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Benessere

Giovani e salute mentale: ansia e depressione in crescita, la diagnosi precoce può fare la differenza

Tra pandemia, crisi economiche e pressione sociale, le nuove generazioni affrontano livelli record di disagio psicologico. Gli esperti chiedono più prevenzione, interventi rapidi e un cambio di mentalità nel sistema sanitario.

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Giovani e salute mentale

    Un’emergenza silenziosa

    La salute mentale è diventata una delle sfide più urgenti del nostro tempo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre un miliardo di persone nel mondo vive con un disturbo mentale, e una su tre non riceve alcun tipo di cura. L’ansia e la depressione, in particolare, rappresentano ormai la seconda causa di disabilità di lungo termine, con costi altissimi per individui, famiglie e società.

    A destare maggiore preoccupazione sono i giovani: uno studio pubblicato su European Psychiatry rivela che il 74% dei disturbi mentali insorge entro i 24 anni, rendendo cruciale la diagnosi precoce. L’adolescenza, infatti, è il periodo in cui si manifestano i primi segnali di disagio psicologico: ansia generalizzata, disturbi dell’umore, comportamenti autolesivi o difficoltà relazionali.

    Italia, un Paese in affanno

    Il rapporto OCSE Promoting Good Mental Health in Children and Young Adults stima che oltre 700.000 giovani italiani convivano con problemi di salute mentale, con ansia e depressione ai primi posti. In Europa, circa 11,2 milioni di bambini e adolescenti tra 10 e 19 anni (pari al 13% della popolazione giovanile) soffrono di un disturbo psichico.

    La pandemia da COVID-19 ha peggiorato il quadro: secondo l’OMS, i casi di ansia e depressione sono aumentati del 25% tra il 2020 e il 2022, con un impatto maggiore sulle ragazze e sui giovani adulti. L’isolamento, la didattica a distanza e la precarietà del futuro hanno lasciato cicatrici profonde.

    Fattori di rischio e nuove vulnerabilità

    “Stiamo vivendo una tempesta perfetta di fattori stressanti — acuti e cronici — che colpiscono soprattutto i più giovani”, spiega Andrea Fiorillo, presidente della Società Italiana di Psichiatria Sociale. “Pandemia, crisi economiche, guerre e cambiamenti climatici si sommano alla perdita di reti di protezione come famiglia e scuola”.

    A tutto ciò si aggiunge l’impatto dei social network e del confronto costante con modelli irrealistici di successo e felicità, che alimentano ansia da prestazione e bassa autostima. Secondo recenti indagini, un adolescente su tre mostra segni di “dipendenza da connessione”, e uno su cinque dichiara di sentirsi “sopraffatto” dalla pressione digitale.

    Diagnosi precoce e prevenzione

    “La diagnosi precoce è fondamentale — sottolinea Bernardo Dell’Osso, docente di Psichiatria all’Università Statale di Milano — perché molti disturbi iniziano già in età scolare. A 5-6 anni possono comparire i primi segnali di ADHD o autismo, mentre tra i 13 e i 17 anni si manifestano sintomi legati ad ansia, depressione o abuso di sostanze”.

    Il problema, tuttavia, è intercettare questi segnali in tempo. Spesso sono genitori, insegnanti o psicologi scolastici i primi a notare un disagio, ma la mancanza di servizi territoriali e liste d’attesa troppo lunghe rendono difficile un intervento tempestivo.

    Una questione di equità

    Il divario nell’accesso alle cure resta profondo. Secondo Francesco Longo, docente di Public Management alla Bocconi, “le disuguaglianze territoriali e socioeconomiche determinano chi riesce ad accedere ai servizi e chi no. Serve un sistema che accompagni le persone nel tempo, non solo un intervento d’urgenza”.

    Il tema è stato al centro dell’incontro “Brain Health Inequalities” a Milano: gli esperti chiedono una rete di servizi più capillare, programmi di prevenzione nelle scuole e un maggiore coinvolgimento delle famiglie.

    Ripensare la salute mentale

    La nuova sfida, secondo gli psichiatri, è portare la cura fuori dagli ospedali: nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei centri sportivi e perfino online, attraverso strumenti digitali e intelligenza artificiale. L’obiettivo è normalizzare il linguaggio sulla salute mentale e ridurre lo stigma, ancora troppo diffuso.

    “Bisogna insegnare ai giovani che chiedere aiuto non è un segno di debolezza — conclude Fiorillo — ma un atto di coraggio e di consapevolezza. Solo così possiamo sperare di trasformare un disagio diffuso in un’opportunità di crescita collettiva.”

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      Benessere

      Insonnia, l’alleato silenzioso: mindfulness e meditazione per addormentarsi meglio

      Gli studi mostrano che la meditazione riduce stress, ansia e iperattività mentale, tra le principali cause dei disturbi del sonno. Ecco come applicarla a casa con esercizi semplici e sicuri.

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      Insonnia, l’alleato silenzioso: mindfulness e meditazione per addormentarsi meglio

        Difficoltà ad addormentarsi, risvegli notturni, pensieri che corrono come un treno in piena notte: l’insonnia è un problema in aumento. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, quasi un terzo degli adulti sperimenta disturbi del sonno significativi almeno una volta nella vita. In Italia, le stime parlano di uno su cinque con insonnia cronica o ricorrente. A risentirne non è solo l’energia al mattino: dormire poco indebolisce memoria, umore, capacità di concentrazione e persino il sistema immunitario.

        Non sorprende, quindi, che si cerchino soluzioni non farmacologiche, soprattutto quando lo stress è il motore principale del problema. Tra queste, la mindfulness — una forma di meditazione basata sulla consapevolezza del momento presente — sta dimostrando efficacia clinica crescente. Studi pubblicati su riviste come JAMA Internal Medicine e Sleep hanno rilevato che programmi di Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) migliorano la qualità del sonno in persone con insonnia lieve o moderata, riducendo i sintomi dell’ansia e diminuendo la latenza dell’addormentamento.

        Perché funziona

        Il meccanismo è semplice nella teoria, meno nella pratica: la mindfulness smonta l’iperattivazione mentale, la stessa che porta a girarsi nel letto per ore.
        Quando si medita, il sistema nervoso riduce l’attività della risposta “lotta o fuggi” e aumenta quella del sistema parasimpatico, collegato al rilassamento. Si abbassano i livelli di cortisolo e rallenta il flusso dei pensieri intrusivi, quelli che iniziano con “domani devo…”.

        Non si tratta di “spegnere” il cervello, ma di spostare l’attenzione: dal rimuginio al respiro, dalle preoccupazioni alle sensazioni del corpo, dal futuro al presente.

        Le tecniche da provare subito

        Ecco alcuni esercizi semplici da fare a casa, senza attrezzature e senza competenze particolari:

        1) Respirazione 4-4-6

        Indicata per rallentare il battito e sciogliere la tensione.

        • inspira dal naso per 4 secondi
        • trattieni l’aria 4 secondi
        • espira lentamente 6 secondi
          Ripetere 4-6 volte.

        2) Body scan

        Distesi, occhi chiusi: si passa mentalmente una “torcia” su ogni parte del corpo, dai piedi alla testa.
        Osserva tensioni e lascia andare senza giudizio.
        Utile per spegnere la ruminazione mentale.

        3) Mindfulness dei suoni

        Attenzione ai rumori circostanti: respiro, silenzio, rumore lontano.
        Accettarli invece di combatterli aiuta a ridurre la reattività allo stress.

        4) Il pensiero-ancora

        Quando arriva un pensiero molesto (“E se domani…?”), invece di inseguirlo:

        • riconoscilo
        • etichettalo: «Ecco un pensiero di preoccupazione»
        • torna al respiro
          È un metodo clinicamente validato per gestire l’ansia notturna.

        Quando praticarla

        La mindfulness non agisce come un interruttore immediato, ma come una palestra mentale: più si allena il cervello, più si abitua a rilassarsi. Bastano 10-15 minuti al giorno, meglio se la sera, in un rituale privo di schermi e luci forti.

        Consigli pratici:

        • Smartphone lontano dal letto
        • Luci calde e ambiente fresco
        • Niente notifiche o contenuti stimolanti prima di dormire
        • Routine regolare: stesso orario per addormentarsi e svegliarsi

        Una cura senza controindicazioni

        Mentre i farmaci per dormire possono generare dipendenza o tolleranza, la mindfulness non ha effetti collaterali rilevanti ed è raccomandata da specialisti del sonno come supporto alle terapie tradizionali. In molti casi, può essere il primo passo prima di ricorrere a cure farmacologiche.

        Quando il disturbo persiste per settimane, però, è importante chiedere aiuto a un medico o a uno specialista del sonno: insonnia, ansia e depressione sono strettamente correlate e non vanno sottovalutate.

        Dormire bene è un’abitudine

        Ascoltare il proprio corpo, imparare a fare spazio alla calma, riconoscere che spegnere il mondo esterno è possibile: sono piccoli gesti che, ripetuti ogni sera, trasformano il sonno da nemico a complice.

        L’insonnia non è una colpa né una condanna.
        È un segnale — e la consapevolezza può diventare la via per spegnerlo dolcemente.

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          Benessere

          Craving, il desiderio che accende il cervello: capire e gestire la spinta alla dipendenza

          Dalle sostanze ai comportamenti compulsivi, il craving è un bisogno improvviso e intenso che può riaccendere la dipendenza anche dopo anni di astinenza. Le neuroscienze spiegano perché nasce e come affrontarlo con strategie terapeutiche mirate.

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          Craving

            Un impulso che parte dal cervello

            In psicologia clinica, il termine craving indica un desiderio intenso, quasi irresistibile, di assumere una sostanza o di ripetere un comportamento che in passato ha generato piacere o sollievo. È un’esperienza comune nei disturbi da uso di sostanze — come alcol, nicotina, cocaina o oppiacei — ma anche nelle dipendenze comportamentali, come il gioco d’azzardo, il cibo o l’uso compulsivo di internet.

            A livello biologico, il craving è una risposta del cervello ai sistemi di ricompensa, governati da neurotrasmettitori come dopamina e serotonina. Queste sostanze chimiche regolano la motivazione, il piacere e la memoria emotiva: quando vengono alterate da un’esperienza di forte gratificazione, il cervello “impara” ad associare quella sensazione a un segnale di benessere immediato, creando una traccia difficile da cancellare.

            Perché si manifesta anche dopo molto tempo

            Uno degli aspetti più insidiosi del craving è la sua capacità di riemergere anche dopo anni di astinenza. Gli stimoli che lo innescano — un odore, una canzone, un luogo o un’emozione — riattivano la memoria della gratificazione passata. Gli esperti parlano di “memoria del piacere”, una sorta di scorciatoia che il cervello utilizza nei momenti di stress o vulnerabilità emotiva.

            Secondo il National Institute on Drug Abuse (NIDA), questa riattivazione può avvenire per via di cambiamenti duraturi nei circuiti neuronali, in particolare nell’amigdala e nella corteccia prefrontale, aree coinvolte nel controllo delle emozioni e nelle decisioni razionali.

            Il craving, dunque, non è un segno di debolezza o mancanza di volontà, ma una reazione fisiologica di adattamento. Comprenderlo in questa chiave è essenziale per ridurre il senso di colpa e favorire un approccio terapeutico più realistico e compassionevole.

            Come si affronta: strategie e terapie

            Gestire il craving richiede un lavoro su più livelli. Le tecniche cognitivo-comportamentali aiutano a riconoscere i pensieri automatici e a sostituirli con risposte più consapevoli. Il mindfulness training — ossia la consapevolezza del momento presente — si è dimostrato efficace nel ridurre l’intensità dell’impulso, così come l’esercizio fisico regolare, che stimola la produzione naturale di dopamina e endorfine.

            Ma da solo, il controllo mentale non basta. Nelle fasi iniziali dell’astinenza, è fondamentale il supporto di professionisti e di una rete terapeutica integrata, che includa psicologi, psichiatri e gruppi di sostegno. Gli interventi farmacologici — come quelli che modulano i recettori dopaminergici o serotoninergici — possono ridurre l’urgenza del desiderio e migliorare l’aderenza ai percorsi di disintossicazione.

            Dal controllo alla consapevolezza

            Superare il craving non significa eliminarlo del tutto, ma imparare a riconoscerlo e gestirlo. Gli specialisti dell’Istituto Europeo delle Dipendenze (IEuD) sottolineano che monitorare gli episodi, annotare i fattori scatenanti e parlarne apertamente aiuta a “ridurre il potere” dell’impulso. Con il tempo, la persona costruisce una nuova relazione con sé stessa e con le proprie emozioni, trasformando il bisogno in conoscenza di sé.

            La chiave, quindi, non è reprimere il desiderio, ma comprenderlo: solo così si può spezzare il legame tra impulso e azione. In questa prospettiva, la libertà non coincide con l’assenza di craving, ma con la capacità di scegliere consapevolmente come rispondere a esso.

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              Benessere

              Vitamina D senza lattosio: cosa mangiare quando l’organismo è in carenza

              Dai pesci grassi ai funghi trattati con luce UV, fino ai prodotti fortificati senza lattosio: le alternative esistono, ma non sostituiscono il ruolo chiave dell’esposizione solare e del parere medico.

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              Vitamina D senza lattosio

                La vitamina D non è soltanto un nutriente: è un vero regolatore dell’organismo. Contribuisce alla salute delle ossa favorendo l’assorbimento del calcio, sostiene il sistema immunitario e partecipa alla funzione muscolare. In Italia, secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, una quota significativa della popolazione presenta livelli inferiori a quelli raccomandati, soprattutto nei mesi invernali e tra gli anziani. Chi è intollerante al lattosio spesso teme di avere ancora meno fonti alimentari a disposizione, ma la realtà è meno limitante di quanto sembri.

                Il mare come principale risorsa

                I pesci ricchi di grassi restano la fonte alimentare più abbondante di vitamina D3, la forma maggiormente utilizzabile dal corpo umano. Salmone, sgombro, aringa e sardine ne contengono quantità significative: una porzione di salmone cotto può fornire tra i 10 e i 20 microgrammi, avvicinandosi al fabbisogno giornaliero per gli adulti (circa 15 microgrammi secondo i LARN italiani). Anche l’olio di fegato di merluzzo, se indicato da un professionista sanitario, è una fonte concentrata. Per chi non consuma pesce con regolarità, le alternative animali sono più modeste ma utili: il tuorlo d’uovo e il fegato apportano piccole quantità che possono sommarsi nella dieta settimanale.

                Funghi e luce: una combinazione efficace

                Spesso sottovalutati, i funghi rappresentano una delle poche fonti vegetali di vitamina D, soprattutto se esposti alla luce UV. L’irradiazione permette di aumentare il contenuto di vitamina D2, una forma meno potente rispetto alla D3 ma comunque utile. Alcune catene di distribuzione commercializzano funghi già trattati, indicandolo in etichetta. Consumati regolarmente, possono integrare la dieta di chi segue un’alimentazione senza lattosio o a base vegetale.

                Bevande vegetali e alimenti fortificati senza lattosio

                Il fatto di non tollerare il lattosio non impedisce di assumere vitamina D attraverso prodotti arricchiti. In commercio esistono latte delattosato e yogurt senza lattosio fortificati, così come bevande vegetali a base di soia, avena o mandorla arricchite con vitamina D e calcio. La fortificazione è regolata e consente di colmare una parte del fabbisogno, soprattutto per chi consuma questi prodotti quotidianamente. È importante, però, leggere le etichette: non tutte le alternative vegetali lo sono.

                Il ruolo del sole e quando chiedere aiuto

                Per quanto l’alimentazione sia utile, la principale fonte di vitamina D resta la sintesi cutanea: l’esposizione moderata al sole permette all’organismo di produrla in autonomia. Durante inverno, scarsa esposizione o in presenza di fattori di rischio (pelle molto scura, età avanzata, obesità, uso di creme schermanti costante), il medico può valutare un’integrazione. Gli esperti ricordano che assumere supplementi senza controllo può essere rischioso: la vitamina D è liposolubile e l’eccesso può dare effetti indesiderati.

                Chi è intollerante al lattosio non deve rinunciare alla prevenzione: pesce azzurro, uova, funghi trattati e alimenti fortificati offrono una base solida. La chiave resta l’equilibrio tra dieta, luce e monitoraggio clinico. Perché la vitamina D non è una moda alimentare, ma un tassello essenziale della salute di tutti.

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