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Il ghosting ferisce più di un addio: lo conferma la scienza

Il ghosting, ormai diffuso nelle relazioni sentimentali e di amicizia, provoca un dolore più duraturo e complesso rispetto a una separazione esplicita. Ecco perché lascia ferite profonde nella psiche di chi lo subisce.

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    Non è solo una sensazione: il ghosting, quella pratica sempre più comune di interrompere ogni comunicazione senza spiegazioni, fa realmente più male di un addio detto in faccia. A dirlo è una nuova ricerca scientifica intitolata The Phantom Pain of Ghosting: Multi-day experiments comparing the reactions to ghosting and rejection, la prima a esaminare in tempo reale gli effetti psicologici del fenomeno.

    Finora gli studi sul ghosting si basavano principalmente su testimonianze o ricordi retrospettivi, ma questa nuova indagine — condotta da un team di psicologi e ricercatori internazionali — ha seguito giorno per giorno le emozioni dei partecipanti, restituendo una fotografia più realistica e precisa del suo impatto emotivo.

    Nel dettaglio, i volontari hanno partecipato a brevi conversazioni quotidiane via chat con un interlocutore (in realtà un collaboratore dello studio). Monitorando costantemente il proprio stato d’animo attraverso questionari giornalieri. A un certo punto dell’esperimento, alcuni partecipanti sono stati improvvisamente ignorati — simulando quindi un episodio di ghosting —, altri hanno ricevuto invece un messaggio di rifiuto chiaro e diretto, mentre un terzo gruppo ha continuato la conversazione normalmente.

    I risultati sono stati sorprendenti. Il ghosting si è rivelato più doloroso e prolungato nel tempo rispetto al rifiuto esplicito. Se quest’ultimo genera una reazione emotiva più intensa ma di breve durata. L’assenza totale di spiegazioni lascia le persone in una condizione di incertezza persistente, fatta di domande senza risposta, dubbi e senso di colpa.

    “La differenza principale – spiega la ricercatrice Alessia Telari, una delle autrici dello studio – è che il ghosting priva la persona della possibilità di chiudere emotivamente la relazione. Entrambe le esperienze mettono in crisi bisogni psicologici fondamentali, come la connessione e l’autostima, ma il silenzio lascia sospesi, impedendo la guarigione.”

    I ricercatori hanno osservato che le persone “ghostate” continuano per giorni a rimuginare sull’accaduto, cercando di dare un senso al silenzio dell’altro. Questo prolungamento dell’incertezza mantiene alto il livello di stress e può incidere negativamente sull’umore, sull’autostima e persino sulla capacità di fidarsi di nuovi partner o amici.

    Un altro aspetto emerso riguarda la percezione morale. Chi subisce il ghosting tende a considerare l’altra persona meno empatica e meno corretta. Mentre chi riceve un rifiuto diretto, pur soffrendo, riconosce più facilmente il rispetto implicito nella sincerità. In altre parole, la franchezza, anche quando fa male, è preferibile all’indifferenza.

    “I dati dimostrano che anche nelle relazioni superficiali la comunicazione conta,” conclude Telari. “Saper gestire la chiusura, anche in ambito digitale, ci rende più consapevoli e rispettosi. Parlare, spiegare e assumersi la responsabilità di dire ‘non voglio continuare’ è un atto di maturità che può evitare molto dolore inutile.”

    Nel mondo iperconnesso dei social e delle app di dating, dove ogni rapporto sembra effimero e sostituibile, il ghosting è diventato quasi una norma. Ma questa ricerca scientifica ricorda che dietro a ogni silenzio c’è una persona reale, con emozioni vere.

    Perciò, la prossima volta che ci si sente tentati di “sparire”, forse vale la pena ricordare che un messaggio di addio. Per quanto difficile da scrivere, può fare meno male di un silenzio che non finisce mai.

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      Curiosità

      “Dolcetto o scherzetto?” – La vera storia dietro la tradizione di Halloween

      Da rito celtico a festa globale, il viaggio secolare di una delle usanze più amate (e fraintese) del 31 ottobre

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      Halloween

        “Dolcetto o scherzetto?” È la frase che ogni anno, la notte del 31 ottobre, risuona nei quartieri di mezzo mondo. Bambini travestiti da streghe, fantasmi e supereroi vanno di casa in casa alla ricerca di caramelle, in una delle tradizioni più riconoscibili di Halloween. Ma da dove nasce davvero questa usanza? E come si è trasformata da rito pagano a fenomeno globale di costume?

        Le origini: Samhain, la notte in cui il velo si assottiglia

        Tutto inizia molto prima della comparsa di zucche e costumi, nell’antica Irlanda celtica, oltre duemila anni fa. I druidi celebravano Samhain, il capodanno celtico che segnava la fine dell’estate e l’inizio della stagione oscura. Si credeva che, in quella notte, il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti si assottigliasse, permettendo agli spiriti di tornare sulla terra.
        Per tenere lontane le anime maligne, le persone accendevano fuochi sacri, lasciavano offerte di cibo davanti alle porte e indossavano maschere spaventose per confondere gli spiriti.

        Dalla superstizione alla religione

        Con l’avvento del cristianesimo, la Chiesa cercò di sostituire le antiche feste pagane con ricorrenze religiose: così, nel IX secolo, il 1° novembre divenne la festa di Ognissanti (All Hallows’ Day) e la notte precedente “All Hallows’ Eve”, da cui deriva il nome Halloween.
        La pratica di lasciare offerte ai defunti sopravvisse, ma si trasformò gradualmente: i poveri andavano di casa in casa chiedendo “soul cakes”, piccoli dolci in cambio di preghiere per le anime dei defunti. Era una sorta di “proto-trick or treat”, diffusa soprattutto in Inghilterra e Irlanda.

        L’approdo in America e la nascita del “trick or treat”

        Furono gli immigrati irlandesi e scozzesi, nell’Ottocento, a portare la tradizione di Halloween negli Stati Uniti. Qui, le usanze europee si fusero con la cultura americana, trasformandosi in un’occasione festosa più che spirituale.
        Nel primo Novecento, il “trick or treat” (letteralmente “scherzetto o dolcetto”) cominciò a comparire nei giornali e nelle scuole come modo per tenere i giovani lontani dai vandalismi tipici di quella notte. La frase minacciava scherzi in caso di rifiuto, ma divenne presto un gioco innocente e comunitario, consolidandosi dopo la Seconda guerra mondiale, quando lo zucchero tornò disponibile e i dolci divennero parte integrante della festa.

        Dalla zucca alle vetrine globali

        La Jack O’ Lantern, la zucca intagliata con un volto e illuminata da una candela, arriva sempre dall’Irlanda, dove si usavano inizialmente rape o barbabietole. La leggenda di Jack, l’avaro che ingannò il diavolo e fu condannato a vagare con una lanterna fatta di ortaggio, divenne il simbolo della notte più spettrale dell’anno. Negli Stati Uniti, le zucche arancioni, più grandi e facili da scavare, presero il suo posto e contribuirono a definire l’immaginario di Halloween.

        Halloween oggi: tra folklore e consumismo

        Oggi Halloween è una festa globale, celebrata in oltre 30 Paesi e con un impatto economico miliardario. Solo negli Stati Uniti, nel 2024, si sono spesi più di 12 miliardi di dollari in costumi, decorazioni e dolciumi, secondo la National Retail Federation.
        Anche in Italia la tradizione ha preso piede, soprattutto tra i più giovani, diventando un mix di folklore anglosassone e creatività locale. Nonostante alcune critiche legate alla commercializzazione, resta un’occasione per condividere divertimento, fantasia e — perché no — un pizzico di paura.

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          Cucina

          Tartellette dolci di zucca di Jack O’Lantern

          Dalla vecchia storia irlandese del furbo Jack, condannato a vagare per l’eternità con una zucca illuminata, nasce una ricetta che trasforma l’orrore in dolcezza. Le tartellette alla zucca e nocciola reinterpretano la leggenda di Halloween in chiave golosa e naturale.

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          Tartellette dolci di zucca

            Ogni leggenda ha un modo tutto suo di tornare alla luce. Quella di Jack O’Lantern, il personaggio simbolo di Halloween, è antica di secoli ma continua a rivivere ogni autunno tra zucche intagliate, candele tremolanti e racconti che fanno sorridere più che tremare. Quest’anno, però, qualcuno ha deciso di darle un finale diverso: non più paura e fiamme infernali, ma bontà e profumo di nocciole.

            L’idea nasce da una reinterpretazione culinaria del mito: le tartellette dolci di Jack O’Lantern, piccole opere di pasticceria che uniscono la tradizione anglosassone alla creatività italiana. Realizzate senza uova, senza coloranti e con decorazioni completamente naturali, queste tartellette sono una coccola autunnale per grandi e piccoli.

            La leggenda dietro la zucca illuminata

            La storia narra che, molti anni fa, un uomo irlandese di nome Jack, noto per la sua avarizia e il vizio del bere, riuscì a ingannare il diavolo in persona, costringendolo a promettergli di non reclamare mai la sua anima. Alla sua morte, però, il paradiso lo rifiutò e l’inferno mantenne la promessa: Jack rimase così a vagare tra i mondi, con un tizzone ardente racchiuso in una rapa scavata — poi diventata la zucca che oggi tutti conosciamo.

            Quel fuoco, simbolo della sua eterna pena, è oggi la fiamma di Halloween, che illumina la notte del 31 ottobre. E se nella leggenda Jack spaventava i vivi, in cucina ora li conquista con un dolce dal cuore tenero: una crema vellutata di latte condensato e zucca profumata allo zenzero e cannella, racchiusa in un guscio di frolla alla nocciola friabile e dorata.

            Halloween tra gusto, natura e creatività

            Queste tartellette dimostrano che anche una festa come Halloween, spesso associata a eccessi di zucchero e decorazioni sintetiche, può diventare un’occasione per riscoprire ingredienti autentici e stagionali. La zucca, regina dell’autunno, si trasforma in un simbolo di rinascita: da strumento di paura a icona di dolcezza.

            In un periodo in cui la cucina sostenibile è sempre più importante, le Sweet Jack O’Lantern Tartlets sono la prova che si può festeggiare rispettando la natura, senza rinunciare al gusto e alla fantasia.

            E così, nella notte più spaventosa dell’anno, anche il vecchio Jack può finalmente sorridere: non più maledetto, ma celebrato con una forchettata di dolcezza.

            Ingredienti per 7 tartellette (diametro 10–12 cm)

            Base e copertura

            • 2 rotoli di pasta frolla pronta (circa 500 g in totale)
            • Farina di nocciole → 2 cucchiai (per arricchire il sapore, opzionale)
            • Burro fuso → 1 cucchiaio (per spennellare gli stampi)

            Per la crema di zucca

            • Zucca pulita → 450 g
            • Latte condensato → 170 g
            • Cannella in polvere → 1 g (¼ cucchiaino)
            • Zenzero in polvere → 1 g (¼ cucchiaino)
            • Sale fino → 1 pizzico

            Per decorare

            • Cannella in stecche → 1 (per frammenti decorativi)
            • Foglioline di menta fresca → q.b.
            • Zucchero a velo (facoltativo) → q.b.

            Preparazione passo per passo

            Prepara la crema di zucca

            1. Taglia la zucca a cubetti e mettila in una casseruola con:
              • 170 g di latte condensato,
              • 1 g di cannella,
              • 1 g di zenzero,
              • un pizzico di sale.
            2. Cuoci a fuoco medio per 20 minuti, mescolando spesso, finché la zucca diventa morbida e la crema inizia ad addensarsi. Frulla tutto con un mixer a immersione fino a ottenere una crema liscia e densa. Lascia raffreddare completamente.

            Prepara le basi

            Srotola un rotolo di pasta frolla pronta e spolvera sopra un po’ di farina di nocciole (opzionale, per un gusto più aromatico). Ritaglia 7 dischi da circa 12 cm di diametro. Imburra leggermente gli stampi per tartellette (oppure usa pirottini in alluminio usa e getta) e fodera con i dischi di frolla. Bucherella il fondo con una forchetta, copri con un pezzetto di carta forno e riempi con legumi secchi o sfere di ceramica. Cuoci in forno statico preriscaldato a 180°C per 15 minuti. Rimuovi i pesi e la carta, poi prosegui la cottura per altri 5 minuti, finché le basi diventano dorate. Lasciale raffreddare su una gratella.

            Crea i “volti” di Jack O’Lantern

            Usa il secondo rotolo di frolla per ritagliare altri 7 dischi da 8 cm. Con un coltellino affilato o un tagliabiscotti, intaglia occhi triangolari e bocche sorridenti. Disponi i dischi su una teglia con carta forno e cuoci a 180°C per 12–15 minuti, finché diventano leggermente dorati. Lasciali raffreddare completamente: saranno i “coperchi” delle tartellette.

            Assembla le tartellette

            Versa in ogni guscio di frolla 1–2 cucchiai di crema di zucca. Appoggia sopra il “viso” di Jack e premi leggermente sui bordi per farlo aderire. Decora con: una fogliolina di menta come “picciolo”, un frammento di cannella per effetto rustico (Facoltativo) Spolvera con zucchero a velo per un tocco finale.

            Conservazione

            Si conservano in frigorifero per 2–3 giorni, ben chiuse in un contenitore ermetico. La crema può essere preparata il giorno prima e conservata in frigo. Servile a temperatura ambiente o leggermente fredde. Se vuoi un aroma più intenso, aggiungi una punta di pasta di nocciole o estratto di vaniglia alla crema di zucca. Per una versione più leggera, sostituisci metà latte condensato con yogurt greco.

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              Lifestyle

              “Lavorare 9-9-6”: il nuovo mantra delle start-up tech. Ma può davvero funzionare in Europa?

              Dalla Cina alla Silicon Valley, la filosofia del lavoro estremo — dalle 9 del mattino alle 9 di sera per sei giorni a settimana — sta diventando un simbolo di ambizione (e di stress).

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              Lavorare 9-9-6

                Nei moderni uffici di San Francisco, dove le start-up di intelligenza artificiale lavorano a ritmi vertiginosi, il tempo sembra essersi dilatato. Non esiste “fine giornata” quando si segue la regola del 9-9-6: lavorare dalle nove del mattino alle nove di sera, sei giorni su sette.
                Un concetto nato in Cina negli anni 2010 — e già oggetto di dure critiche e restrizioni legali — ma che oggi sta trovando nuovi seguaci tra gli imprenditori americani più ambiziosi, soprattutto nel settore tech.

                Dal sogno cinese al mito californiano

                Il termine “9-9-6” fu coniato per descrivere la routine delle grandi aziende tecnologiche cinesi come Alibaba, Tencent e Huawei, dove turni di 72 ore settimanali erano considerati un sacrificio necessario per “cambiare il mondo”.
                Nel 2021, la Corte Suprema cinese ha dichiarato illegale imporre formalmente tali orari, dopo una serie di decessi legati al superlavoro. Tuttavia, il modello non è mai scomparso del tutto: per molti giovani sviluppatori, il 9-9-6 resta sinonimo di successo e dedizione.

                Oggi, quella mentalità ha attraversato il Pacifico. Nella Silicon Valley, patria della cultura del “lavora finché non ce la fai più”, alcune start-up stanno abbracciando il 9-9-6 come un vero e proprio stile di vita.

                Hacker house e missione totalizzante

                Secondo il Washington Post, nelle cosiddette “hacker house” di San Francisco — spazi condivisi dove i dipendenti vivono e lavorano insieme — le giornate si fondono l’una nell’altra.
                Magnus Müller, CEO della start-up di IA Browser Use, ha raccontato che “si lavora anche di notte, anche la domenica”, perché “la competizione non dorme mai”.
                Un’altra azienda, Sonatic, ha reso obbligatoria la presenza in ufficio sette giorni su sette, offrendo in cambio vitto, alloggio e persino abbonamenti ad app di incontri. “Quando tutti condividono la stessa missione”, sostiene il CEO Kinjal Nandy, “la produttività diventa una forma di fratellanza”.

                Anche realtà come Cognition o Optimal AI dichiarano apertamente di aspettarsi ritmi di lavoro “estremi”. Scott Wu, fondatore di Cognition, è diretto: “Non è per tutti. Ma chi resta sa che sta costruendo qualcosa di epico”.

                Il fascino (e i rischi) della devozione assoluta

                Secondo Carolyn Chen, sociologa dell’Università di Berkeley, il 9-9-6 è la forma moderna di una “religione del lavoro”, in cui la produttività diventa una missione quasi spirituale. “È un culto del successo,” spiega, “che premia il sacrificio e stigmatizza il riposo come segno di debolezza”.

                Ma non tutti condividono questa visione eroica. Venture capitalist come Deedy Das di Menlo Ventures ricordano che “80 ore di stress non equivalgono a 80 ore di produttività”. Studi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità mostrano che lavorare più di 55 ore settimanali aumenta del 35% il rischio di ictus e del 17% quello di malattie cardiache.

                Può funzionare in Europa?

                In Europa, dove la legislazione tutela il diritto al riposo e alla disconnessione digitale, il 9-9-6 appare incompatibile con i principi del modello sociale europeo.
                Eppure, il dibattito è aperto. Il venture capitalist britannico Harry Stebbings ha recentemente sostenuto che le start-up europee “dovranno spingersi oltre” per competere con Asia e Stati Uniti. “Chi punta a un’azienda da cento milioni può lavorare cinque giorni a settimana,” ha scritto su LinkedIn, “ma chi sogna un impero da dieci miliardi non può fermarsi mai.”

                Molti osservatori, però, mettono in guardia contro l’importazione cieca di questa cultura. “Il superlavoro di oggi diventa la crisi di produttività di domani,” afferma Sarah Wernér, cofondatrice di Husmus. “Le persone bruciate non innovano. Le migliori le trovi quando decidono di andarsene da chi li fa lavorare 996.”

                Il modello 9-9-6 promette velocità e risultati, ma spesso a scapito della salute mentale e della creatività. L’Europa, con la sua attenzione all’equilibrio tra vita e lavoro, potrebbe rappresentare non un freno, ma l’alternativa sostenibile a una cultura del successo che rischia di divorare se stessa.

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