Mondo
Pentagon Pizza, la pizzeria preferita dai complottisti (e non solo)
Altro che CIA: il vero barometro geopolitico è la pizza del Pentagono. E ogni morso potrebbe nascondere l’inizio dell’Apocalisse.

Chi ha detto che per prevedere l’inizio di una guerra servono briefing segreti, satelliti a infrarossi o gole profonde del Mossad? A quanto pare, basta un rider in ritardo e un paio di margherite con l’extra formaggio consegnate troppo in fretta a una base militare. Il mondo sta cambiando e anche l’intelligence si adegua: benvenuti nell’era del Pentagon Pizza Index.
Secondo questa teoria (squisitamente assurda, irresistibilmente americana), quando nei locali intorno al Pentagono aumentano le consegne di pizza, allora sta per succedere qualcosa di grosso. Di molto grosso. Tipo un attacco militare. O peggio: un’intervista di Trump.
Il picco più recente? La notte tra il 12 e il 13 giugno, proprio mentre Israele lanciava un raid chirurgico contro alcuni impianti in Iran. Coincidenza? Forse. Ma su X (ex Twitter), l’account “Pentagon Pizza Report” suonava già la sirena: boom di consegne segnalate da Google Maps in almeno quattro pizzerie vicine al quartier generale della Difesa USA. I nomi? We, The Pizza, Domino’s, District Pizza Palace e Extreme Pizza. Altro che Five Eyes: qui basta uno smartphone e un po’ di salsa di pomodoro.
Niente fake news, ci tengono a precisare gli autori del report: tutto rigorosamente open source. Nessun agente segreto, solo rider, scontrini digitali e mappe online. E se l’intelligence ufficiale ignora, l’intelligenza della pizza non perdona.
Il Pentagono ha provato a smentire, con un portavoce che ha balbettato qualcosa del tipo: “Abbiamo sushi, panini, caffè… non c’è bisogno di ordinare da fuori”. Ma ormai era troppo tardi. Il popolo della rete ha deciso: la pizza è l’oracolo del XXI secolo.
Questa teoria non nasce oggi. Le sue radici affondano nella Guerra Fredda, quando – si racconta – gli agenti sovietici notarono che nei momenti di crisi aumentavano le consegne ai palazzi del potere. Ma la vera consacrazione arriva il 1° agosto 1990, quando il leggendario pizzaiolo Frank Meeks riceve un’ordinazione della CIA: 21 pizze in una notte. Il giorno dopo Saddam invade il Kuwait. E boom, Guerra del Golfo. Da lì in poi, ogni pizza diventa un dispaccio segreto col pomodoro.
Nel 1998 il Washington Post lo incorona “storico della pizza non ufficiale della capitale” dopo aver rivelato che durante l’impeachment di Clinton, Capitol Hill si era fatto consegnare pizze per 11.600 dollari. Avete presente il Watergate? Spiccioli, al confronto.
Oggi, il data journalist dell’Economist, Alex Selby-Boothroyd, lo ha definito senza mezzi termini uno strumento “sorprendentemente affidabile”. Ha pure scritto: “Chi dice che i grafici a torta non servono a niente?”. E come dargli torto.
Certo, il sistema non è perfetto. Un picco nelle ordinazioni potrebbe anche essere colpa di una riunione troppo lunga, di un crash ai software del Pentagono o – orrore supremo – della macchinetta del caffè guasta. Ma nell’epoca dell’OSINT da divano, anche questi dettagli contano. Soprattutto se si incrociano con dati elettrici anomali, voli militari non tracciati e improvvisi blackout nei corridoi del potere.
La morale? Come diceva il cronista Wolf Blitzer nel 1990: “Giornalisti, controllate sempre le pizze”. Perché oggi la pace nel mondo potrebbe dipendere non da un negoziato, ma da una pepperoni extra large. E se al Pentagono chiamano la pizzeria due volte di fila… forse è già troppo tardi. Meglio correre ai ripari. Con una pizza sottobraccio e il passaporto pronto.
Nel dubbio, controllate Deliveroo. Se c’è coda davanti alla Comet Ping Pong… fate scorte.
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Mondo
“Le donne non dovrebbero votare”: il delirio sessista rilanciato da Pete Hegseth, il capo del Pentagono
Il leader del Pentagono posta un servizio sulla chiesa di Doug Wilson, dove si predica che il voto alle donne sia un errore. E aggiunge il motto “Tutto Cristo per tutta la vita”.

Nel 2025, negli Stati Uniti, c’è ancora chi sogna di togliere il diritto di voto alle donne. E non parliamo di un oscuro predicatore relegato in un canale YouTube da quattro follower, ma del capo del Pentagono. Pete Hegseth ha infatti condiviso sui suoi social un video su una chiesa nazionalista cristiana in cui diversi pastori dichiarano, senza imbarazzo, che le donne non dovrebbero più votare.
Il filmato è un servizio della Cnn sulla comunità fondata da Doug Wilson, leader della Comunione delle Chiese Evangeliche Riformate. Nelle interviste, alcuni pastori spiegano la loro “teoria”: il suffragio femminile sarebbe un errore storico e, in un “mondo ideale”, le persone dovrebbero votare “come famiglie”, con una sola voce per nucleo domestico. Tradotto: a decidere è l’uomo di casa.
A rendere la vicenda ancora più inquietante è il commento di Hegseth: “Tutto Cristo per tutta la vita”, motto che, in questo contesto, suona come un endorsement alle posizioni dei pastori. Nessuna presa di distanza, nessun chiarimento: solo la condivisione di un’idea che ribalta oltre un secolo di diritti civili.
La chiesa di Wilson non è nuova a derive ultraconservatrici, ma che a rilanciarne i contenuti sia il massimo vertice militare americano solleva più di un interrogativo. Sul piano simbolico, è un messaggio devastante: se a pronunciare certe frasi fosse stato un privato cittadino, sarebbe già abbastanza grave. Che lo faccia chi guida il Pentagono, in un Paese che si proclama faro della democrazia, sfiora il paradosso.
Il suffragio femminile negli Stati Uniti è legge federale dal 1920, frutto di decenni di battaglie e sacrifici. Vederlo trattato come un fastidio da cancellare, e per di più da figure di potere, non è “opinione religiosa”: è nostalgia di un passato maschilista in cui metà della popolazione doveva tacere e obbedire.
Mondo
Studiare negli Stati Uniti? Ora serve anche il “visto social”
Controlli sui profili online, appuntamenti bloccati e incertezza diplomatica: ecco cosa devono sapere gli studenti italiani che sognano l’America.

Studiare negli Stati Uniti è sempre stato un sogno per migliaia di studenti italiani, ma oggi quel sogno passa anche da un nuovo checkpoint: i social network. Dal 18 giugno 2025, il Dipartimento di Stato americano ha introdotto una misura che impone a tutti i richiedenti di rendere pubblici i propri profili social. Post, commenti, like e condivisioni saranno passati al setaccio dai funzionari consolari. Obiettivo: individuare eventuali “segnali di ostilità” verso gli Stati Uniti, la loro cultura o le istituzioni.
Consolati in attesa di nuovi ordini
La misura riguarda tutti i visti legati all’istruzione e agli scambi culturali: F1 per studenti universitari, J1 per liceali e programmi di scambio, M1 per formazione professionale. E non si tratta solo di nuove richieste: anche i rinnovi saranno soggetti a questo screening digitale. Il problema? Al momento non è ancora possibile fissare nuovi appuntamenti nei consolati americani in Italia. La procedura è stata riattivata “sulla carta”, ma nei fatti resta bloccata, lasciando migliaia di studenti, ricercatori e professori in un limbo burocratico. Le critiche non si sono fatte attendere. L’American Council on Education e NAFSA hanno espresso timori sull’impatto dissuasivo della misura. Sottolineano il rischio di un calo significativo nelle iscrizioni internazionali, già segnate da oltre 1.800 revoche di visto per motivi politici o ideologici.
Organizzazioni come ACLU e Human Rights Watch parlano di un “effetto gelido” sulla libertà di espressione, mentre il mondo accademico teme un crollo delle iscrizioni internazionali. Il rischio è che il visto diventi un test politico, soprattutto per chi ha espresso opinioni critiche, ad esempio in merito al conflitto israelo-palestinese.
Cosa fare, allora, se si vuole studiare negli USA?
Pulizia digitale. Rivedere i propri profili social, impostare la privacy su “pubblico” come richiesto, ma con attenzione a contenuti potenzialmente controversi. Avere sempre la documentazione pronta. Preparare con largo anticipo tutti i documenti richiesti, inclusi quelli accademici e finanziari. Monitorare i canali ufficiali come ambasciate e consolati che pubblicano aggiornamenti sulle disponibilità degli appuntamenti. Magari valutare alternative agli Stati Uniti. In caso di ritardi prolungati, considerare programmi in altri Paesi anglofoni o posticipare l’esperienza. Insomma studiare negli Stati Uniti è ancora possibile, ma occorre munirsi di più pazienza, più trasparenza e più consapevolezza digitale. Il sogno americano passa anche da un feed Instagram e ogni like potrebbe fare la differenza.
Mondo
Tom Hanks: “Buon viaggio tra le stelle”. Addio a Jim Lovell, il comandante di Apollo 13.
Messaggi di cordoglio da Tom Hanks, Ron Howard e dalla NASA per uno dei volti più amati dell’esplorazione spaziale.

Il mondo dello spazio e del cinema piange la scomparsa di Jim Lovell, leggendario comandante della missione Apollo 13, morto 8 agosto all’età di 97 anni. Pilota della Marina statunitense, veterano delle missioni Gemini e Apollo. Lovell è entrato nella storia per la sua capacità di mantenere lucidità e determinazione durante la crisi del 1970, quando un’esplosione a bordo della navicella mise a rischio la vita dell’equipaggio.
Tom Hanks, che lo interpretò nell’omonimo film del 1995 diretto da Ron Howard, ha condiviso sui social un toccante ricordo. «Ci sono persone che osano, che sognano e che guidano gli altri verso luoghi dove non andremmo mai da soli. Jim Lovell era una di quelle persone». L’attore ha sottolineato come le missioni di Lovell non fossero motivate dalla fama o dal denaro, ma dalla sete di scoperta. «In questa notte di luna piena – ha aggiunto – se ne va verso il cielo, verso il cosmo, verso le stelle. Buon viaggio, Jim Lovell, in questo tuo prossimo viaggio».
Anche Ron Howard ha voluto rendere omaggio all’astronauta, definendolo «una delle persone più straordinarie che abbia mai incontrato». Il regista ha ricordato come Lovell avesse collaborato attivamente alla produzione del film. Offrendo dettagli e suggerimenti per garantire il massimo realismo nel racconto della missione.
Il produttore Brian Grazer lo ha definito «un vero eroe americano», mentre la NASA ha espresso gratitudine per il suo contributo alla storia dell’esplorazione spaziale. L’agenzia ha ricordato come, grazie alla sua leadership, quella che poteva trasformarsi in una tragedia divenne un esempio di gestione delle emergenze e cooperazione scientifica.
Il film Apollo 13, con Tom Hanks, Bill Paxton e Kevin Bacon, vinse due premi Oscar e rese immortale la vicenda, anche grazie alla celebre battuta “Houston, abbiamo un problema”. Oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, la storia di Jim Lovell continua a ispirare astronauti, ingegneri e sognatori di ogni età.
La sua eredità non si limita alle missioni spaziali: è il simbolo di come il coraggio e la calma possano trasformare l’imprevisto in un capitolo di storia, e il rischio in una nuova occasione per guardare oltre l’orizzonte.
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