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Cronaca

“Pronto, Presidente?”. Numeri di Stato a portata di plug-in: la voragine della cybersicurezza italiana

Bastano 50 euro e un’estensione per browser per ottenere i contatti privati di Mattarella, Meloni e migliaia di funzionari pubblici. Andrea Mavilla, esperto informatico, scopre una falla clamorosa. Nessun hacker, nessun dark web: solo un’Italia che ignora i propri rischi digitali.

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    È bastato un plug-in. Nessuna password violata, nessun dark web, nessuna rete sotterranea. Solo un’estensione del browser, scaricabile da chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la rete. E così, in pochi clic e con un abbonamento mensile da circa cinquanta euro, è possibile mettere le mani su qualcosa che dovrebbe essere, per definizione, intoccabile: i numeri privati dei vertici dello Stato italiano. Non i telefoni di servizio, non quelli visibili sugli organigrammi ufficiali, ma quelli personali, utilizzati per comunicazioni riservate con amici, parenti, collaboratori stretti.

    A scoprire questa falla spaventosa è stato Andrea Mavilla, esperto di informatica e cybersecurity, con un passato in Apple e anni di esperienza nel settore della protezione dei dati. Mentre analizzava alcune piattaforme di lead generation — quei siti specializzati nella raccolta e nella rivendita di contatti — si è imbattuto in un’anomalia inquietante: accedendo da un account standard, gli venivano mostrati nomi, email e numeri di cellulare di politici, dirigenti pubblici, ufficiali delle forze dell’ordine. Non frammenti sparsi, ma una vera mappa della vulnerabilità istituzionale italiana.

    Le piattaforme in questione non sono illegali. Offrono servizi perfettamente registrati, con sede in Paesi come Israele, Stati Uniti e Russia. Si rivolgono a chi lavora nel marketing o nel B2B, promettendo accesso diretto a potenziali clienti qualificati. In realtà, attraverso i plug-in installati sui browser, questi servizi aprono varchi inimmaginabili. Basta visitare il profilo LinkedIn di una persona per ricevere, in tempo reale, il numero di telefono e l’indirizzo email che l’utente ha magari inserito altrove in rete, dimenticandosi di aver dato il consenso al trattamento dei dati.

    Nel caso segnalato da Mavilla, i profili colpiti non sono solo quelli di imprenditori o manager: ci sono anche i numeri personali di Sergio Mattarella, Giorgia Meloni, Matteo Piantedosi, Guido Crosetto. E poi, ancora, quelli di migliaia di funzionari dello Stato, dipendenti di ministeri, agenti della Polizia di Stato, militari dell’Arma e della Guardia di Finanza. Un database parallelo, disponibile alla luce del sole. Nessuna rete criminale. Nessun software spia. Solo la disattenzione di un sistema incapace di controllare la dispersione dei dati digitali.

    Mavilla ha cercato di segnalare il problema usando tutti i canali informali che aveva a disposizione. Ha scritto direttamente al ministro dell’Interno Piantedosi, ha contattato la vicepresidente della CIA Juliane Gallina tramite LinkedIn, ha cercato un contatto con l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Risposte? Poche. Laconiche. E spesso sminuenti. La frase più emblematica resta quella attribuita a un funzionario dell’Acn: “Bah, a noi pare una bufala”.

    Ma non era una bufala. I dati erano lì, esposti, verificabili. Tanto che Mavilla — con l’aiuto di altri colleghi — è riuscito a confrontarli con numeri e indirizzi conosciuti, confermando la loro autenticità. E quando la questione è finalmente arrivata all’attenzione della Polizia postale, si è deciso di avviare un’indagine vera e propria, che ora proverà a risalire alle fonti e alle modalità con cui queste informazioni sono state raccolte, aggregate e distribuite.

    Il punto è che, spesso, siamo noi stessi a mettere a rischio i nostri dati. Clicchiamo “accetto” su moduli online, autorizziamo accessi incondizionati, forniamo recapiti in cambio di uno sconto o di un eBook gratuito. Tutte queste tracce digitali finiscono in banche dati che si scambiano, si fondono, si vendono. E quando chi si occupa della sicurezza nazionale liquida con sufficienza una simile segnalazione, è legittimo domandarsi se sia l’arroganza o la sottovalutazione il vero punto debole del sistema.

    Il caso sollevato da Andrea Mavilla non è una semplice storia di privacy violata. È la cartina di tornasole di un problema strutturale: l’assenza di una cultura della cybersicurezza che metta al centro non solo la protezione dei dati, ma anche la prontezza nell’ascoltare chi suona un campanello d’allarme. Stavolta è andata “bene”: i dati non sono finiti in mano a ricattatori, spie o gruppi criminali. Ma la porta è aperta. E lo è stata per troppo tempo, senza che nessuno se ne accorgesse.

    Chi controlla la nostra sicurezza digitale? E soprattutto, chi ascolta chi la scopre in pericolo?

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      Cronaca

      Un sushi davvero stupefacente: arrestato a Roma pusher che nascondeva hashish nei “nigiri” al salmone

      L’uomo, già noto alle forze dell’ordine, riceveva gli ordini via WhatsApp e consegnava il “menu speciale” tra Montespaccato, Mostacciano e Anagnina. La polizia lo ha fermato in via Enna: nella borsa frigo cinque pacchi di hashish termosaldati e oltre duemila euro in contanti.

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        A Roma il sushi può dare alla testa. Soprattutto quando non è a base di tonno o salmone, ma di hashish. La polizia ha arrestato un pusher di 45 anni, italiano e già noto alle forze dell’ordine, che aveva trovato un metodo ingegnoso – e grottesco – per distribuire la sua merce: spacciava droga confezionata come nigiri al salmone, pronta da “gustare” solo per i clienti giusti.

        Il blitz è scattato lunedì 28 luglio intorno alle 21, quando gli agenti del VII distretto San Giovanni hanno notato una Fiat Panda a noleggio ferma in via Enna. Al volante il 45enne, subito agitato alla vista della pattuglia. La scena non ha convinto i poliziotti, che hanno deciso di procedere con una perquisizione approfondita.

        Nel bagagliaio, dentro una borsa frigo, la sorpresa: cinque pacchi di hashish termosaldati, per un totale di 510 grammi, ognuno con l’immagine di eleganti nigiri di salmone stampata sopra. Accanto alla “scorta”, oltre 2.000 euro in contanti, probabilmente frutto delle ultime consegne.

        Dalle verifiche sul cellulare è emerso il sistema di ordini e consegne via WhatsApp. I clienti inviavano l’indirizzo e l’uomo partiva per le sue “consegne gastronomiche” in diverse zone della Capitale, tra cui Montespaccato, Mostacciano e Anagnina. Una sorta di delivery illegale, che trasformava il sushi in un piatto davvero stupefacente.

        Dopo il fermo, il 45enne è stato accompagnato in commissariato e sottoposto a rito direttissimo, al termine del quale è scattato l’arresto per detenzione ai fini di spaccio di sostanza stupefacente.

        Per una volta, il proverbiale “sushi d’asporto” non è finito sulla tavola ma in sequestro, mentre il finto chef della droga dovrà ora rispondere delle sue specialità… proibite.

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          Politica

          Tajani sorride, i Berlusconi comandano: Forza Italia a Cologno fra consigli, statuti e voglia di rinnovamento

          Antonio Tajani arriva a Cologno Monzese per un incontro “tra amici”, ma la regia politica di Forza Italia è ormai tutta nelle mani degli eredi del Cav. Pier Silvio parla di “rinnovamento”, e il segretario obbedisce: nuovo statuto, nuova comunicazione, stesso sorriso forzato.

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            «Parleremo di tutto, del futuro e anche di Forza Italia». Antonio Tajani prova a recitare il copione del leader saldo, mentre si presenta alla villa di Marina Berlusconi a Cologno Monzese. Lo accompagna il mantra di sempre: «Li conosco da quando sono ragazzi, questi incontri li abbiamo sempre fatti». Ma dietro le parole di circostanza, la fotografia è chiara: chi comanda davvero sono gli eredi del Cavaliere.

            A tavola con lui ci sono Marina e Pier Silvio, veri azionisti politici e finanziari del partito – il loro credito verso Forza Italia sfiora i 90 milioni di euro – e Gianni Letta, garante della liturgia familiare. L’incontro era stato rinviato due settimane fa tra voci di malumori, ora torna come se nulla fosse: «Un incontro tra amici», dice Tajani, cercando di smussare i rumors su un partito percepito come troppo appiattito sugli alleati e incapace di ritagliarsi uno spazio proprio.

            La realtà è che basta una frase di Pier Silvio Berlusconi per orientare la rotta: quando ha parlato di “rinnovamento”, Tajani ha eseguito. In pochi giorni è arrivato il nuovo statuto, è stato scelto Simone Baldelli come coordinatore della comunicazione e si è dato il via a un lifting silenzioso della catena di comando. Tutto senza clamori, ma con un messaggio inequivocabile: Forza Italia è un marchio di famiglia, e chi la gestisce in politica lo fa in affitto.

            Intanto, le voci di insofferenza per il segretario crescono: la linea prudente di Tajani, fatta di piccoli compromessi e temi secondari come lo Ius scholae, convince poco i custodi del brand berlusconiano. «Ascolto i consigli che arrivano dagli amici», ripete lui, ma gli amici hanno appena deciso quali note dovrà suonare.

            Per ora Tajani sorride e incassa. La regia resta a Cologno, la bacchetta pure.

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              Cronaca Nera

              La madre di Andrea Sempio rompe il silenzio: «Non ha ucciso Chiara Poggi, sta pagando un’accusa ingiusta»

              Dopo mesi di sospetti, microfoni e titoli urlati, la madre di Andrea Sempio racconta l’angoscia di una famiglia nell’occhio del ciclone. Dallo «scontrino del parcheggio» al peso dei giudizi mediatici, l’appello è uno solo: «Chiarite tutto, mio figlio non ha mai fatto del male a Chiara».

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                Stamattina, davanti al cancello di casa, Daniela Ferrari ha deciso di parlare. «Basta con le bugie in tv e sui giornali», ha detto affrontando le telecamere di Morning News. Lo ha fatto con la voce ferma di chi da 151 giorni vede la faccia del proprio figlio passare da un talk show all’altro come quella di un assassino annunciato. Eppure, giura, Andrea Sempio non ha ucciso Chiara Poggi.

                Il nuovo capitolo del giallo di Garlasco ha travolto ancora una volta la sua famiglia. Da quando la Procura ha riaperto l’inchiesta puntando i riflettori sul ragazzo, la vita nella villetta di provincia è diventata un inferno di chiamate, sguardi e sospetti. «Non ha ammazzato Chiara e lo ripeterò fino alla morte», ha detto la madre davanti ai microfoni, ripercorrendo punto per punto i tasselli di una vicenda che non sembra finire mai.

                Ferrari ha parlato dell’alibi di Andrea, legato a un dettaglio minuscolo ma diventato simbolico: uno scontrino del parcheggio di Vigevano. «Quel pezzo di carta l’ho conservato su consiglio delle detenute del carcere dove ho lavorato negli anni Ottanta», ha spiegato. «Mi dicevano: qualsiasi cosa succeda, tieni le prove. E così ho fatto». Secondo lei, quello scontrino dimostra che Andrea era altrove, lontano dalla casa dei Poggi.

                Poi ha ricordato l’interrogatorio che l’ha vista protagonista, quando ha scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere. «Mi sentivo già male prima, avevo capogiri. Non sono mai svenuta, ma la pressione di quei momenti è stata devastante», ha raccontato. Intorno, il clima familiare è fatto di ansia costante e sospetti che corrono più veloci della giustizia.

                Daniela ripercorre con precisione la mattina del 13 agosto 2007. «Io ero in auto a Gambolò, mio marito a casa con Andrea. Quando sono tornata, lui è andato a Vigevano e poi dalla nonna. È rientrato con gli stessi vestiti, puliti, senza una macchia. Se fosse stato nella casa di Chiara, come dicono, come avrebbe fatto a non sporcarsi di sangue?»

                Il punto cruciale, per lei, resta uno: «Non esiste impronta che possa cambiare la verità. Mio figlio non è entrato in quella casa per uccidere Chiara». E aggiunge: «Credo che i Poggi sappiano che Andrea non c’entra nulla. Non aveva motivi, lei era solo la sorella di un suo amico».

                La madre non nasconde la paura di un processo che potrebbe trascinarsi per anni. «E se lo arrestassero? Sarebbe arrestato da innocente», sospira. «Noi stiamo vivendo nell’angoscia dalla mattina alla sera. La nostra salute si sta rovinando sul nulla».

                E c’è spazio anche per l’amarezza verso l’eco mediatica: «Gli imbecilli che pensano che sia colpevole ci saranno sempre. Si sta puntando a mio figlio per ripulire la faccia di qualcun altro», un riferimento chiaro, seppur mai nominato, ad Alberto Stasi, il primo imputato del caso.

                Il suo appello finale è un misto di speranza e stanchezza: «Spero che la Procura chiarisca tutto il prima possibile. Noi viviamo con la sensazione di essere già stati condannati senza processo».

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