giorgia Meloni: quattro viaggi, 6.000 euro e un fallimento annunciato

          Doveva essere la grande trovata contro l’immigrazione, è diventata una farsa costosissima: in una settimana, quattro viaggi per rimpatriare un bengalese che voleva tornare a casa.

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            Aveva promesso fermezza, efficienza e costi ridotti. Giorgia Meloni, paladina della “linea dura” contro l’immigrazione irregolare, aveva presentato l’accordo con l’Albania come il fiore all’occhiello della sua politica. Peccato che la realtà, come spesso accade con le crociate propagandistiche, si stia rivelando una tragicommedia fatta di sprechi, caos e figuracce.

            Fahim, 49 anni, venditore di rose bengalese

            Il caso di Fahim, 49 anni, venditore di rose bengalese con qualche piccolo precedente penale, è il simbolo perfetto del fallimento annunciato. Irregolare in Italia, avrebbe potuto essere rimpatriato nel giro di pochi giorni direttamente da Roma. E invece no: nella foga di inaugurare a tutti i costi il costosissimo Cpr albanese di Gjader, Fahim è stato usato come cavia di un’operazione surreale che ha coinvolto lui e una scorta di poliziotti, costretti a fare avanti e indietro tra Italia e Albania per quattro volte in una settimana.

            Una trottola umana che ci è costata, calcoli alla mano, almeno 6.000 euro — e probabilmente anche molto di più — per ottenere il rimpatrio di un uomo che non solo non si opponeva, ma che aveva espresso esplicitamente il desiderio di tornare a casa.

            Una buffonata internazionale

            Sarebbe bastato organizzare un volo da Fiumicino a Dacca, spendendo i circa 2.800 euro che il Viminale stima come costo medio per un rimpatrio. Invece, per alimentare una narrazione, il governo ha preferito inscenare una buffonata internazionale, imbarcando Fahim prima su un volo per Brindisi, poi su una nave per l’Albania, poi di nuovo su un aereo per tornare in Italia, infine rispedirlo finalmente in Bangladesh. In mezzo, tre poliziotti per ogni tratto di viaggio, perché la sicurezza viene prima di tutto — soprattutto quando serve a giustificare un simile scempio di risorse.

            Come se non bastasse, la farsa non si è limitata a Fahim. Nei giorni successivi, altri tre migranti sono stati riportati precipitosamente in Italia da Gjader: due perché ritenuti incompatibili con la detenzione a causa delle loro condizioni psichiche, uno perché nel frattempo aveva chiesto asilo. E i giudici della Corte d’appello di Roma — diversamente dalle promesse muscolari del ministro Piantedosi — hanno stabilito che chi chiede protezione internazionale deve rientrare subito in Italia.

            Così, mentre Giorgia Meloni e il suo governo cercano di vendere agli italiani l’illusione di “controllare le frontiere” a suon di viaggi a vuoto e milioni di euro bruciati, la realtà dei fatti è un via vai tragicomico che ha poco di serio e molto di costosamente inutile.

            Altro che piano Marshall contro i trafficanti di esseri umani: l’accordo con l’Albania sta diventando l’ennesima recita di propaganda, fatta pagare profumatamente ai contribuenti italiani.

            E mentre Fahim è finalmente tornato nella sua Dacca, ringraziando probabilmente la nostra burocrazia delirante, a Roma resta la scena di un governo che, pur di non ammettere il flop, continua a rincorrere una chimera. Al prezzo, come sempre, che paghiamo noi.

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              Politica

              Santanchè, il conto del Twiga pagato da Visibilia: 27 mila euro per cene e serate

              Nel 2014 Visibilia saldò una fattura da quasi 27 mila euro per le consumazioni al Twiga di Flavio Briatore. Tra cene di lusso, discoteca e scorta, emergono nuovi dettagli sul rapporto tra Santanchè e la società quotata.

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                Un’estate all’insegna del lusso, con il conto saldato da Visibilia. È questo uno degli ultimi capitoli della lunga inchiesta sulla gestione dell’azienda da parte di Daniela Santanchè, oggi ministra del Turismo. Secondo quanto ricostruito dal Fatto Quotidiano, nel 2014 Visibilia avrebbe pagato anche le consumazioni personali della Santanchè e dei suoi ospiti presso il Twiga, lo stabilimento balneare di Flavio Briatore a Marina di Pietrasanta.

                La cifra non passa inosservata: 26.900 euro, scontati del 30%, per una stagione di pranzi, cene e serate. Tutto documentato da una mail inviata il 7 ottobre 2014 dall’amministrazione del Twiga agli indirizzi ufficiali di Visibilia, in cui si chiedeva il saldo del conto e si allegava il dettaglio delle consumazioni registrate dal 25 aprile al 21 settembre.

                In quegli stessi mesi, Daniela Santanchè regalava al figlio Lorenzo Mazzaro una villa in Versilia, a pochi minuti d’auto dallo stabilimento. Una coincidenza che oggi si intreccia con il sospetto di una gestione quanto meno spregiudicata delle casse aziendali.

                Nel dettaglio, il resoconto parla chiaro. Tra la ministra, il compagno di allora Alessandro Sallusti e l’amica Patrizia d’Asburgo Lorena, vennero spesi 11.885 euro in ristorazione in 43 giorni, con una media di 276 euro al giorno. Non meno attiva la scorta, che fece registrare consumazioni per 2.987 euro, circa 100 euro al giorno.

                Quanto al giovane Lorenzo, tra pranzi e serate in discoteca, la spesa lievitò ulteriormente: 5.192 euro in pasti distribuiti su 34 giorni (152 euro al giorno) e 6.835 euro in 26 notti di divertimenti, per una media di 263 euro a serata. Il tutto, secondo l’accusa, a carico dei soci di minoranza di Visibilia, chiamati a pagare senza possibilità di intervento o opposizione.

                La storia si aggiunge a una serie di episodi che mettono sotto la lente il rapporto tra Santanchè e Visibilia, società quotata in Borsa che, secondo varie ricostruzioni giornalistiche, sarebbe stata trattata più come un bancomat personale che come un’impresa gestita nell’interesse degli azionisti.

                Già in precedenza erano emersi documenti relativi a spese per lavori nella villa di famiglia, sempre attribuite a Visibilia. Ora, con il conto del Twiga, la vicenda si arricchisce di nuovi particolari che rendono ancora più evidente il conflitto d’interessi: da una parte la Santanchè, allora parlamentare di Forza Italia, dall’altra l’imprenditrice che utilizzava fondi societari per coprire spese private.

                Nonostante le difficoltà finanziarie di Visibilia, la ministra — secondo quanto ricostruito — avrebbe continuato a usare la società per sostenere spese personali elevate, mentre gli altri soci erano costretti a coprire i buchi di bilancio.

                Al momento, Daniela Santanchè respinge ogni addebito, difendendo la propria gestione. Ma il quadro che emerge dagli atti e dalle testimonianze lascia poco spazio ai dubbi: una gestione spregiudicata, in cui la distinzione tra conti aziendali e spese personali sembrava labile, se non del tutto ignorata.

                Nei prossimi mesi potrebbero arrivare ulteriori sviluppi giudiziari, anche in relazione agli accertamenti in corso sulla gestione di Visibilia Editore e Visibilia Concessionaria.
                Intanto resta una fotografia chiara: tra ville in Versilia, cene esclusive e discoteche di lusso, la linea di confine tra affari e piaceri, per la ministra del Turismo, sembra essersi fatta pericolosamente sottile.

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