Sic transit gloria mundi
Il comico e il pontefice: quando l’Elevato sfida il Vaticano. Una senzatetto muore vicino alla Porta Santa, Grillo punta il dito contro Papa Francesco
Il blog di Beppe Grillo torna a far parlare di sé, e questa volta il bersaglio è niente meno che Papa Francesco. Sotto accusa, il tema della povertà e dell’accoglienza. Ma dietro i numeri e le provocazioni, il messaggio del comico genovese sembra più volto a cercare visibilità che a proporre un dibattito serio.
Inizia il nuovo anno, e con l’uscita dalla scena politica attiva, Grillo sembra deciso a riposizionarsi come critico sociale. Archiviato Giuseppe Conte come bersaglio preferito, l’Elevato alza il tiro e si scaglia contro il Vaticano, scegliendo una tragica coincidenza per dare forza alle sue parole: mentre a Roma si apriva la Porta Santa per il Giubileo, una donna senza dimora moriva di freddo nei pressi di San Pietro.
Sul suo blog, Grillo lancia un post carico di indignazione, domandandosi come sia possibile che, in una città come Roma, “una delle maggiori potenze economiche mondiali”, si possa ancora morire semplicemente perché si è poveri. Il tema è indubbiamente importante, e il comico tocca un nervo scoperto della società contemporanea. Ma c’è qualcosa che stona. Grillo collega direttamente la morte della senzatetto a Papa Francesco, un accostamento che suona più come un attacco gratuito che come una riflessione sensata.
La domanda sorge spontanea: con quale credibilità un comico dalla sua villa a San Ilario, la collina più esclusiva di Genova, può ergersi a giudice morale del Papa?
Non è la prima volta che Grillo affronta temi di rilevanza sociale, ma stavolta il bersaglio è chiaramente la Chiesa. Francesco, secondo Grillo, predica bene e razzola male, un’accusa che, pur facendo rumore, sembra ignorare i molteplici sforzi del pontefice per aiutare i più poveri. Grillo rincara la dose con un’affermazione pungente: “Nel 2025, la vera sfida non sarà accogliere chi arriva da lontano, ma tendere la mano a chi è già qui, dimenticato e invisibile”.
Il comico porta numeri drammatici a supporto delle sue parole. Secondo la Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora, ogni mese oltre 30 persone muoiono per strada. Solo a Roma, i senzatetto superano le 20.000 unità, un dato che fa riflettere. Nel suo post, Grillo si chiede se il Giubileo, con la sua promessa di rinnovamento spirituale, possa davvero rappresentare un impegno concreto verso i più vulnerabili.
Ma davvero il Papa è il destinatario giusto di queste accuse? Francesco ha più volte dimostrato un’attenzione sincera verso i poveri, con iniziative come dormitori e strutture di accoglienza a pochi passi dal Vaticano. E se Roma è una città che fatica a prendersi cura dei più deboli, la responsabilità sembra ricadere più sulle istituzioni italiane che sul pontefice.
L’argomentazione di Grillo rischia quindi di apparire superficiale, una provocazione più che una critica costruttiva. È vero che il comico sa come attirare l’attenzione, ma il suo approccio semplifica questioni complesse. Accusare il Papa di indifferenza, poi, sembra un azzardo. Francesco ha fatto dell’attenzione verso gli ultimi uno dei pilastri del suo pontificato, e i suoi gesti concreti parlano da soli.
Il comico genovese, tuttavia, coglie un punto importante: la società italiana fatica a rispondere ai bisogni dei suoi membri più deboli. Ma ridurre il tutto a uno slogan – “Il Papa pensa ai migranti e dimentica i senzatetto” – non aiuta certo a risolvere il problema. La solidarietà non è una risorsa a somma zero. Non si tratta di scegliere chi aiutare, ma di includere tutti. E non spetta al Papa, ma allo Stato, farsi carico di questa responsabilità.
Dal pulpito digitale, Grillo lancia le sue invettive, trovando l’eco di cui sembra aver bisogno per rimanere sotto i riflettori. Francesco, invece, continua il suo cammino fatto di piccoli, costanti passi verso un mondo più giusto. Tra i due approcci, la differenza è evidente: mentre uno si nutre di clamore, l’altro si basa sull’azione concreta.
Alla fine, rimane una domanda: quale delle due strade lascerà un segno più duraturo?
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Sic transit gloria mundi
Elon Musk e il “saluto nazista”: quando le scuse sono peggiori del gesto
Dai giornali americani e israeliani ai social, la condanna è unanime: il proprietario di X e Tesla ha fatto un gesto che non lascia spazio a dubbi. Ma la difesa è goffa e patetica: il suo referente in Italia prima esulta, poi cancella il tweet e cerca di riscrivere la realtà. Musk, dal canto suo, liquida tutto come un “trucchetto sporco”. Ma stavolta il trucco è fin troppo evidente.
Elon Musk ha fatto il saluto nazista in diretta TV. Lo ha fatto una volta. Poi, siccome gli era piaciuto, lo ha rifatto. Davanti a una folla in delirio. Il gesto è stato trasmesso ovunque, in tutto il mondo, e ha generato indignazione. Ma, come sempre, Musk non si scusa: nega, attacca, si rifugia nella sua solita narrativa vittimista, in cui lui è il genio perseguitato e gli altri, poveri stolti, sono solo burattini manipolati dai media in cerca di “sporchi trucchetti”.
Il solito copione: negare, minimizzare, insultare
Le immagini parlano chiaro. Durante il suo intervento alla Capital One Arena di Washington, Musk si è battuto il petto e ha alzato il braccio teso verso il pubblico. Poi si è voltato e ha ripetuto il gesto. Gli stessi giornali americani e israeliani, da Haaretz al Times of Israel, hanno sottolineato la gravità dell’accaduto, facendo notare che non si tratta di un incidente isolato: Musk ha già una lunga lista di strizzate d’occhio all’estrema destra, dagli attacchi a George Soros al sostegno più o meno esplicito ai movimenti suprematisti bianchi e ai partiti ultraconservatori in Europa.
Come ha reagito? Con la solita arroganza. «Hanno bisogno di meglio di questi sporchi trucchetti», ha scritto su X, come se tutto fosse un gigantesco complotto ai suoi danni. E poi l’inevitabile vittimismo: «L’attacco tutti sono Hitler ha così stancato…».
Le scuse che fanno ridere (e piangere)
La ciliegina sulla torta arriva dai suoi fedeli scudieri, pronti a riscrivere la realtà con la stessa disinvoltura con cui Musk lancia razzi nello spazio. Andrea Stroppa, suo referente in Italia, inizialmente esaltato («L’Impero Romano è tornato, a cominciare dal saluto romano!»), ha cancellato il tweet e cambiato versione. Ora il gesto sarebbe semplicemente un’espressione affettuosa: «Musk è autistico e stava solo cercando di dire “Voglio darvi il mio cuore”». Ah, e ovviamente, «A Elon non piacciono gli estremisti!».
Se davvero non c’era nulla di male nel gesto, perché cancellare il tweet? Se era un’espressione d’affetto, perché servono giustificazioni così elaborate? Se l’intento era innocente, perché il danno d’immagine è immediatamente apparso evidente perfino ai suoi collaboratori?
La verità è che Musk sa perfettamente cosa ha fatto, e chi lo difende sta solo cercando di mettere pezze su una voragine che ormai è impossibile da nascondere.
Dal “cuore” al danno d’immagine
Il problema non è solo il gesto. Il problema è tutto il contesto che Musk ha costruito attorno a sé negli ultimi anni. Un contesto fatto di strizzate d’occhio al suprematismo bianco, retorica cospirazionista, ammiccamenti ai movimenti di estrema destra e gestione di Twitter (ora X) come una piattaforma sempre più accogliente per il peggior ciarpame dell’odio online.
Musk provoca, osserva le reazioni, nega l’evidenza e trasforma tutto in uno scontro tra il “sistema” e il suo genio incompreso. Questo teatrino gli ha fruttato popolarità e seguito, ma sta arrivando il momento in cui il gioco diventa pericoloso.
Musk e la libertà di espressione a senso unico
Musk è lo stesso che ha costruito la sua narrativa attorno alla libertà di espressione. Ha difeso il diritto di chiunque di dire qualsiasi cosa, anche le peggiori nefandezze. Ha riammesso personaggi banditi da Twitter per incitamento all’odio, ha ridicolizzato chi si opponeva a certe derive.
Ma quando tocca a lui? Quando viene criticato, Musk non risponde con la libertà di pensiero, risponde con la negazione e il vittimismo.
L’ipocrisia è palese. E mentre lui finge di non capire, il messaggio è arrivato forte e chiaro: questo non è un caso isolato, è una scelta precisa.
Ma stavolta, il trucco è troppo evidente. E fa schifo.
Sic transit gloria mundi
Vannacci riscrive la storia e rilancia le ipotesi farlocche dei neonazi tedeschi: “Hitler era comunista”
Il generale si schiera con la leader dell’ultradestra tedesca Weidel e sostiene la sua teoria bislacca. Perché la Storia, quella vera, lo smentisce senza pietà.
Quando pensi che l’assurdo abbia raggiunto il suo apice, arriva Roberto Vannacci a dimostrarti che c’è sempre un gradino più in basso. Dopo le dichiarazioni di Alice Weidel, leader dell’AfD tedesca, secondo cui Hitler sarebbe stato un “comunista, socialista e antisemita”, il generale non ha perso l’occasione per ribadire il concetto, con la sua solita spavalderia e una totale noncuranza per la Storia.
Durante l’ultima puntata di Fuori dal Coro, Vannacci ha sostenuto che il nazismo sia stato un movimento socialista perché “Hitler ha fondato un partito che si chiamava nazionalsocialismo”. Un’argomentazione che farebbe inorridire qualsiasi studente di storia del primo anno, ma che evidentemente trova spazio nel suo personalissimo mondo parallelo.
Ma il punto è semplice: no, Hitler non era comunista. No, il nazismo non aveva nulla a che vedere con il socialismo, se non nel nome (e pure quello scelto per mera strategia di consenso). Il Terzo Reich ha perseguitato e sterminato i comunisti, ha demonizzato il marxismo e ha costruito un sistema di dominio autoritario basato su razzismo, espansionismo e distruzione delle libertà democratiche.
La stessa ideologia hitleriana è sempre stata dichiaratamente anti-marxista e antisocialista. Nel 1932, Hitler affermava: “Il socialismo è la scienza di occuparsi del bene comune. Il comunismo non è socialismo. Il marxismo non è socialismo.” Chiara la distinzione, no? Peccato che per Vannacci la Storia sia un optional.
Forse il generale dovrebbe fermarsi un attimo, sfogliare un libro di storia (vero) e riflettere prima di lanciarsi in crociate revisioniste. Ma forse, proprio come Weidel, è troppo occupato a riscrivere la
Sic transit gloria mundi
Trump e i repubblicani contro il porno: dopo Stormy Daniels ipocrisia suprema?
Dopo gli scandali con Stormy Daniels, il GOP ora vuole “castrare” i siti per adulti con leggi restrittive. La Corte Suprema discute l’obbligo di verifica dell’età, ma i rischi per la privacy preoccupano.
Donald Trump ai tempi si divertiva con una pornostar, oggi i repubblicani vogliono bloccare l’accesso ai siti per adulti. Sembra una sceneggiatura surreale, ma è la realtà. La Corte Suprema americana sta valutando l’adozione di restrizioni che potrebbero obbligare i siti porno a verificare l’identità degli utenti, imponendo un controllo rigoroso sui documenti di chi vuole accedere.
Un paradosso che non passa inosservato: mentre il tycoon cerca di tornare alla Casa Bianca nonostante il processo per il presunto pagamento a Stormy Daniels, il suo partito si lancia in una crociata morale per “salvare” i giovani americani dalla pornografia.
Il piano repubblicano: documenti obbligatori per accedere ai siti porno
La legge al centro del dibattito è la HB 1181, già approvata in Texas nel 2023, che obbliga i siti per adulti a verificare l’età degli utenti attraverso un documento governativo. In pratica, chi vuole accedere a Pornhub & Co. dovrebbe caricare il proprio ID per dimostrare di essere maggiorenne. Il Texas non è solo: altre 16 legislature statali (tutte a guida repubblicana) stanno spingendo per norme simili, tra cui Florida, Alabama e Utah.
Pornhub ha già reagito nel suo stile: blocco totale del servizio in Texas, lasciando gli utenti frustrati e spingendoli verso le VPN per aggirare il divieto.
Libertà d’espressione vs. privacy: la Corte Suprema si spacca
Il cuore della questione è un altro: il Primo Emendamento. La Corte Suprema americana, pur incline a dare ragione ai repubblicani sull’accesso dei minori, deve fare i conti con la libertà d’espressione. Chi si oppone alle restrizioni teme che l’obbligo di fornire dati personali metta a rischio la privacy degli utenti, aprendo la porta a ricatti, abusi e fughe di informazioni sensibili.
E poi, c’è il punto chiave: i minorenni accedono comunque ai siti porno con metodi alternativi. E se il vero problema fosse l’educazione sessuale, anziché la censura digitale?
L’ipocrisia a stelle e strisce
In tutto questo, la contraddizione è evidente. Trump, lo stesso uomo che finì al centro di uno scandalo per il pagamento a Stormy Daniels, è ora il leader di un partito che vuole moralizzare l’America. Un partito che predica libertà assoluta per le armi, ma vuole imporre controlli rigidissimi sul sesso online.
E mentre i giudici decidono, la pornografia resta il grande tabù americano: demonizzata in pubblico, ma consumata senza sosta nel privato.
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