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Sic transit gloria mundi

Musk cambia nome e si trasforma in una rana gladiatore: “Kekius Maximus” scuote X con riferimenti a destra, videogiochi e una criptovaluta misteriosa

Elon Musk, maestro del caos digitale, chiude il 2024 con un colpo di scena: su X diventa “Kekius Maximus”, accompagnato da un avatar di Pepe the Frog in armatura da gladiatore. Tra richiami a videogiochi, meme controversi e criptovalute misteriose, il miliardario più imprevedibile del pianeta scatena il web, alimenta teorie complottiste e incassa nuove polemiche politiche. È marketing, satira o pura eccentricità? Come sempre, il confine è sottilissimo.

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    Elon Musk si trasforma in un incrocio grottesco tra una rana e un gladiatore e cambia nome su X: benvenuti nell’ennesimo capitolo dell’epopea surreale del miliardario più chiacchierato del pianeta. A chiudere il 2024, Musk ha deciso di stupire tutti – di nuovo – cambiando il proprio nome in “Kekius Maximus” e scegliendo come avatar una versione armata di Pepe the Frog, il personaggio meme più controverso di Internet. Armatura scintillante, controller da videogame in mano, e via: il nuovo alter ego digitale di Musk è un mix di cultura nerd, latinismi improbabili e sottili provocazioni che, prevedibilmente, hanno scatenato il caos sul web.

    Tra risate, polemiche e teorie complottiste, la domanda è sempre la stessa: cosa passa per la testa di Musk? È un omaggio a “Il Gladiatore”? Una trovata pubblicitaria? Un endorsement non richiesto all’alt-right? O forse, semplicemente, il capriccio di fine anno di un uomo che non conosce limiti, nemmeno nel confondere i suoi follower?

    “Kekius Maximus” non è solo un nome stravagante, ma un concentrato di riferimenti che vanno dalla cultura pop all’estrema destra, passando per la mitologia egizia e i videogiochi. “Kek” – il termine alla base di tutto – è nato come slang per “ridere a crepapelle” nelle community dei gamer, diventando poi un simbolo amato (e odiato) dagli angoli più oscuri della rete. Nel frattempo, Pepe the Frog, il meme da cui Musk ha preso l’avatar, ha avuto una storia altrettanto rocambolesca: da innocuo fumetto è diventato icona involontaria dell’alt-right, termine che indica un movimento politico e culturale di estrema destra nato negli Stati Uniti, caratterizzato da ideologie nazionaliste, populiste e spesso legate a teorie del complotto e suprematismo bianco. Al punto che l’Anti-Defamation League lo ha inserito nella lista dei simboli di odio.

    Ora Musk si mette al centro di tutto, come sempre. Ma perché? «Forse vuole solo far parlare di sé», suggerisce un utente, mentre altri ipotizzano che sia una sottile critica a chi lo accusa di flirtare con l’estrema destra. Musk, come suo solito, lascia che siano gli altri a riempire i vuoti di significato, limitandosi a postare messaggi criptici come: “Kekius Maximus raggiungerà presto il livello 80 in hardcore PoE”. Per chi non fosse del mestiere, PoE sta per Path of Exile, un videogioco di ruolo a cui Musk è notoriamente appassionato. La battuta potrebbe sembrare innocua, ma in mano a lui tutto diventa un enigma.

    Ma non è finita qui. Kekius Maximus è anche il nome di una criptovaluta, un cosiddetto “memecoin” che, guarda caso, ha registrato un’impennata di valore del 900% subito dopo il cambio di nome del miliardario. Coincidenza? Forse sì, forse no. Musk ha già dimostrato di saper manipolare i mercati finanziari con un semplice tweet, come quando ha fatto schizzare alle stelle il valore del Dogecoin con un paio di battute su “Saturday Night Live”. Questa volta, però, il gioco sembra più ambiguo: nessun tweet diretto che promuova la valuta, solo il nome. Una strategia deliberata per non sollevare sospetti di manipolazione? Oppure, semplicemente, l’ennesima stravaganza senza scopo?

    La scelta del nome e dell’avatar non poteva passare inosservata neppure nel dibattito politico. Solo pochi giorni prima, Musk aveva scatenato una tempesta mediatica con i suoi commenti su X, definendo il presidente tedesco Steinmeier “un tiranno” e il cancelliere Scholz “un idiota incompetente”. A peggiorare le cose, aveva espresso simpatia per l’AfD, il partito di estrema destra tedesco, attirandosi critiche bipartisan. Nel discorso di Capodanno, Scholz non ha perso occasione per rispondere, pur senza nominarlo: «Non è chi grida più forte a decidere il futuro della Germania, ma la maggioranza delle persone oneste e ragionevoli». Una stoccata che Musk ha ignorato con nonchalance, concentrandosi invece su “Kekius Maximus” e le sue avventure digitali.

    Mentre il mondo discute, Musk gioca. È impossibile sapere se il miliardario stia progettando qualcosa di epocale o se stia solo ridendo di tutti noi, come Pepe the Frog nel suo avatar. Quello che è certo è che sa come mantenere alta l’attenzione su di sé. La trasformazione in “Kekius Maximus” potrebbe essere solo una burla di fine anno, o l’inizio di un nuovo capitolo in cui Musk, armato di meme e ironia, continuerà a confondere i confini tra imprenditoria, intrattenimento e provocazione. Ma una cosa è chiara: finché ci saranno Internet e social media, il regno del “Re Rana” continuerà a espandersi. Con o senza armatura.

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      Rita De Crescenzo a Belve: quando il Servizio Pubblico smette di fare cultura e inizia a esaltare il degrado

      Rita De Crescenzo, simbolo di un successo costruito su eccessi e provocazioni, arriva a Belve come ospite del Servizio Pubblico. Una scelta che fa discutere: la Rai trasforma una figura priva di meriti artistici in personaggio televisivo nazionale, sollevando interrogativi sul ruolo stesso della TV pubblica.

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        La notizia dell’intervista di Rita De Crescenzo a Belve ha sollevato un’ondata di polemiche. La tiktoker napoletana, diventata celebre per i suoi video tra musica neomelodica, balli e dirette sopra le righe, sarà tra gli ospiti di Francesca Fagnani nel programma cult di Rai2. Un format che negli anni ha accolto figure di primo piano della politica, dello spettacolo e della cultura, trasformandosi in una sorta di consacrazione mediatica.

        Eppure, questa volta, l’effetto è stato diametralmente opposto: la partecipazione della De Crescenzo è apparsa a molti come un segnale di resa del Servizio Pubblico davanti al degrado dei social. Nessun compenso, dicono fonti interne alla Rai, ma un ritorno d’immagine enorme per la tiktoker, che potrà vantare una ribalta nazionale senza aver speso un euro.

        Il problema non è economico, ma simbolico. Rita De Crescenzo non è un’artista, non è un’attivista, non è una voce culturale o politica: è il prodotto di un certo tipo di popolarità online fatta di eccessi, linguaggio volgare e spettacolarizzazione del quotidiano. Portarla nel salotto televisivo di Francesca Fagnani significa certificare, con il timbro del Servizio Pubblico, un modello che molti considerano pericolosamente regressivo.

        Chi difende la scelta parla di un ritratto “antropologico”, di un fenomeno sociale da osservare più che da celebrare. Ma il rischio, come sempre accade con la televisione, è che la semplice presenza basti a trasformare un caso mediatico in legittimazione culturale.

        Perché la Rai, che per statuto dovrebbe garantire qualità, informazione e crescita culturale, sceglie di offrire spazio a chi incarna tutt’altro? Forse per inseguire ascolti, o per inseguire i social che ormai dettano legge anche in TV. Ma così facendo, il confine tra analisi e spettacolo, tra racconto e compiacimento, si fa sempre più sottile.

        Rita De Crescenzo non è il problema: è il sintomo. Il sintomo di una televisione che ha smesso di selezionare e ha iniziato ad assecondare, di un Servizio Pubblico che invece di educare riflette — e amplifica — il rumore di fondo di un Paese in cerca di attenzione più che di contenuti.

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          Addio a Ace Frehley, lo “Spaceman” dei Kiss: il mio supereroe con la chitarra che sapeva volare

          Con il suo trucco da “Spaceman”, le chitarre che fumavano e i razzi che partivano dal manico, Ace ha trasformato il rock in spettacolo e magia. Lascia un’eredità di suoni, coraggio e umanità: quella di un uomo che ha saputo salvarsi e far sognare milioni di ragazzi.

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            Ci sono artisti che non si limitano a suonare: accendono un immaginario. Ace Frehley era uno di questi. Per chi è cresciuto tra gli anni Settanta e Ottanta, lui non era solo il chitarrista dei Kiss, ma un supereroe in carne e ossa, uno di quelli che scendevano dal palco avvolti nel fumo, con la chitarra che sputava fuoco e gli occhi pieni di stelle. Lo chiamavano The Spaceman, l’uomo venuto dallo spazio, ma in realtà veniva dal Bronx, con una Gibson in mano e un sorriso timido dietro il trucco argentato.

            Ace se n’è andato, a 74 anni – il giorno del mio compleanno e non è stato davvero un ben regalo – dopo un’emorragia cerebrale che lo aveva colpito nei giorni scorsi. E con lui se ne va un pezzo di infanzia, di ribellione, di sogno. Perché chi ha amato i Kiss – quelli veri, quelli del 1975 di Rock and Roll All Nite e del trucco come armatura – sa che il suono di Ace era la scintilla che faceva partire l’esplosione. Ogni assolo sembrava un decollo, ogni nota un razzo che bucava il buio.

            Nel pantheon del rock, Frehley era l’anima più ironica, più fragile, più umana del gruppo. Gene Simmons e Paul Stanley erano i generali, lui era l’astronauta. Il suo “Space Ace” nasceva come il personaggio di un fumetto, ma divenne presto una leggenda viva, capace di unire il virtuosismo alla teatralità, la tecnica alla fantasia. Le sue chitarre fumavano, letteralmente. Le sue dita correvano leggere e incendiate, e noi ragazzi lo guardavamo come si guarda un eroe di un film che non finisce mai.

            Nel 1982 lasciò la band, quando i Kiss decisero di togliere il trucco e affrontare il mondo a viso scoperto. Ace non ci riuscì. Aveva bisogno del suo personaggio, di quella maschera che non nascondeva, ma liberava. Continuò da solo, con i Frehley’s Comet, alternando tour, eccessi, cadute e rinascite. Negli anni Novanta tornò per una reunion trionfale: la vecchia banda di nuovo insieme, quattro maschere, quattro archetipi, un suono che sembrava ancora nuovo.

            Nel 2014 entrò nella Rock and Roll Hall of Fame, dove i Kiss furono premiati come una delle band più influenti della storia. Era felice, e commosso. Nelle ultime interviste aveva detto di voler essere ricordato “come un uomo schietto, fedele alla propria musica, rispettato dai colleghi”. Lo era. Aggiungeva: “Ho portato felicità a molte persone, e tanti ragazzi mi dicono di essere riusciti a disintossicarsi grazie a me. Se ce l’ho fatta io, possono farcela anche loro”. Era questo il suo vero superpotere: non la chitarra che lanciava razzi, ma il coraggio di dire che la fragilità non è una vergogna.

            Paul Stanley lo ricordava così: «Nel 1974 lo sentii suonare in una stanza d’albergo. Pensai: vorrei che quel ragazzo fosse nella mia band. Era Ace». Gene Simmons ha scritto: «I nostri cuori sono spezzati. Nessuno potrà mai eguagliare la sua eredità. Amava i suoi fan, e ci mancherà per sempre». Peter Criss, il batterista con cui aveva condiviso la nascita della leggenda, ha aggiunto: «Era mio fratello. È morto serenamente, circondato da chi lo amava. La sua eredità vivrà nei cuori di milioni di persone».

            Ace era uno di quei pochi che riuscivano a restare bambini anche sul palco. Quando lo vedevi sorridere sotto la maschera d’argento, capivi che dietro al rock c’era un’anima buona. Uno che non cercava di essere un dio, ma un amico. Forse per questo lo abbiamo amato così tanto. Perché in quel trucco c’era il sogno di ognuno di noi: salire su un palco e non avere più paura.

            Oggi che la notizia corre tra social e redazioni, chi lo ha ascoltato da ragazzo sente un vuoto diverso, personale. È la fine di un’epoca, quella in cui il rock aveva ancora la forza di sembrare eterno. Ace Frehley era il suono della libertà, il fumo che saliva da una chitarra in fiamme, il sorriso dietro la maschera di uno Spaceman che non voleva tornare sulla Terra.

            E mentre la sua musica continua a girare nei vinili graffiati delle nostre camerette, viene naturale pensare che sì, forse aveva ragione lui: la sua eredità durerà centinaia d’anni. Perché chi ti insegna a sognare non muore mai davvero.

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              Caso Epstein, Melania Trump pronta a chiedere oltre un miliardo a Hunter Biden: “Accuse false e diffamatorie”

              Melania Trump ha minacciato una causa miliardaria contro Hunter Biden per aver dichiarato che sarebbe stato Epstein a presentarla al marito. Intanto i democratici puntano il dito sul trasferimento di Ghislaine Maxwell in un carcere meno severo.

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                Melania Trump è passata al contrattacco. La first lady americana ha annunciato l’intenzione di fare causa a Hunter Biden, chiedendo un risarcimento da oltre un miliardo di dollari, dopo che il figlio del presidente ha affermato che sarebbe stato Jeffrey Epstein – il finanziere condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori – a presentarla a quello che poi sarebbe diventato suo marito. Una ricostruzione definita dai legali di Melania “falsa, denigratoria, diffamatoria e provocatoria”.

                Le dichiarazioni di Biden risalgono a un’intervista di inizio mese, in cui aveva ripercorso i rapporti tra il presidente e il miliardario pedofilo, sottolineando vecchie frequentazioni poi interrotte “agli inizi degli anni Duemila”, come lo stesso Trump ha sempre sostenuto.

                Ma la vicenda non si ferma qui. I democratici della Commissione Giustizia della Camera hanno sollevato un polverone sul trasferimento di Ghislaine Maxwell – ex compagna e complice di Epstein – in un carcere federale del Texas con regime meno restrittivo. La donna, condannata a 20 anni, era detenuta a Tallahassee, in Florida, ma è stata spostata subito dopo un incontro con il vice procuratore generale Todd Blanche.

                Secondo il deputato Jamie Raskin, leader dei democratici in Commissione, il trasferimento “offre maggiore libertà ai detenuti” e “prima di questo caso era categoricamente vietato per chi fosse condannato per molestie sessuali”. In una lettera al procuratore generale Pam Bondi e al direttore del Bureau of Prisons William K. Marshall, Raskin parla di “preoccupazioni sostanziali” su possibili pressioni per indurre Maxwell a fornire una testimonianza favorevole al presidente, “violando le stesse politiche federali”.

                Un’accusa che, in un contesto già incandescente, riaccende i riflettori sul nodo più imbarazzante per la Casa Bianca: i rapporti passati tra il presidente e Jeffrey Epstein.

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