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Cronaca Nera

«Nel Fruttolo c’è il DNA di Andrea Sempio»: l’incubo inquietante dell’avvocato Lovati

Mentre l’incidente probatorio sui vecchi reperti entra nel vivo, l’avvocato di Andrea Sempio scuote l’opinione pubblica: “Ho sognato che nel Fruttolo c’era il DNA del mio assistito”. Un incubo? Forse. Ma dietro quella frase, una teoria alternativa all’omicidio di Chiara Poggi riemerge con forza.

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    «Nel Fruttolo c’è il DNA di Andrea Sempio». Parole pronunciate con voce bassa ma netta da Massimo Lovati, l’avvocato del ragazzo che, a distanza di quasi vent’anni dall’omicidio di Chiara Poggi, è oggi l’unico nuovo indagato nell’inchiesta. A pronunciarle non è stato un consulente tecnico né un perito in laboratorio. Ma un sognatore. O, come lui stesso ha voluto precisare, un uomo tormentato da un incubo.

    Lovati ne ha parlato durante l’ultima puntata di Quarto Grado, dove è tornato a riflettere pubblicamente sul caso Garlasco. Una vicenda che sembrava conclusa con la condanna definitiva di Alberto Stasi, ma che negli ultimi mesi ha ricominciato a pulsare sotto la cenere: nuove indagini, nuovi reperti, nuove piste. E sogni. «Ho sognato che nel Fruttolo c’era il DNA del mio assistito – ha detto Lovati – poi uno lo può interpretare come vuole».

    Una frase che, di per sé, non ha valore probatorio. Ma il suo peso sta tutto nell’immaginario: quello di un vasetto di yogurt rimasto intatto per quasi vent’anni, ora al centro di un incidente probatorio. Un oggetto banale, che però rischia di trasformarsi in un simbolo. Quello di una verità rimasta a lungo chiusa, come quel coperchio ancora sigillato.

    Il Fruttolo era stato trovato nella villetta di via Pascoli, dove Chiara fu uccisa la mattina del 13 agosto 2007. È uno dei reperti su cui, su disposizione del gip di Pavia Daniela Garlaschelli, si stanno ora concentrando gli accertamenti irripetibili, affidati ai periti Denise Albani e Domenico Marchigiani. La loro analisi potrebbe stabilire se su quell’oggetto si celino davvero tracce biologiche significative. E se tra queste, ipotesi al momento non dimostrata, possa esserci anche il DNA di Andrea Sempio.

    Sempio, amico del fratello di Chiara e frequentatore della casa, è stato iscritto nel registro degli indagati dopo che una nuova consulenza genetica, voluta dalla difesa Stasi, aveva evidenziato un’impronta palmare compatibile con la sua mano. Un dato già noto, ma oggi rivalutato alla luce di un’impostazione investigativa completamente diversa: quella del possibile concorso in omicidio.

    Per Lovati, questa ricostruzione non regge. E lo dice senza mezzi termini: “C’era una sola persona sulla scena. Oggi si parla di concorso solo perché era l’unico modo per riaprire il caso. Ma il processo a Stasi non si può rifare”. E allora l’incubo, il Fruttolo, il sogno. Che diventa racconto televisivo e insieme metafora di un dubbio che continua a mordere.

    Secondo il legale, la pista alternativa porterebbe non a un nuovo colpevole isolato, ma a una rete di segreti. «Chiara – ha detto – potrebbe aver scoperto qualcosa di molto grave. E potrebbe essere stata uccisa non da Stasi, ma da qualcuno che lui conosceva. Un sicario, forse. E Stasi, per paura o per ricatto, potrebbe aver coperto quella verità».

    Una teoria che ribalta completamente la narrazione ufficiale. E che, finora, non ha trovato riscontro nei fascicoli processuali. Ma in un momento in cui l’intero castello probatorio viene rimesso in discussione, anche il racconto di un sogno ha il potere di insinuarsi nel dibattito pubblico. Come una crepa. Come un’allusione.

    Intanto la giustizia va avanti. Il 12 giugno, nella caserma dei carabinieri di via Moscova a Milano, i reperti sono stati ufficialmente consegnati ai periti, alla presenza di tutti i consulenti delle parti. Tra loro anche Luciano Garofano e Marzio Capra, incaricati dalla famiglia Poggi. Il 17 giugno è fissata l’apertura dei sigilli e l’inizio degli esami scientifici. Quelli veri. Quelli che non parlano per immagini oniriche, ma per sequenze genetiche.

    Eppure, in attesa di quei risultati, il Fruttolo resta lì. Ancora chiuso. Ancora innocente. In bilico tra scienza e suggestione. In attesa di dire la sua.

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      Cronaca Nera

      “Corona aveva rapporti con i clan”: le rivelazioni del pentito William Alfonso Cerbo, detto “Scarface”

      William Alfonso Cerbo, 43 anni, ex collettore economico del clan Mazzei di Catania, ha raccontato ai pm della Dda di Milano che Fabrizio Corona “si rivolgeva a Gaetano Cantarella quando aveva problemi su Milano”. Tra i ricordi, una richiesta di “recupero di 70mila euro a Palermo” e una cena con Lele Mora legata all’Ortomercato.

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        Il pentito William Alfonso Cerbo, detto “Scarface”, ha chiamato in causa Fabrizio Corona nel corso del maxi processo “Hydra” sulla presunta alleanza tra Cosa Nostra, ’ndrangheta e camorra in Lombardia. Davanti ai pm della Dda di Milano Alessandra Cerreti e Rosario Ferracane, Cerbo ha raccontato di essere stato “collettore economico a Milano del clan Mazzei di Catania” e di aver avuto contatti diretti con il mondo dello spettacolo.

        Secondo quanto emerge dai verbali, l’ex re dei paparazzi “si rivolgeva a Gaetano Cantarella, storico affiliato al clan Mazzei, quando aveva problemi su Milano o per un recupero credito di 70mila euro a Palermo legato a una truffa subita da un suo amico”. Cerbo ha anche ricordato che “Corona e Cecilia Rodriguez vennero nella mia discoteca a Catania”, sottolineando come Cantarella avesse rapporti con “diversi personaggi dello spettacolo”.

        Nel corso dei sei interrogatori, tra settembre e ottobre, Cerbo – oggi 43enne – ha ammesso la propria “partecipazione al reato associativo” e depositato una memoria di 27 pagine in cui elenca i punti della sua collaborazione con la giustizia. Tra questi, la scomparsa di Cantarella, ucciso nel 2020 in un episodio di lupara bianca su cui indagano i magistrati milanesi.

        In un altro capitolo della memoria, Cerbo parla anche di Lele Mora. “Una domenica sera andammo a cena a casa di Lele Mora a discutere di affari all’Ortomercato”, ha raccontato. “Voleva sapere che tipo di frutta avrei potuto fornire, le quantità e i prezzi. Mi disse di avere rapporti stretti con il presidente della Sogemi e che sarei potuto essere utile grazie ai miei prezzi”.

        Cerbo sostiene di aver inviato all’ex agente dei vip “il package della frutta in arrivo”, che Mora avrebbe poi girato a contatti all’interno del mercato ortofrutticolo milanese.

        L’inchiesta “Hydra” coordinata dalla Dda di Milano mira a ricostruire le connessioni economiche e criminali tra le principali organizzazioni mafiose in Lombardia. E le parole di “Scarface” – tra imprenditori, personaggi televisivi e affari illeciti – aggiungono un tassello inquietante alla trama di rapporti tra mondi apparentemente lontani.

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          Cronaca Nera

          Il mistero del guanto scomparso nel delitto Mattarella: arrestato un ex funzionario per depistaggio

          Era una delle prove più importanti dell’inchiesta sull’omicidio dell’ex presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella. Ma quel guanto, repertato nel 1980 e mai più ritrovato, è ora al centro di un presunto depistaggio. Arrestato l’ex funzionario di polizia Filippo Piritore, presente al sopralluogo.

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            Un guanto di pelle marrone, da mano destra, ritrovato davanti al sedile passeggero della Fiat 127 usata dai killer di Piersanti Mattarella. È questo il dettaglio che, a 45 anni di distanza, riaccende i riflettori su uno dei delitti più oscuri della storia repubblicana. Secondo la procura di Palermo, quel guanto sarebbe stato fatto sparire da un ex funzionario della Squadra Mobile, Filippo Piritore, arrestato con l’accusa di depistaggio.

            La presenza di Piritore sulla scena è attestata da una fotografia della Scientifica scattata durante il sopralluogo, subito dopo il ritrovamento dell’auto utilizzata per la fuga. Secondo la prassi, l’indumento avrebbe dovuto essere repertato e sottoposto ad analisi, ma ciò non avvenne.

            E qui inizia la zona d’ombra. Il giorno successivo, il 7 gennaio 1980, Piritore — già in possesso degli oggetti trovati sulla vettura — attribuì al guanto una “destinazione diversa” rispetto al resto del materiale, che venne invece riconsegnato al proprietario della macchina.

            Dalla documentazione rinvenuta oggi dalla Squadra Mobile emerge che l’ex funzionario avrebbe inviato il guanto all’allora sostituto procuratore Pietro Grasso, titolare delle indagini, tramite un agente della Scientifica. Una procedura anomala, secondo i magistrati, perché un reperto di quel tipo avrebbe dovuto restare agli esperti della polizia tecnica per le analisi balistiche e biologiche.

            “La prassi adottata presenta diverse preoccupanti stranezze”, sottolineano i pm palermitani. Non solo il guanto è sparito, ma non esiste traccia di alcun verbale di consegna o ricevuta firmata dal magistrato o dal suo ufficio.

            Per gli inquirenti, quella mancata registrazione rappresenta un passaggio cruciale in un possibile depistaggio volto a cancellare elementi utili per risalire agli autori materiali e ai mandanti del delitto. E quel piccolo oggetto di pelle scura, svanito nel nulla, torna oggi a pesare come un simbolo della verità mancata.

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              Cronaca Nera

              Pamela Genini: il sangue di Milano. Red flag, segnali d’allarme e come intervenire prima che sia troppo tardi

              L’omicidio della 29enne modella e imprenditrice ha riaperto il dibattito sui segnali che precedono un femminicidio. Ecco i “campanelli” che non vanno ignorati e cosa fare per proteggersi.

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              Pamela Genini

                La morte di Pamela Genini, uccisa giovedì sera 14 ottobre nella sua casa a Milano da un uomo che avrebbe cercato di strapparle la vita dopo una discussione degenerata, ha scioccato l’opinione pubblica. I primi elementi, ricostruiti da Sky TG24, da Il Fatto Quotidiano e da altri quotidiani nazionali, riportano che Pamela aveva manifestato la volontà di interrompere la relazione. ‒ L’aggressore, Gianluca Soncin, 52 anni, avrebbe approfittato dell’accesso all’appartamento per poi trascinarla sul balcone e colpirla più volte con un coltello. I vicini hanno sentito le urla e hanno chiamato le forze dell’ordine.

                Dietro questa tragedia ci sono segnali già emersi nel passato, che sono spesso ignorati finché non è troppo tardi. Come in molti casi di femminicidio, esistono red flag ‒ segnali d’allarme ‒ che, se riconosciuti, possono permettere un intervento precoce. Ecco quali sono, da cosa derivano e cosa si può fare per prevenirli.

                I red flag: segnali che non vanno sottovalutati

                Dai fatti noti su Pamela Genini emergono alcuni di questi indicatori:

                • Volontà di porre fine alla relazione: quando una persona manifesta la decisione di lasciare o distaccarsi, può generare crisi violente se l’altro non accetta la fine. Nel caso di Genini, la volontà di chiudere era chiara.
                • Precedenti litigi, minacce o aggressioni: fonti indicano che la relazione era già nota per tensioni. I vicini avevano sentito urla, e alcune segnalazioni precedenti avevano allarmato.
                • Stalking o controllo ossessivo: possesso di chiavi copiate (come emerso nel caso di Soncin che avrebbe fatto copie della chiave di nascosto) è un segno di comportamento coercitivo e invasivo dello spazio personale.
                • Violenza improvvisa o escalation rapida: l’aggressione sul balcone, la modalità con cui l’omicidio è avvenuto (trascinamento, uso di coltello multiplo) dimostrano una escalation non moderata.

                Altri segnali più sottili che spesso precedono la violenza sono: isolamento sociale, svalutazione o umiliazioni, gelosia eccessiva, controllo degli spostamenti, delle relazioni con amici/famiglia, frequenti richieste di spiegazioni, comportamento imprevedibile.

                Perché alcuni red flag vengono ignorati

                Ci sono varie ragioni:

                • Minimizzazione: la persona affetta da violenza può credere che “non è così grave”, che passerà, che l’altro cambierà.
                • Vergogna o senso di colpa: chi subisce può sentire che è colpa sua, o che denuncia significherebbe fallimento personale.
                • Dipendenza economica o emotiva: il temere le conseguenze della fine della relazione (isolamento, perdita, solitudine).
                • Scarsa conoscenza dei diritti o delle risorse disponibili.

                Cosa fare concretamente: prevenire, proteggere, intervenire

                1. Ascoltare le persone in difficoltà: quando qualcuno parla di paura, di momenti in cui si sente in pericolo, non liquidare il racconto come semplice “drama”.
                2. Segnalare alle autorità competenti: polizia, carabinieri, numero antiviolenza nazionale 1522. Centri antiviolenza, associazioni come Di.Re sono risorse fondamentali.
                3. Mettere in sicurezza: cambiare luoghi, rafforzare porte, evitare di restare da sola in situazioni di rischio.
                4. Cercare sostegno psicologico: la violenza psicologica è spesso precoce e invisibile. Un esperto può aiutare a riconoscere manipolazione e comportamenti abusanti.
                5. Educazione affettiva: insegnare sin da giovani cosa siano il rispetto, i confini, il consenso. Le scuole e le istituzioni hanno un ruolo cruciale nel costruire modelli relazionali sani.

                La riflessione a partire dal caso Genini

                La tragedia di Pamela Genini deve spingere non solo all’indignazione ma all’azione concreta. È un promemoria che il femminicidio non è mai un evento isolato, ma l’esito estrema di una serie di segnali ignorati. Secondo dati recenti in Italia, il numero di donne uccise da partner o ex‐partner è in aumento rispetto ai periodi precedenti, con circa più di 50 casi già nel 2025.

                Non basta la cronaca, se poi non cambiano le misure: rafforzamento delle leggi, più centri antiviolenza accessibili, formazione delle forze dell’ordine, sensibilizzazione dei medici, insegnanti, amici, parenti.

                Il femminicidio di Pamela Genini è una ferita che scuote la coscienza collettiva. Ma è anche un campanello d’allarme per chiunque: i red flag esistono, sono visibili a chi vuole vedere. Non possiamo più permetterci di ignorarli. Ogni segnale va preso sul serio, ogni vittima potenzialmente salvata merita che qualcuno l’ascolti, che qualcuno intervenga.

                Perché spesso chi salva una persona è chi osa chiedere: “Stai bene? Hai bisogno d’aiuto?”. Chiedere può davvero fare la differenza.

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