Cronaca
“Bergoglio mi disse: ‘Qualche sinistrino voleva mettermi il cappio al collo’”
Ha confessato di non voler entrare nella Sistina, ha raccontato di aver vissuto l’esilio come una purificazione e ha ironizzato sulle sue scarpe ortopediche e sul bisogno di uno psicologo se fosse finito al Palazzo Apostolico: nel ritratto intimo di Fabio Marchese Ragona, Papa Francesco rivive tra empanadas, cioccolatini, dolori antichi e una fede mai priva di umorismo.

Una volta lo fece sedere a tavola e gli disse: “Sei digiuno, ora le mangi tutte”, riferendosi a un vassoio di empanadas appena servite. Un’altra volta gli regalò dei cioccolatini portati dall’Amazzonia e aggiunse: “Se sono buoni li mangio anch’io”. Così si comportava papa Francesco, “sensibile, ironico e determinato”, come lo descrive Fabio Marchese Ragona, vaticanista di Mediaset e autore dell’autobiografia ufficiale Life: La mia storia nella Storia, in uscita il 3 maggio.
L’idea del libro nacque da una proposta semplice: raccontare la sua vita intrecciandola con gli eventi della storia contemporanea. “Gli dissi che sarebbe stato bello ascoltare la sua storia attraverso i grandi eventi. Mi rispose che gli interessava per i giovani, ai quali da anziano voleva lasciare un messaggio”. Fu così che aprì il cassetto dei ricordi, condividendo con Ragona un bilancio fatto di gioie, dolori, successi e anche sconfitte.
Il primo ricordo importante risale a quando aveva solo tre anni, durante la guerra: “Ho dei flash. Mamma e papà che urlavano: ‘Hitler è un mostro’. O Margherita Musonero, amica di nonna, che le raccontava cosa succedesse ai parenti in Italia. Ci mandavano via, ma noi bambini origliavamo di piccoli separati dalle mamme: un trauma”.
Ma è sulla dittatura in Argentina che il pontefice si commuove, definendola “un genocidio generazionale”. Rivendica quanto fatto per salvare due confratelli gesuiti, e ricorda il giorno in cui si recò da Videla a celebrare messa per liberarli. Non poté però salvare l’amica Esther. “Sono uscito pulito da una brutta manovra di qualche sinistrino che voleva mettermi il cappio al collo”, ha confidato, raccontando anche delle quattro ore e mezza passate sotto interrogatorio nel 2010 su quei fatti.
In quegli anni difficili visse un momento di esilio e depressione. “Fui esiliato per punizione e non sapevo perché. Alla fine capii. Mi serviva un periodo di purificazione. Passai quel tempo a confessare e a leggere libri sui papi. Non immaginavo di diventarlo”.
Durante la lavorazione del libro, Francesco e Ragona lavoravano spesso nella residenza di Santa Marta, al secondo piano. “Una volta mi ha anche detto: ‘Vieni, ti faccio vedere la stanza dove dormivo durante il Conclave’. La guardia svizzera era allarmatissima”, racconta il giornalista.
E proprio sul Conclave del 2013, Bergoglio rivelò un retroscena inedito. “Subito dopo pranzo, quel giorno, capii che sarei stato eletto. Non volevo entrare nella Cappella Sistina. Inconsciamente non volevo essere eletto”. Si attardò a parlare con il cardinal Ravasi di libri sapienziali, finché non furono richiamati. E quando uscì sul balcone di San Pietro, il suo primo pensiero fu per “la nonna, la mamma e i poveri di Buenos Aires che non avrebbe più rivisto”.
Poco dopo, telefonò al Papa emerito e al nunzio apostolico in Argentina, chiedendo che i vescovi del Paese non venissero a Roma e che i soldi dei biglietti aerei fossero dati ai poveri. Si tenne la sua croce e le scarpe ortopediche. “Se fossi andato al Palazzo Apostolico – confessò – avrei avuto bisogno di uno psicologo”.
Il ritratto che ne emerge è quello di un uomo capace di ironia, ma anche profondamente umano. “Una volta mi chiamò dicendo: ‘Sono el Coco, l’uomo nero. Anche se mi vesto di bianco’. Amava strappare un sorriso”. Un’altra volta, mentre Ragona era in metropolitana, rispose a una chiamata del pontefice: “Santo Padre, mi permette di chiamarla solo Padre, altrimenti qui pensano che sia matto?”. E lui, ridendo, replicò: “Chiamami pure Giorgio”.
Nonostante le accuse di vendicatività che in certi ambienti gli sono state rivolte, Francesco ha sempre detto di aver perdonato tutti: “Gliene hanno fatte di tutti i colori, ma ha perdonato sempre”, racconta Ragona. Sugli abusi nella Chiesa, ha ammesso che è una delle sfide ancora incompiute, ma ha invitato tutti “a lavorare per trovare la verità”. Lo stesso ha detto anche sul caso di Emanuela Orlandi.
L’immagine che forse meglio sintetizza il rapporto tra i due è quella di fine giornata. “Quando finivamo di lavorare, mi accompagnava all’ascensore. Mi faceva un segno di croce con le dita sulla fronte. E poi scherzava: ‘Ora vai. Non rompere le scatole’”.
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Cose dell'altro mondo
Maxi rogo di marijuana in Turchia intossica 25 mila persone
L’idea di bruciare tonnellate di marijuana senza adeguate misure di contenimento ha creato un’emergenza sanitaria evitabile, con migliaia di persone costrette a convivere con le conseguenze di una scelta discutibile.

Un’operazione della gendarmeria turca nella provincia di Lice, nel sud-est della Turchia, ha avuto conseguenze inaspettate e gravi per la popolazione locale. La scorsa settimana, le autorità hanno effettuato un sequestro di 20 tonnellate di marijuana, coltivata e prodotta nell’area, un quantitativo enorme destinato alla distruzione. Ma la modalità scelta dai militari per smaltire la droga ha dell’incredibile e ha scatenato una crisi sanitaria senza precedenti. Le forze dell’ordine hanno deciso di bruciare la marijuana all’aperto, provocando un’intossicazione di massa che ha colpito ben 25 mila persone.
La protesta dei residenti è esplosa immediatamente, con numerose denunce rivolte alle autorità turche, accusate di aver gestito la situazione in modo approssimativo e pericoloso. Il fumo sprigionato dalla combustione ha investito diversi villaggi dell’area, causando malori diffusi, difficoltà respiratorie e una serie di effetti collaterali che hanno compromesso la quotidianità degli abitanti per giorni. Tra i più colpiti i bambini, molti dei quali sono tornati da scuola debilitati e con sintomi di intossicazione. Le famiglie hanno riferito di aver vissuto giorni terribili, impossibilitate perfino ad aprire le finestre, per paura di respirare il fumo tossico che si era diffuso nell’aria.
Un insolito smaltimento: la marijuana bruciata doveva formare la scritta “Lice”
Le modalità con cui la gendarmeria ha scelto di distruggere la droga hanno suscitato sconcerto e indignazione. Le balle di marijuana sequestrata sono state sistemate in modo da formare la scritta “Lice”, il nome della provincia, e poi incendiate. Il gesto, che sembrava quasi un’operazione scenografica, è stato documentato con riprese effettuate da droni, mostrando il fumo che si propagava nell’aria. Tuttavia, non si è tenuto conto delle conseguenze che una combustione di tale portata avrebbe avuto sulla popolazione locale.
La rabbiosa reazione della comunità
Gli abitanti di “Lice” e dei villaggi circostanti hanno espresso profondo sdegno per quanto accaduto, chiedendo che in futuro la distruzione di sostanze stupefacenti venga effettuata in modo più sicuro, lontano dai centri abitati e con metodi meno dannosi per la salute pubblica. “Sono giorni che non possiamo neanche aprire le finestre. Migliaia di persone e tantissimi bambini sono stati male. La droga deve essere bruciata in maniera più professionale e lontano dai centri abitati”, hanno dichiarato i residenti. Il caso ha sollevato importanti interrogativi sulla gestione del sequestro e sulla mancanza di protocolli adeguati per la distruzione delle sostanze illecite. Mentre le autorità difendono la loro operazione, la popolazione locale si sente abbandonata e esposta a gravi rischi sanitari.
Cronaca
Vaticano in rosso, 70 milioni di buco: il cruccio del Conclave tra conti in bilico e musei d’oro
A pochi giorni dall’inizio del Conclave, la Santa Sede si scopre più fragile dal punto di vista economico: deficit strutturale sopra i 70 milioni, bilanci in affanno e Musei Vaticani unica vera miniera d’oro. Intanto il quorum scende a 89 voti, e il futuro Papa dovrà fare i conti anche con i numeri.

Nel silenzio ovattato delle congregazioni generali che precedono il Conclave, tra riflessioni spirituali e consultazioni più o meno trasparenti, è arrivato il giorno dei numeri. E non sono affatto buoni. Nella settima riunione dei cardinali, martedì 30 aprile, si è toccato uno dei nervi scoperti del Vaticano: la situazione economica della Santa Sede. Il portavoce Matteo Bruni lo ha confermato con diplomazia: «Si è parlato della situazione economica e finanziaria della Santa Sede». Ma dietro la frase asciutta si nasconde un allarme serio: un buco strutturale superiore ai 70 milioni di euro, che da anni accompagna la gestione dei conti vaticani come un’ombra difficile da rimuovere.
I numeri ufficiali parlano chiaro. Nel 2024 il deficit è stato di 70 milioni, in miglioramento rispetto agli 83,5 del 2023 e ai 78 del 2022, ma pur sempre lontano da una vera stabilità. E la tendenza non è incoraggiante. Se le uscite restano elevate – tra stipendi, opere, strutture e attività diplomatiche – le entrate arrancano. In particolare, a calare sono le donazioni: l’Obolo di San Pietro, che un tempo rappresentava un gesto di partecipazione spirituale e materiale da parte dei fedeli, oggi segna il passo, fiaccato da scandali, sfiducia e crisi economiche a catena.
A tenere in piedi la macchina, almeno in parte, ci pensano i Musei Vaticani, vera e propria gallina dalle uova d’oro. Ogni anno portano in cassa circa 100 milioni di euro, confermandosi la principale voce attiva del bilancio. Ma da sola non basta a compensare il passivo, che si è cronicizzato. E il prossimo Papa, chiunque sia, si troverà a gestire un’eredità complessa, fatta non solo di fede e visione, ma anche di conti che non tornano.
Intanto, nel giorno di San Giuseppe lavoratore, giovedì 1° maggio, il Vaticano si è concesso una pausa. Niente congregazioni, niente riunioni: solo riflessione, preghiera e ultimi arrivi. Sono infatti attesi ancora alcuni cardinali elettori. A martedì 30 aprile risultavano presenti a Roma 124 porporati su 133 votanti. Il totale dei cardinali aventi diritto sarebbe 135, ma due – lo spagnolo Antonio Cañizares Llovera e il kenyano John Njue – hanno annunciato la loro assenza per motivi di salute. Il cardinale bosniaco Vinko Puljić, pur autorizzato dai medici a recarsi a Roma, parteciperà solo alle congregazioni ma non voterà, restando a Santa Marta.
Questo significa che gli elettori effettivi in Sistina saranno 133, e che il quorum per eleggere il nuovo Papa si abbassa a 89 voti. Numeri che i cardinali stanno già facendo circolare sottovoce nei corridoi, tra uno scambio di cortesie e un caffè bevuto con circospezione. Ogni voto conta. E ogni nome che gira viene soppesato anche alla luce di quel dato nascosto tra le righe: chi prenderà il posto di Francesco dovrà affrontare una Chiesa sempre più globale, certo, ma anche sempre più povera. E il rosso dei conti, più del colore delle vesti cardinalizie, sarà il primo nodo da sciogliere.
Cronaca
Il Papa non s’ha da fare: fango su Parolin, gossip da sagrestia per farlo fuori
La fake news sull’improvviso collasso di Pietro Parolin durante la Congregazione fa il giro dei social americani e scatena il sospetto: qualcuno trama per azzopparlo prima ancora che entri in Cappella Sistina. Il più solido tra i papabili viene colpito con l’arma più vile. Dietro l’attacco, la longa manus degli ultracattolici d’Oltreoceano o la vendetta tardiva dei becciu-boys?

Altro che Spirito Santo. A tre giorni dall’inizio del Conclave, lo strumento più usato non è l’incenso, ma la calunnia. Il bersaglio, neanche troppo a sorpresa, è Pietro Parolin. E il metodo scelto da chi lo vuole fuori dai giochi fa rimpiangere i Borgia: insinuare che sia malato, che abbia avuto un malore durante la Congregazione, che non sia in grado di reggere il peso di un pontificato. Nessuna prova, nessuna testimonianza. Solo il passaparola degli odiatori, una manciata di account social e qualche sito che puzza d’incenso bruciato da secoli.
La Santa Sede, stavolta, ha fatto quello che raramente fa: ha smentito subito e con fermezza. «Nessun malore, il cardinale sta benissimo». Ma intanto la polvere è già stata alzata. E nel polverone, si sa, qualche voto può perdersi. Il meccanismo è vecchio come la Curia: colpisci il più forte con l’arma più vile, e aspetta che gli altri facciano il resto. Parolin, che ha alle spalle trent’anni di diplomazia, missioni complesse e trattative con mezza Asia, è finito nel tritacarne della disinformazione. Una fake news bastarda, che lo dipinge come un vecchio barcollante pronto a crollare tra un’Ave Maria e un’omelia.
A rilanciare la bufala è CatholicVote.org, il santuario digitale degli ultras conservatori americani. Da lì parte l’eco tossica che rimbalza su Twitter e nei salotti più acidi della cattolicità d’Oltreoceano. Difficile non vederci una manovra orchestrata. In fondo Parolin, con quel suo profilo sobrio e quella capacità di tenere insieme preti e presidenti, è l’ultimo ostacolo tra il partito dell’odio e il soglio pontificio.
Dalla sua ha una biografia inattaccabile: figlio di un ferramenta morto giovane, cresciuto tra oratorio e seminario, missioni in Nigeria e Messico, stratega silenzioso della diplomazia vaticana. Ma non basta. Perché ai fanatici non interessa la competenza, ma la bandiera. E Parolin non si è mai fatto arruolare: troppo diplomatico per i pasdaran americani, troppo lucido per i barricaderi bergogliani. L’uomo perfetto da eliminare.
C’è chi legge l’attacco come una vendetta di retrobottega. Quella dei becciuisti, che non gli hanno mai perdonato l’aver mostrato in aula le lettere con cui Papa Francesco — sì, proprio lui, prima di morire — firmò l’esclusione di Angelo Becciu dal Conclave. Ma qui non si tratta di un regolamento di conti. Qui c’è puzza di golpe.
Il malore inventato è solo l’ultima goccia di veleno iniettata nel corpo della Chiesa a colpi di insinuazioni, campagne anonime, mezze verità. E Parolin non è il primo, né sarà l’ultimo. In queste ore, tra i marmi vaticani, si gioca una partita che con il Vangelo ha poco a che fare. I cardinali si salutano con baci e abbracci, ma poi escono dai corridoi con le lame ben nascoste sotto la tonaca.
C’è da chiedersi cosa penserebbe un parroco qualsiasi, uno di quelli che ogni giorno fa davvero il mestiere del prete, davanti a un conclave che assomiglia sempre più a una riunione di capibastone. E forse Parolin è proprio questo: un parroco con curriculum da statista, l’unico in grado di riportare un po’ di compostezza tra le rovine. Forse per questo lo temono.
Intanto lui tace. Nessun commento, nessuna reazione. Entra e esce dalle Congregazioni come se nulla fosse, col passo fermo di chi ne ha viste tante. Ma sa benissimo che, in Sistina, un voto in meno può decidere tutto. E che un’accusa falsa, se messa in circolo al momento giusto, vale come una condanna. A meno che non ci sia ancora, da qualche parte, un pugno di cardinali disposti a votare secondo coscienza. Ma ormai, più che lo Spirito Santo, ci vorrebbe un miracolo.
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