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Arte e mostre

Regina Rania tra piramidi e couture: fuochi, stelle e un Dolce&Gabbana da favola per l’inaugurazione del Grand Egyptian Museum al Cairo

Il Cairo accende i riflettori sul Grand Egyptian Museum, maxi tempio dell’antichità e nuova vetrina geopolitica del Paese. Alla serata inaugurale, una parata di reali e teste coronate: regina Rania in abito couture, il re Felipe di Spagna e il re Philippe del Belgio applaudono fuochi, performance e acrobati. L’Egitto prova a rilanciare immagine e turismo puntando su cultura, glamour e soft power.

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    Fuochi d’artificio che illuminano il deserto, fasci di luce che baciano le piramidi, coreografie tra danza contemporanea e folklore faraonico. Il Cairo ha scelto l’effetto “meraviglia totale” per l’inaugurazione del Grand Egyptian Museum, il colosso culturale affacciato su Giza destinato a custodire, tra gli altri tesori, l’intero corredo di Tutankhamon. Una notte spettacolare, studiata per restare nella memoria e — dettaglio non secondario — nei feed del mondo.

    Tra gli ospiti, la più fotografata è lei: la regina Rania di Giordania. Eleganza magnetica, sorriso calibrato e un abito Dolce&Gabbana che sembrava cucito per incarnare l’idea stessa di regalità mediorientale moderna. Linee pulite, luminosità couture, il giusto equilibrio tra tradizione e glamour internazionale. Il suo ingresso ha cristallizzato gli obiettivi e, per un istante, quasi rubato la scena alla maestosa scalinata del museo.

    Accanto a lei, altri monarchi di peso. Re Felipe VI di Spagna, impeccabile accanto alle piramidi illuminate. Re Philippe del Belgio, discreto ma presente in prima fila. Un parterre che sa di diplomazia soft, di nuove alleanze e di cultura come chiave geopolitica. Perché qui non si parlava solo di statue millenarie o reperti inestimabili: questa è una mossa d’immagine potente, un messaggio al turismo globale e al panorama internazionale.

    L’Egitto punta a riposizionarsi al centro della mappa culturale e turistica mondiale, e lo fa con una struttura monumentale e una regia scenica che sembra uscita da un colossal hollywoodiano. Luci che disegnano i profili di Giza come fossero un set, musiche epiche, troupe di ballerini e performer. Una celebrazione dell’identità faraonica in versione XXI secolo, dove archeologia e spettacolo convivono senza imbarazzi.

    In platea diplomatici, invitati selezionati, intellettuali e influencer culturali. Tutti pronti a immortalare la notte in cui l’Egitto ha deciso di raccontarsi non solo attraverso i suoi tesori antichi, ma anche attraverso stile, presenza internazionale e una modernità rivendicata.

    E mentre il finale esplodeva in un tripudio di fuochi e applausi, una cosa appariva chiara: il Grand Egyptian Museum non vuole essere solo un museo, ma un simbolo. Un ponte tra passato e futuro. E, giudicando dagli sguardi incantati dei presenti — e dall’impeccabile apparizione di Rania — la missione, almeno per una notte, è riuscita.

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      Arte e mostre

      Il water d’oro di Cattelan all’asta per 10 milioni: “Ricchi o poveri, in bagno siamo tutti uguali”

      Il wc d’oro di Maurizio Cattelan, già installato al Guggenheim e poi rubato nella versione esposta nella casa natale di Churchill, torna protagonista: base da 10 milioni di dollari, pagabili anche in criptovalute. “Un cortocircuito tra oggetto comune e simbolo di potere: confondiamo valore e prezzo”, dice l’artista.

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        Da provocazione pop a reliquia del mercato dell’arte. “America”, il water in oro a 18 carati di Maurizio Cattelan, è pronto a tornare sotto i riflettori. Sotheby’s lo batterà all’asta il 18 novembre a New York, nella The Now and Contemporary Evening Auction, con una base che sfiora i 10 milioni di dollari. Non una cifra casuale: il peso dell’opera, 101,2 chili di oro massiccio, parla da sé.

        È l’unico esemplare oggi esistente: l’altro, quello collocato nel 2019 a Blenheim Palace — residenza storica inglese e casa natale di Winston Churchill — fu trafugato nella notte del 14 settembre e mai più ritrovato. Prima ancora, nel 2016, l’opera aveva fatto scalpore al Guggenheim di New York: un wc funzionante, accessibile al pubblico, che oltre centomila persone utilizzarono in un’esperienza definita dal museo “intimità senza precedenti con un’opera d’arte”.

        Arte, satira e filosofia da bagno
        Cattelan spiega così la genesi dell’opera: “In un museo ci sono molti spazi sacri e solo uno che non lo è mai: il bagno. Ho preso il water dal museo, l’abbiamo mandato in fonderia, l’abbiamo fuso in oro e riportato esattamente nello stesso posto”. Per installarlo, non curatori ma idraulici; per pulirlo, niente guanti bianchi ma guanti di gomma e anticalcare. Alta e bassa cultura, potere e quotidianità che si incontrano “nell’angolo meno nobile del museo”.

        E poi la frase che è già manifesto: “Che siate ricchi o poveri, che abbiate mangiato un hamburger del McDonald’s o una cena stellata Michelin, il risultato non cambia. È il ritratto di un’epoca che confonde valore e prezzo”.

        Dal jet dorato di Trump alla satira sociale
        L’opera, concepita prima dell’era Trump ma inevitabilmente riletta alla luce della sua estetica dorata, diventa simbolo di un mondo dove lo splendore sostituisce la sostanza. “Cattelan è un consumato provocatore mondiale”, osserva David Galperin, responsabile dell’arte contemporanea di Sotheby’s. Accostamenti inevitabili con Duchamp e la sua “Fountain”, ma qui il gesto è portato all’estremo: il monumento al potere, trasformato in toilette pubblica.

        Il successo di mercato non stupisce: l’artista ha già toccato i 17 milioni di dollari per “Him” e oltre sei per “Comedian”, la celebre banana attaccata al muro. Ora, per chi vorrà aggiudicarsi questo simbolo del contemporaneo, resta un dubbio: non tanto se valga dieci milioni, ma se sia possibile acquistare — e portarsi a casa — una satira feroce su ricchezza e vanità. In oro massiccio, naturalmente.

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          Torino inaugura il Serial Killer Museum: un viaggio nella mente dell’orrore

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          Serial Killer Museum

            Ha aperto i battenti a Torino il Serial Killer Museum, uno spazio che promette di incuriosire e inquietare al tempo stesso. L’iniziativa, ospitata nel centro della città, si propone come un percorso educativo e psicologico nel cuore più oscuro della mente umana, raccontando le vicende di dieci assassini seriali che hanno lasciato un segno nella storia della criminalità mondiale.

            Il progetto nasce con l’intento di esplorare la genesi del male, non per celebrarlo ma per comprenderlo. L’obiettivo dichiarato dagli organizzatori è quello di offrire un punto di vista “storico, criminologico e umano” su figure che hanno alimentato paure, incubi e ossessioni collettive.

            Un viaggio immersivo tra cronaca e psiche

            L’esposizione è strutturata come un percorso multisensoriale. Attraverso audioguide, scenografie realistiche e installazioni digitali, il visitatore si trova a camminare tra dossier investigativi, oggetti autentici, fotografie e ricostruzioni di ambienti legati ai casi trattati. Ogni sezione è dedicata a un diverso protagonista della cronaca nera: da Ed Gein, il “macellaio di Plainfield” che ispirò Psycho, a Ted Bundy, il killer dal fascino ingannevole che terrorizzò l’America negli anni Settanta.

            Non mancano i riferimenti italiani, come la “saponificatrice di Correggio” Leonarda Cianciulli, responsabile di tre efferati omicidi tra il 1939 e il 1940. Ogni sala alterna documentazione storica e interpretazioni psicologiche, per indagare il confine sottile tra follia e consapevolezza criminale.

            L’allestimento, realizzato con la consulenza di esperti di criminologia e psichiatria forense, mira a stimolare una riflessione etica sul tema della violenza, invitando il pubblico a interrogarsi sul perché la società resti così attratta dal male.

            La fascinazione del pubblico per i “mostri”

            L’apertura del museo si inserisce in un fenomeno ormai globale: la serial killer culture, una vera e propria corrente culturale alimentata da serie TV, documentari e podcast di successo. Dai casi di Dahmer su Netflix a Mindhunter, il pubblico sembra non stancarsi mai di esplorare le vite dei criminali più spietati, cercando in esse risposte e brividi.

            Una curiosità che, in alcuni casi, può sfociare in morbosità. Gli esperti parlano di ibristofilia, una condizione psicologica che porta alcune persone a provare attrazione o empatia verso chi ha commesso delitti efferati. Fenomeni simili si sono già visti in passato, basti pensare alle lettere d’amore ricevute da Ted Bundy o da Charles Manson durante la detenzione.

            Proprio per questo motivo, i curatori del Serial Killer Museum hanno voluto chiarire sin dall’inaugurazione che l’intento non è quello di mitizzare, ma di analizzare. L’obiettivo è capire come nascono certe menti criminali, cosa le accomuna e come la società risponde a questi casi estremi.

            Tra cultura, etica e voyeurismo

            Nonostante il rigore dichiarato dell’approccio, il museo ha già acceso il dibattito. C’è chi lo considera un esperimento culturale coraggioso, capace di affrontare il male con strumenti di studio, e chi lo accusa di trasformare il dolore in intrattenimento.

            I responsabili dell’iniziativa difendono la scelta, spiegando che l’allestimento punta sull’impatto emotivo ma con un fine educativo: “Raccontare l’orrore serve a riconoscerlo e a non dimenticare le sue vittime”, si legge nella presentazione ufficiale.

            La scelta di Torino come sede non è casuale: la città, da sempre legata alla simbologia esoterica e alla cultura psicologica grazie all’Università e al Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso”, si conferma un luogo ideale per riflettere sul rapporto tra scienza e mistero.

            Il male come specchio della società

            In definitiva, il Serial Killer Museum è molto più di una curiosità turistica. È uno specchio dei tempi, un luogo dove il confine tra cultura, morbosità e introspezione diventa sempre più sfumato.

            Per alcuni visitatori sarà un viaggio nell’orrore, per altri un modo per comprendere meglio la natura umana. In ogni caso, nessuno uscirà indifferente: perché guardare negli occhi il male, anche solo attraverso una teca di vetro, significa interrogarsi su quanto di oscuro, a volte, abiti anche dentro di noi.

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              “Darién non è una rotta (Gli altari del dolore)”: Aristides Ureña Ramos alla XV Biennale di Firenze con un rito visivo sulla memoria e la migrazione

              Presentata per la prima volta alla Biennale di Venezia nel 1997 e oggi riproposta in chiave rinnovata, l’opera di Aristides Ureña Ramos intreccia arte e testimonianza: una riflessione luminosa e dolorosa sulla condizione migrante, tra luce, ombra e compassione

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                Alla XV Biennale di Firenze, in programma dal 18 al 26 ottobre 2025 alla Fortezza da Basso, arriva Darién non è una rotta (Gli altari del dolore), la videoinstallazione di Aristides Ureña Ramos che unisce arte, memoria e spiritualità in un racconto di forte impatto visivo e umano.

                Il progetto, iniziato nel 1997 e sviluppato per oltre vent’anni, è una delle opere più intense del maestro panamense, che vive tra Italia e Panama. Attraverso immagini, suoni e oggetti raccolti lungo le rotte migratorie del Centro America, Ureña Ramos costruisce un percorso simbolico che trasforma il Darién Gap — la selva che separa Panama dalla Colombia e che ogni anno migliaia di migranti attraversano a rischio della vita — in un luogo sacro della memoria.

                È un progetto aperto nel tempo, iniziato nel 1997 e proseguito fino alla crisi migratoria del 2023-24 — spiega l’artista —. Gli Altari del Dolore mi hanno permesso di vivere quella tragedia e misurare le mie capacità creative nei processi artistici.”

                L’opera, già esposta in sedi prestigiose come la Biennale di Venezia del 1997 e l’ex Istituto Nazionale di Cultura di Panama nel 2015, si inserisce perfettamente nel tema scelto per l’edizione fiorentina, La sublime essenza della luce e delle tenebre. Nelle installazioni di Ureña Ramos, infatti, la luce non è mai solo metafora di salvezza, ma anche resistenza: la capacità dell’essere umano di illuminare l’ombra della perdita con la forza dei ricordi e dei sogni.

                Oggetti abbandonati lungo i sentieri dei migranti diventano reliquie, altari, frammenti di vite spezzate che l’artista restituisce allo sguardo del pubblico trasformandoli in poesia visiva. Darién non è una rotta non è un semplice reportage artistico, ma un rito laico che invita alla compassione e alla consapevolezza: una riflessione sull’esilio, la speranza e la dignità di chi attraversa le frontiere del mondo e dell’anima.

                Con questa videoinstallazione, Aristides Ureña Ramos riafferma la sua poetica come atto di empatia e memoria, offrendo alla Biennale di Firenze un’opera che parla al cuore del presente: un ponte di luce tra l’arte e la vita.

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