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Televisione

Bossetti e Fagnani: scontro in diretta a “Belve Crime” tra verità processuali e un uomo che si dice innocente

Nella prima puntata dello spin-off di “Belve”, la giornalista mette all’angolo l’uomo condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Tra ammissioni di bugie e silenzi inquietanti, la tensione si taglia a fette e divide il pubblico, mentre la televisione si fa ancora una volta tribunale.

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    La televisione ha riaperto un vecchio ferita e il pubblico non si è perso neanche un respiro. Nella prima puntata di “Belve Crime”, spin-off del noto programma di Francesca Fagnani, è andato in scena un duello in punta di lingua, ma con fendenti letali. Da un lato Massimo Bossetti, il muratore di Mapello condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio. Dall’altro la Fagnani, che non si è fatta scrupolo a incalzare e svelare contraddizioni.

    Bossetti si è presentato con il solito copione: l’innocenza sbandierata, il tono pacato da uomo qualunque. Ma la Fagnani non era lì per fargli da cassa di risonanza. Fin dalle prime battute lo ha inchiodato alla prova regina, il Dna trovato sugli slip della vittima. “Il Dna nucleare non mente”, ha scandito la giornalista, e in quel momento la tensione si è fatta palpabile.

    Lui ha provato a ribattere, a sollevare dubbi, a rimestare nell’ombra: “Chi lo dice che era il mio?”, ha ripetuto. “La scienza e la legge”, ha chiuso la Fagnani, gelida. Un siparietto che ha scatenato i social: da chi la osanna come paladina della verità a chi l’accusa di essere un pubblico ministero in diretta. “Bossetti freddo e cinico, ma la Fagnani non molla un centimetro”, scrivono alcuni. “Troppo giudicante, doveva lasciarlo parlare di più”, ribattono altri.

    Il momento più teso? Quando Bossetti, con aria offesa, ha evocato il padre di Yara: “Mi stupì che venne in cantiere a vedermi”. La Fagnani lo ha fulminato: “Come può giudicare un padre che ha perso la figlia?”. Lui si è barricato dietro la solita retorica del genitore modello: “Io non sarei tornato a casa finché non l’avessi ritrovata”. Ma l’aria era già carica di sospetto, di parole che suonavano come un esercizio di difesa disperata.

    Certo, l’ex muratore non ha mancato di raccontare la sua versione delle “piccole bugie” – come quel tumore al cervello che si era inventato per giustificare le assenze dal lavoro. “Mi pareva l’unica scusa plausibile”, ha ammesso con un ghigno che ha fatto rabbrividire molti. E quando la Fagnani gli ha ricordato il soprannome “favola” – affibbiatogli dai colleghi di cantiere proprio per queste menzogne – lui ha scrollato le spalle. “Chi non ne racconta?”, ha detto. Una frase che, da sola, spiega molto.

    Non sono mancati i momenti in cui il dolore si è affacciato. La giornalista ha citato i tradimenti della moglie Marita, svelati a Bossetti quando era già in carcere. “È la cicatrice più grande”, ha sospirato lui, con un’espressione finalmente meno sicura. Ma di fronte al peso di un ergastolo e alla verità di un Dna che non sparisce, anche le ferite del cuore sembrano secondarie.

    A colpire di più, in questa intervista, è stata la linea sottile su cui si è mossa la Fagnani: mai indulgente, mai complice. Ha lasciato spazio alle parole di Bossetti, ma non ha concesso scappatoie. La differenza con il documentario Netflix – che a molti era sembrato un tentativo di riabilitare l’immagine di Bossetti – è stata evidente. “Qui si parla di un uomo condannato per l’omicidio di una ragazzina”, pareva dire ogni domanda. E la Fagnani non ha mai mollato la presa.

    Il risultato? Uno share altissimo, il più alto della stagione per il format di Rai2: 12,4% con 1,5 milioni di spettatori. Un segnale che il pubblico vuole vederci chiaro, anche se – come sempre nei grandi casi di cronaca – la verità processuale e quella “mediatica” non coincidono mai del tutto.

    Francesca Fagnani, però, ha mostrato di saper gestire la sottile linea tra il racconto e l’inchiesta, tra la cronaca e la sfida morale. E lo ha fatto con la consapevolezza che questo è un tema che non finirà di far discutere. Perché quando si parla di Yara, e di un uomo che continua a proclamarsi innocente mentre la scienza dice il contrario, il confine tra la pietà e la rabbia si fa sempre più labile. E le interviste, come i processi, diventano un campo di battaglia dove ognuno cerca la sua verità.

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      Televisione

      Charlie Hunnam, l’uomo che guarda nell’abisso: “Interpretare Ed Gein mi ha terrorizzato”

      Tra trasformazioni fisiche estreme, introspezione psicologica e la sfida di umanizzare il male: il ritorno di Hunnam segna una delle prove più intense della sua carriera.

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      Charlie Hunnam

        Non è facile spaventare Charlie Hunnam. Eppure, lo stesso attore che per anni ha incarnato il carisma ribelle di Sons of Anarchy ammette che il suo ultimo ruolo lo ha «terrorizzato». Il motivo è semplice: per la terza stagione della serie antologica di Netflix Monster, ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan, Hunnam è chiamato a vestire i panni di Ed Gein, il serial killer del Wisconsin la cui storia ha ispirato capolavori come Psycho, Non aprite quella porta e Il silenzio degli innocenti.

        L’interpretazione ha richiesto all’attore britannico un’immersione profonda e disturbante nei meandri della mente umana. «Questo ruolo mi ha costretto a guardare il lato più oscuro dell’uomo — ha raccontato in un’intervista —. Non volevo che diventasse una caricatura del male. Dovevo capire come un essere umano possa arrivare a tanto».

        Un viaggio nella follia americana

        Ambientata negli anni Cinquanta, Monster: La storia di Ed Gein ricostruisce la vicenda del “macellaio di Plainfield”, noto per i suoi crimini che scioccarono l’America rurale. Dopo il successo mondiale delle precedenti stagioni dedicate a Jeffrey Dahmer e John Wayne Gacy, la nuova serie ha debuttato in vetta al catalogo Netflix, generando al contempo entusiasmo e polemiche per il modo crudo e realistico con cui rappresenta la violenza.

        Hunnam, 45 anni, ha dovuto affrontare un intenso lavoro di preparazione: ha perso circa 14 chili per riprodurre la corporatura esile del vero Gein, ha studiato ore di registrazioni dell’interrogatorio e ha visitato la sua cittadina natale. «La parte più difficile non è stata la trasformazione fisica, ma la comprensione psicologica», ha spiegato. «Dietro le sue azioni c’erano traumi, isolamento e una malattia mentale mai curata. L’obiettivo era mostrare l’uomo prima del mostro».

        Da Newcastle a Hollywood: la parabola di un ribelle

        Nato nel 1980 a Newcastle upon Tyne, Hunnam è cresciuto nel nord industriale dell’Inghilterra, tra pub, campi da calcio e una famiglia segnata da difficoltà economiche. Dopo un’infanzia turbolenta e un trasferimento forzato nella tranquilla Cumbria, trova nella recitazione la sua via di fuga. Scoperto quasi per caso da un talent scout della BBC, debutta a 17 anni nella serie Byker Grove e poco dopo conquista l’attenzione del pubblico in Queer as Folk, dove interpreta un adolescente alla scoperta della propria identità.

        Il salto internazionale arriva con Sons of Anarchy (2008–2014), in cui dà vita a Jax Teller, il tormentato leader di una gang di motociclisti. Quel ruolo lo consacra come icona maschile e simbolo del ribelle moderno. Da allora, alterna cinema e tv in produzioni di prestigio come Pacific Rim di Guillermo del Toro, Civiltà perduta di James Gray, King Arthur e The Gentlemen di Guy Ritchie.

        Il metodo Hunnam: tra dedizione e tormento

        Per affrontare il ruolo di Gein, l’attore ha adottato un metodo quasi ascetico. «Ho vissuto da solo per settimane, limitando i contatti con il mondo esterno», ha rivelato. Durante le riprese, ha evitato ogni distrazione, immergendosi completamente nella parte. «Più studiavo la sua vita, più capivo che interpretarlo significava affrontare le paure più profonde, le mie e quelle di chiunque».

        Al termine delle riprese, Hunnam ha compiuto un gesto simbolico: ha visitato la tomba di Ed Gein, lasciandosi alle spalle il personaggio. «Ho voluto salutarlo — ha detto —. Gli ho promesso che avrei raccontato la sua storia con rispetto, ma che non l’avrei portato con me».

        Critiche e riflessioni: chi è il vero mostro?

        Come spesso accade con le opere di Ryan Murphy, anche questa stagione ha sollevato dibattiti sull’etica della rappresentazione del male. Hunnam, però, difende la scelta artistica: «Non stiamo glorificando la violenza. La nostra intenzione è capire. Mostrare il male per ciò che è: un fallimento umano e sociale».

        E lancia una provocazione: «Gein era il mostro della storia, ma chi è il mostro oggi? Hitchcock, che ha trasformato la sua vicenda in intrattenimento? O noi spettatori, che guardiamo queste storie per sentirci al sicuro di fronte all’orrore degli altri?».

        Un attore, due vite

        Lontano dai set, Hunnam conduce un’esistenza sorprendentemente riservata. Da quasi vent’anni è legato alla designer di gioielli Morgana McNelis, con cui vive in California, tra natura e discrezione. «Sono con lei da metà della mia vita», ha raccontato. «Non ho bisogno di un certificato per sapere che è la persona giusta».

        Nel 2025, con Monster: La storia di Ed Gein, Hunnam dimostra di essere più di un sex symbol o di un eroe da action movie: è un attore che non teme di sporcarsi le mani con l’oscurità. E forse è proprio questa vulnerabilità, questa capacità di guardare dentro l’abisso senza arretrare, che lo rende — ancora oggi — una delle figure più complesse e affascinanti di Hollywood.

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          Televisione

          Marcella Bella contro i giudici di Ballando con le stelle: lo sfogo rovente della cantante scatena polemiche

          Dalla televisione al botta e risposta pubblico: lo sfogo di Marcella Bella contro i giudici di Ballando con le stelle — con accuse di mortificazione e frasi forti — riporta al centro il dibattito sul tono del confronto televisivo e sui limiti tra critica professionale e attacco personale.

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            Parole che squarciano la calma: Marcella Bella si scaglia con veemenza contro i giudici di Ballando con le stelle, definendo quello che riceve «accanimento» e ribadendo un senso di umiliazione personale. «Questo accanimento nei miei confronti comincia ad essere grave. Io mi sento mortificata…Mi tagliano la testa? Mi sputano addosso? Mi lanceranno le monetine appresso? Mi hanno detto che ho gli occhi tristi, ma quali occhi tristi? Io sono incazzata nera. Gli metterei le dita negli occhi a questi qui, a tutti e cinque». Sono parole forti, che non lasciano spazio a mediazioni emotive: la cantante mostra frustrazione e rabbia, e il caso è già alimento per pagine social e tavoli televisivi dove il teatrino del giudizio incontra la sensibilità dell’artista.

            Il contesto: performance, critiche e reazioni

            In un talent-show il confronto è parte del format: i giudici valutano, commentano, anche in termini ruvidi; i concorrenti si espongono e accettano la platea. È però inevitabile che certe precisazioni generino attrito. Quando a esprimersi è una figura conosciuta come Marcella Bella, le parole diventano notizia: non soltanto per il contenuto dello sfogo, ma per la questione più ampia che pone — dove tracciare il confine tra critica professionale e offesa personale? E come devono comportarsi talent e giurie in uno spazio pubblico che amplifica ogni frecciatina?

            Polemiche e responsabilità del piccolo schermo

            Il linguaggio dello spettacolo è spesso teatrale, volutamente esasperato per produrre share e commenti. Resta però la domanda: quanto spazio va lasciato all’aggressività verbale, e quanto alle scuse o alle chiarificazioni? Le reazioni a caldo, come quella di Marcella Bella, mettono in luce una dinamica fragile: da un lato l’attrazione per il conflitto mediatico, dall’altro il rischio di superare il limite della dignità personale. In questo senso, la vicenda non si esaurisce in un battibecco tra platee televisive: solleva riflessioni su come si costruisca il racconto dello spettacolo e su chi debba farsi carico dei toni — il conduttore, la produzione, la giuria o gli stessi protagonisti.

            Per ora la dichiarazione di Marcella Bella resta un segnale chiaro: la tensione è alta e il confronto, televisivo e sociale, è destinato a proseguire. Il resto lo dirà la prossima puntata e, probabilmente, le eventuali repliche pubbliche dei diretti interessati.

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              Televisione

              Gerry Scotti incorona Samira Lui: «Non è una valletta, è una co-presentatrice». E La Ruota della Fortuna trova la sua nuova regina

              Gerry Scotti spende parole di grande stima per Samira Lui, protagonista con lui a La Ruota della Fortuna. «Non è una valletta», dice, ribaltando i cliché e sottolineando come l’ex Miss stia diventando un volto amato soprattutto dalle donne.

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                Gerry Scotti ha deciso: Samira Lui non è più soltanto la “bella accanto al conduttore”. È una co-presentatrice. Punto. Il re del preserale lo dice senza giri di parole, cogliendo l’occasione per ribaltare un’etichetta antica quanto la tv generalista: «Lei è il prototipo della nuova protagonista femminile in televisione. Fa finta di cavalcare il ruolo della valletta, ma non lo è. È una co-presentatrice e con grande umiltà, fidandosi di me, passo passo sta conquistando il favore delle persone».

                Scotti, che negli anni ha affiancato nomi e volti poi diventati iconici, sembra vedere in Samira un’evoluzione naturale della figura femminile nel game show: meno decorativa, più complice. Una presenza che accompagna, commenta, interagisce e porta ritmo.

                Oltre il luogo comune “bella e basta”
                Non è un mistero: Samira Lui, ex Miss Italia, ha sempre lottato contro la percezione di “bellezza e poco altro”. Ma sul set de La Ruota della Fortuna sta costruendo un ruolo diverso, tra sorriso gentile e sicurezza. E Gerry la difende e la valorizza: «Quando una è bella è facile che piaccia agli uomini e meno alle donne. Al contrario, ho l’impressione che Samira piaccia molto alle signore».

                Una frase che racconta bene l’obiettivo: conquistare il pubblico femminile — da sempre il più esigente e fedele nel daytime tv. Samira, insomma, non cerca la scorciatoia della simpatia forzata né il ruolo-maschera della “ragazza da copertina”. Preferisce ascoltare, osservare, imparare e restare elegante. Una scelta che paga.

                La Ruota riparte dalle persone
                Nel rilancio di un format storico, la scommessa è tutta sulla relazione con chi guarda. E qui la coppia funziona: Scotti, marchio di garanzia di casa Mediaset, e Samira, volto giovane ma già riconoscibile, costruiscono una dinamica nuova senza rompere le liturgie del gioco. È tv tradizionale, ma con un codice leggermente aggiornato: il conduttore guida, la co-conduttrice accompagna, la platea applaude.

                In un’epoca in cui i talent e i grandi show spesso fagocitano le personalità, La Ruota della Fortuna rimane un’oasi di semplicità luminosa. E dentro quell’equilibrio, Samira Lui sta trovando un posto tutto suo. Con più sostanza che slogan, più sorrisi che urla, più grazia che teatralità.

                La benedizione di Gerry è arrivata. Il resto, come sempre, lo deciderà il pubblico. E per ora, la ruota sembra girare dalla sua parte.

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