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Sic transit gloria mundi

Editoriale: Caro Vance, Dio non costruisce muri

Dal pranzo con Meloni ai riti di Pasqua, JD Vance si presenta come il volto nuovo del conservatorismo Usa. Ma sotto la superficie devota resta il marchio di un populismo aggressivo che inneggia alla chiusura e alla discriminazione.

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    Caro vicepresidente Vance,
    le abbiamo viste le foto con San Pietro sullo sfondo, le frasi a effetto sullo “spirito umano che si innalza” e il sorriso soddisfatto immortalato tra un rigatone alla gallinella di mare e un selfie davanti a Castel Sant’Angelo.
    Abbiamo letto anche i suoi tweet carichi di devozione e ammirazione per Roma, “costruita da persone che amavano Dio e l’umanità”.
    Belle parole, davvero. Peccato che suonino tremendamente vuote, dette da chi nella pratica politica costruisce muri, non ponti.

    Perché vede, signor Vance, Dio — almeno quello predicato da quella Chiesa che lei tanto cita — non si è mai occupato di respingere disperati né di sospettare dei diversi.
    Dio non ha chiesto ai suoi fedeli di barricarsi dietro una cultura monolitica, né di temere la libertà di pensiero.
    Dio, nella narrazione evangelica, accoglie, non divide.
    Un concetto semplice, che però sembra essersi perso nei meandri della sua agenda politica.

    Mentre in Italia ammiccava sorridente a Giorgia Meloni e riceveva l’applauso dei nostri vicepremier Salvini e Tajani, negli Stati Uniti lei porta avanti una visione del mondo che sa di epoche che credevamo sepolte:

    • Libertà di parola sì, ma solo per chi la pensa come lei.
    • Famiglia tradizionale sì, ma senza spazi per chi vive diversamente.
    • Occidente da salvare sì, ma difendendolo con la paura e la chiusura.

    Lei si presenta come il paladino dei valori cristiani, ma si scaglia contro l’immigrazione, contro i diritti delle minoranze, contro la cultura del rispetto.
    In nome di che cosa? Di un’idea di “ordine naturale” che sembra più vicina al darwinismo sociale che alla carità cristiana.

    Non sfugge a nessuno, poi, il tempismo perfetto della sua visita romana: Pasqua, San Pietro, riti solenni.
    E magari, chissà, un incontro con il Papa, se le agende lo permetteranno.
    Un Papa che, ogni volta che apre bocca, sembra predicare esattamente il contrario di quello che lei incarna: apertura, accoglienza, dialogo, misericordia.

    Le sue parole, caro Vance, parlano di Dio.
    Ma i suoi atti parlano di paura.
    Le sue foto raccontano una fede plastificata, da social network, che nulla ha a che vedere con l’amore per il prossimo.
    Quel prossimo che, nei suoi discorsi, è sempre una minaccia da respingere, mai un fratello da abbracciare.

    La verità, signor vicepresidente, è che non basta camminare in Vaticano per essere cristiani.
    Non basta commuoversi davanti a una basilica per redimersi da un’agenda politica costruita sull’esclusione e sull’odio mascherato da valori.

    Forse, la prossima volta che visiterà Roma, dovrebbe fermarsi davvero un momento.
    E magari ricordarsi che, in quella città che tanto ammira, la parola “cattolico” significa “universale”.
    Non “nostro”, non “di chi ce lo merita”, non “di chi rientra nei nostri parametri”.
    Universale.

    E Dio, per fortuna, resta di tutti.
    Anche di quelli che lei vorrebbe lasciare fuori dalle sue mura immaginarie.

    Buon viaggio di ritorno, Mr. Vance.
    E se trova il tempo, magari, provi anche a costruire qualche ponte vero.
    Ne abbiamo tutti un disperato bisogno.

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      Sic transit gloria mundi

      Addio a Ace Frehley, lo “Spaceman” dei Kiss: il mio supereroe con la chitarra che sapeva volare

      Con il suo trucco da “Spaceman”, le chitarre che fumavano e i razzi che partivano dal manico, Ace ha trasformato il rock in spettacolo e magia. Lascia un’eredità di suoni, coraggio e umanità: quella di un uomo che ha saputo salvarsi e far sognare milioni di ragazzi.

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        Ci sono artisti che non si limitano a suonare: accendono un immaginario. Ace Frehley era uno di questi. Per chi è cresciuto tra gli anni Settanta e Ottanta, lui non era solo il chitarrista dei Kiss, ma un supereroe in carne e ossa, uno di quelli che scendevano dal palco avvolti nel fumo, con la chitarra che sputava fuoco e gli occhi pieni di stelle. Lo chiamavano The Spaceman, l’uomo venuto dallo spazio, ma in realtà veniva dal Bronx, con una Gibson in mano e un sorriso timido dietro il trucco argentato.

        Ace se n’è andato, a 74 anni – il giorno del mio compleanno e non è stato davvero un ben regalo – dopo un’emorragia cerebrale che lo aveva colpito nei giorni scorsi. E con lui se ne va un pezzo di infanzia, di ribellione, di sogno. Perché chi ha amato i Kiss – quelli veri, quelli del 1975 di Rock and Roll All Nite e del trucco come armatura – sa che il suono di Ace era la scintilla che faceva partire l’esplosione. Ogni assolo sembrava un decollo, ogni nota un razzo che bucava il buio.

        Nel pantheon del rock, Frehley era l’anima più ironica, più fragile, più umana del gruppo. Gene Simmons e Paul Stanley erano i generali, lui era l’astronauta. Il suo “Space Ace” nasceva come il personaggio di un fumetto, ma divenne presto una leggenda viva, capace di unire il virtuosismo alla teatralità, la tecnica alla fantasia. Le sue chitarre fumavano, letteralmente. Le sue dita correvano leggere e incendiate, e noi ragazzi lo guardavamo come si guarda un eroe di un film che non finisce mai.

        Nel 1982 lasciò la band, quando i Kiss decisero di togliere il trucco e affrontare il mondo a viso scoperto. Ace non ci riuscì. Aveva bisogno del suo personaggio, di quella maschera che non nascondeva, ma liberava. Continuò da solo, con i Frehley’s Comet, alternando tour, eccessi, cadute e rinascite. Negli anni Novanta tornò per una reunion trionfale: la vecchia banda di nuovo insieme, quattro maschere, quattro archetipi, un suono che sembrava ancora nuovo.

        Nel 2014 entrò nella Rock and Roll Hall of Fame, dove i Kiss furono premiati come una delle band più influenti della storia. Era felice, e commosso. Nelle ultime interviste aveva detto di voler essere ricordato “come un uomo schietto, fedele alla propria musica, rispettato dai colleghi”. Lo era. Aggiungeva: “Ho portato felicità a molte persone, e tanti ragazzi mi dicono di essere riusciti a disintossicarsi grazie a me. Se ce l’ho fatta io, possono farcela anche loro”. Era questo il suo vero superpotere: non la chitarra che lanciava razzi, ma il coraggio di dire che la fragilità non è una vergogna.

        Paul Stanley lo ricordava così: «Nel 1974 lo sentii suonare in una stanza d’albergo. Pensai: vorrei che quel ragazzo fosse nella mia band. Era Ace». Gene Simmons ha scritto: «I nostri cuori sono spezzati. Nessuno potrà mai eguagliare la sua eredità. Amava i suoi fan, e ci mancherà per sempre». Peter Criss, il batterista con cui aveva condiviso la nascita della leggenda, ha aggiunto: «Era mio fratello. È morto serenamente, circondato da chi lo amava. La sua eredità vivrà nei cuori di milioni di persone».

        Ace era uno di quei pochi che riuscivano a restare bambini anche sul palco. Quando lo vedevi sorridere sotto la maschera d’argento, capivi che dietro al rock c’era un’anima buona. Uno che non cercava di essere un dio, ma un amico. Forse per questo lo abbiamo amato così tanto. Perché in quel trucco c’era il sogno di ognuno di noi: salire su un palco e non avere più paura.

        Oggi che la notizia corre tra social e redazioni, chi lo ha ascoltato da ragazzo sente un vuoto diverso, personale. È la fine di un’epoca, quella in cui il rock aveva ancora la forza di sembrare eterno. Ace Frehley era il suono della libertà, il fumo che saliva da una chitarra in fiamme, il sorriso dietro la maschera di uno Spaceman che non voleva tornare sulla Terra.

        E mentre la sua musica continua a girare nei vinili graffiati delle nostre camerette, viene naturale pensare che sì, forse aveva ragione lui: la sua eredità durerà centinaia d’anni. Perché chi ti insegna a sognare non muore mai davvero.

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          Caso Epstein, Melania Trump pronta a chiedere oltre un miliardo a Hunter Biden: “Accuse false e diffamatorie”

          Melania Trump ha minacciato una causa miliardaria contro Hunter Biden per aver dichiarato che sarebbe stato Epstein a presentarla al marito. Intanto i democratici puntano il dito sul trasferimento di Ghislaine Maxwell in un carcere meno severo.

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            Melania Trump è passata al contrattacco. La first lady americana ha annunciato l’intenzione di fare causa a Hunter Biden, chiedendo un risarcimento da oltre un miliardo di dollari, dopo che il figlio del presidente ha affermato che sarebbe stato Jeffrey Epstein – il finanziere condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori – a presentarla a quello che poi sarebbe diventato suo marito. Una ricostruzione definita dai legali di Melania “falsa, denigratoria, diffamatoria e provocatoria”.

            Le dichiarazioni di Biden risalgono a un’intervista di inizio mese, in cui aveva ripercorso i rapporti tra il presidente e il miliardario pedofilo, sottolineando vecchie frequentazioni poi interrotte “agli inizi degli anni Duemila”, come lo stesso Trump ha sempre sostenuto.

            Ma la vicenda non si ferma qui. I democratici della Commissione Giustizia della Camera hanno sollevato un polverone sul trasferimento di Ghislaine Maxwell – ex compagna e complice di Epstein – in un carcere federale del Texas con regime meno restrittivo. La donna, condannata a 20 anni, era detenuta a Tallahassee, in Florida, ma è stata spostata subito dopo un incontro con il vice procuratore generale Todd Blanche.

            Secondo il deputato Jamie Raskin, leader dei democratici in Commissione, il trasferimento “offre maggiore libertà ai detenuti” e “prima di questo caso era categoricamente vietato per chi fosse condannato per molestie sessuali”. In una lettera al procuratore generale Pam Bondi e al direttore del Bureau of Prisons William K. Marshall, Raskin parla di “preoccupazioni sostanziali” su possibili pressioni per indurre Maxwell a fornire una testimonianza favorevole al presidente, “violando le stesse politiche federali”.

            Un’accusa che, in un contesto già incandescente, riaccende i riflettori sul nodo più imbarazzante per la Casa Bianca: i rapporti passati tra il presidente e Jeffrey Epstein.

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              Sgarbi, la figlia chiede un amministratore di sostegno: “Non è più lucido”. Lui replica: “È mal consigliata e cerca visibilità”

              Dopo il ricovero al Gemelli e mesi di assenza da Arpino, l’ex sottosegretario alla Cultura rompe il silenzio: “Non sono preoccupato, solo addolorato. Mi opporrò a ogni decisione che limiti la mia libertà”.

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                Una richiesta che ha il sapore di un colpo basso. Vittorio Sgarbi, 72 anni, si trova al centro di un nuovo caso familiare dopo che la figlia Evelina ha presentato istanza al tribunale per la nomina di un amministratore di sostegno, sostenendo che il padre “non sarebbe più in grado di seguire i propri interessi”.

                Il critico d’arte, ex sottosegretario alla Cultura e attuale sindaco di Arpino, non l’ha presa bene. «È mal consigliata, vuole visibilità e ha una volontà di rivalsa», ha dichiarato a la Repubblica. «Non so cosa pensi di ottenere facendo così. Io sto meglio, sono qui e non sono preoccupato. Sono solo addolorato».

                L’istanza, presentata tramite l’avvocato Lorenzo Iacobbi, è stata notificata ai parenti più stretti: la sorella Elisabetta, i figli Carlo e Alma, e la compagna Sabrina Colle. La prima udienza è fissata per il 28 ottobre, quando il giudice dovrà valutare le condizioni dell’ex parlamentare e decidere se accogliere la richiesta.

                Sgarbi negli ultimi mesi ha attraversato un periodo di fragilità fisica: un lungo ricovero al Policlinico Gemelli di Roma lo ha costretto a rallentare i ritmi e a restare lontano dalla vita pubblica. Ad Arpino, dove è stato eletto nel 2023, da tempo non si fa vedere, ma il suo vice, Massimo Sera, assicura che il sindaco è vigile e informato su tutto. «L’ho sentito cinque giorni fa – racconta – stava molto meglio e mi ha detto che entro fine mese sarebbe tornato. È deciso come sempre, e di certo si opporrà alla nomina di un tutore».

                Dietro la decisione della figlia si nascondono tensioni antiche. I rapporti tra Evelina e il padre si sarebbero raffreddati da tempo, complici incomprensioni e vecchie ferite mai risolte. Ma questa volta la frattura si sposta in un’aula di tribunale, con il rischio di trasformare un dolore privato in un caso pubblico.

                Sgarbi, nel frattempo, continua a mostrarsi lucido e combattivo, deciso a non farsi commissariare da nessuno. «Sono abituato a governare, non a farmi governare», avrebbe confidato ad alcuni amici.

                Un nuovo scontro, dunque, in una vita che non ha mai conosciuto tregua. Ma per il professore di Ferrara, da sempre allergico a ogni forma di controllo, questa battaglia – forse più personale di tutte – ha il sapore della libertà.

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