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Benessere

Addormentarsi in due minuti: il metodo militare che promette sonni rapidi e profondi

Rilassamento muscolare, respirazione lenta e visualizzazione: i tre passaggi del metodo “militare” spiegati dalla scienza. Gli esperti, però, invitano alla cautela: dormire bene non è solo questione di tecnica.

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Addormentarsi in due minuti

    Capita a molti: ci si infila a letto stanchi, gli occhi bruciano per la giornata lunga, ma il sonno non arriva. Si gira, ci si rigira, si guarda l’orologio, e più ci si sforza di dormire, più il cervello resta sveglio. In Italia, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, un adulto su tre dorme meno di quanto dovrebbe e circa uno su sette lamenta una qualità del sonno insoddisfacente. Non stupisce, quindi, che sui social spopoli ogni metodo che promette un addormentamento rapido. Tra questi, quello che molti chiamano “metodo militare” è diventato virale: una tecnica che – almeno in teoria – permetterebbe di addormentarsi in due minuti, ovunque ci si trovi.

    Un metodo da caserma (ma utile anche a casa)

    La tecnica è stata resa popolare da diversi manuali di addestramento dell’esercito americano e ripresa, più di recente, dal professor Dean J. Miller, docente di Scienze della salute alla CQUniversity Australia e studioso dei disturbi del sonno. Miller ha collaborato con militari e atleti per ottimizzare il riposo in condizioni estreme, e ha descritto i tre passaggi fondamentali del metodo.

    1. Rilassamento muscolare progressivo. Serve a sciogliere le tensioni fisiche, tra le principali nemiche del sonno. Si parte dal viso — rilassando fronte, mandibola e occhi — e si prosegue con spalle, braccia, torace e gambe.
    2. Respirazione controllata. Inspirare lentamente e espirare in modo più lungo aiuta a calmare il sistema nervoso, rallentando il ritmo cardiaco.
    3. Visualizzazione. Immaginare un ambiente tranquillo — una spiaggia, un prato, un cielo notturno — distoglie la mente dai pensieri intrusivi che tengono svegli.

    L’obiettivo è quello di indurre uno stato di rilassamento profondo, simile a quello che precede naturalmente l’addormentamento.

    Cosa dice la scienza del sonno

    Il metodo militare non è una magia, ma condivide alcuni principi con la terapia cognitivo-comportamentale per l’insonnia (CBT-I), la più efficace secondo la comunità scientifica. Entrambe puntano a ridurre l’ansia da prestazione legata al sonno e a ristabilire un’associazione positiva tra letto e riposo.

    La CBT-I, ad esempio, incoraggia a coricarsi solo quando si è assonnati, evitare l’uso del cellulare o altre attività a letto, mantenere orari regolari e creare un ambiente rilassante. Anche pratiche come mindfulness, respirazione lenta e rilassamento muscolare sono parte integrante dei protocolli terapeutici.

    “Il metodo militare funziona per alcune persone perché agisce su mente e corpo contemporaneamente,” spiega Miller. “Ma non è una soluzione miracolosa, e i risultati dipendono molto dalle abitudini quotidiane e dallo stress personale.”

    Funziona davvero? Dipende da noi

    Nonostante il nome, non serve una disciplina da soldato per provarlo. Tuttavia, gli esperti mettono in guardia da aspettative irrealistiche: addormentarsi in due minuti non è alla portata di tutti, soprattutto se si conduce una vita stressante o si soffre di insonnia cronica.

    La Sleep Foundation ricorda che impiegare 10-20 minuti per addormentarsi è perfettamente normale, mentre riuscirci in meno di cinque minuti potrebbe indicare eccessiva stanchezza o deprivazione di sonno.

    Provare il metodo militare non comporta rischi e può essere un buon esercizio di rilassamento. Ma se la difficoltà ad addormentarsi diventa persistente, la soluzione migliore resta rivolgersi a uno specialista del sonno.

    Dormire bene è (ancora) una questione di equilibrio

    Non esistono trucchi universali per dormire subito: il segreto è costruire nel tempo una routine serena, costante e coerente con i ritmi naturali del corpo. Ridurre caffeina e alcol, limitare l’uso dei dispositivi elettronici prima di dormire, e creare un ambiente buio e silenzioso restano le basi di una buona igiene del sonno.

    Perché, anche se il metodo militare promette risultati lampo, il vero riposo si conquista con costanza, non con la velocità.

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      Benessere

      Melatonina sotto esame: un nuovo studio mette in dubbio la sua sicurezza a lungo termine

      Secondo i dati presentati all’American Heart Association, l’uso prolungato di integratori di melatonina sarebbe associato a un aumento del rischio di insufficienza cardiaca e mortalità. Gli esperti invitano però alla cautela: i risultati sono preliminari e non dimostrano un rapporto di causa-effetto.

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      Melatonina

        La melatonina è spesso vista come un alleato naturale del sonno: un ormone che il cervello produce spontaneamente e che regola il nostro ritmo circadiano, aiutando l’organismo a distinguere il giorno dalla notte. Non stupisce, quindi, che milioni di persone nel mondo la assumano sotto forma di integratore per combattere insonnia, jet lag o disturbi del ritmo sonno-veglia. Ma una nuova ricerca americana invita a rivedere questa percezione di totale innocuità.

        Durante il congresso annuale dell’American Heart Association (AHA), un team della SUNY Downstate Health Sciences University ha presentato uno studio osservazionale che collega l’uso prolungato di melatonina a un aumento dei rischi cardiovascolari. L’analisi ha preso in esame oltre 130.000 pazienti con diagnosi di insonnia, confrontando chi aveva assunto l’ormone per almeno un anno con chi non ne aveva mai fatto uso.

        I risultati hanno destato sorpresa: chi assumeva melatonina da più di dodici mesi mostrava un rischio superiore del 90% di sviluppare insufficienza cardiaca, una probabilità di ricovero triplicata per lo stesso motivo e una mortalità complessiva doppia rispetto agli altri pazienti.

        “Gli integratori di melatonina sono percepiti come sicuri e naturali,” ha spiegato Ekenedilichukwu Nnadi, autore principale della ricerca. “Per questo motivo siamo rimasti colpiti nel riscontrare un aumento così coerente e marcato di eventi cardiaci gravi, anche dopo aver corretto i dati per altri fattori di rischio.”

        Un ormone utile, ma da non banalizzare

        La melatonina è prodotta naturalmente dalla ghiandola pineale, e la sua secrezione aumenta con l’oscurità, segnalando all’organismo che è ora di dormire. Gli integratori che la contengono sono di libera vendita in molti Paesi, inclusa l’Italia, e vengono consigliati per brevi periodi. Le linee guida mediche raccomandano infatti di non prolungarne l’assunzione oltre due o tre mesi consecutivi, poiché non sono ancora noti gli effetti a lungo termine.

        In molti casi, l’uso eccessivo o improprio della melatonina nasce dalla convinzione che, trattandosi di una sostanza “naturale”, non possa fare male. Ma come ricordano i medici, anche un ormone endogeno può alterare delicati equilibri fisiologici se assunto in dosi o tempi non adeguati.

        Cautela nell’interpretare i risultati

        Nonostante i dati dello studio siano stati accolti con interesse, gli esperti invitano alla prudenza. La ricerca, infatti, non è ancora stata pubblicata su una rivista scientifica con revisione tra pari (peer review) e presenta limiti metodologici significativi. In particolare, non è possibile escludere che i pazienti che assumono melatonina abbiano disturbi del sonno più gravi o altre condizioni preesistenti che aumentano di per sé il rischio di problemi cardiaci.

        “È possibile che l’insonnia cronica, la depressione o l’ansia abbiano un ruolo confondente,” ha precisato Nnadi. “Serviranno ulteriori indagini per capire se la melatonina abbia un effetto diretto sul cuore o se la correlazione osservata sia solo apparente.”

        Cosa significa per chi la assume

        Per chi utilizza la melatonina saltuariamente, non ci sono motivi di allarme immediato. Gli esperti consigliano tuttavia di consultare sempre il medico prima di assumere integratori per periodi lunghi o in presenza di patologie cardiovascolari. Inoltre, ricordano che la qualità del sonno dipende anche da abitudini quotidiane come l’esposizione alla luce naturale, l’alimentazione e la gestione dello stress.

        In attesa di conferme scientifiche più solide, il messaggio degli specialisti è chiaro: anche quando si tratta di sostanze “naturali”, la prudenza è la miglior alleata della salute.

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          Benessere

          La felicità non è uguale per tutti: cosa dice la scienza su emozioni e salute

          Nuove ricerche mostrano che i benefici biologici della felicità dipendono da genetica, cultura e condizioni sociali. E che cercare la gioia a tutti i costi può, paradossalmente, farci stare peggio.

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            Per decenni la scienza ha sostenuto che un atteggiamento positivo sia la chiave per vivere più a lungo e ammalarsi di meno. “La felicità fa bene al cuore”, si ripete spesso — e, in parte, è vero. Numerosi studi psicologici e biologici hanno mostrato che lo stato emotivo influenza il sistema immunitario, l’infiammazione e perfino il metabolismo. Tuttavia, le ricerche più recenti raccontano una realtà più sfumata: la felicità non produce gli stessi effetti su tutti.

            Ci sono persone per cui il benessere emotivo si traduce in salute fisica misurabile — meno infiammazione, pressione più bassa, maggiore longevità — e altre per cui l’effetto è quasi nullo.

            Quando il corpo “sente” la felicità

            Il legame tra emozioni positive e salute è stato osservato in numerosi studi. Quando ci sentiamo felici, il cervello rilascia dopamina, endorfine e ossitocina: sostanze che riducono lo stress, abbassano la pressione sanguigna e potenziano le difese immunitarie. Questi ormoni agiscono come modulatori naturali dell’equilibrio psicofisico.

            Ma non tutti li producono o li “ricevono” allo stesso modo. La risposta del corpo a questi neurotrasmettitori varia a seconda della genetica, dell’età e dell’accumulo di stress cronico. “L’effetto biologico della felicità è reale, ma individuale,” spiegano i ricercatori della Harvard T.H. Chan School of Public Health, che hanno recentemente analizzato oltre 200 studi sul tema.

            Il ruolo dei geni e del temperamento

            Parte della nostra “sensibilità alla felicità” è scritta nel DNA. Alcune varianti genetiche influenzano il modo in cui il cervello elabora dopamina e serotonina, modificando la risposta allo stress. In pratica, due persone che vivono la stessa esperienza positiva possono reagire in modo diverso: una si sentirà rigenerata, l’altra noterà solo un miglioramento temporaneo.

            Questa variabilità spiega anche perché la cosiddetta psicologia positiva — il ramo che studia le emozioni benefiche — produca risultati tanto disomogenei: ciò che funziona per uno può non funzionare per un altro.

            Felicità: questione di cultura (e di società)

            La definizione stessa di felicità cambia nel mondo. Nelle società occidentali è spesso legata a successo, autonomia e realizzazione personale; in quelle orientali, invece, a armonia sociale e appartenenza al gruppo.

            Gli studi comparativi, pubblicati sul Journal of Cross-Cultural Psychology, mostrano che nelle culture collettiviste la felicità genera effetti fisici più stabili — minor incidenza di depressione e disturbi cardiovascolari — perché è vissuta come parte di un equilibrio condiviso. Al contrario, nei contesti individualisti la ricerca della felicità tende a essere più fragile e dipendente da risultati o status personali.

            Quando voler essere felici diventa stressante

            Può sembrare paradossale, ma l’ossessione per la felicità può minare la salute mentale. Psicologi come Iris Mauss, dell’Università della California, parlano di “tirannia della felicità”: la pressione sociale a essere sempre positivi genera senso di colpa quando si provano emozioni negative. Questo porta a frustrazione cronica, stress e insonnia — proprio l’opposto dell’effetto sperato

            La felicità che protegge davvero

            Non tutte le felicità sono uguali. Gli esperti distinguono tra felicità edonica, legata al piacere momentaneo, e felicità eudaimonica, radicata nel significato e nei valori personali. Solo quest’ultima sembra avere effetti duraturi sulla salute: chi percepisce la propria vita come utile e coerente con i propri ideali mostra livelli più bassi di infiammazione e una maggiore resilienza allo stress.

            “Il benessere autentico non dipende dal divertimento, ma dal senso,” sintetizza la psicologa Barbara Fredrickson, tra le maggiori studiose del tema.

            Un privilegio (non per tutti)

            Gli effetti positivi della felicità, inoltre, non sono uguali in tutti i contesti. Le persone che vivono in situazioni di precarietà economica o discriminazione cronica non riescono a trasformare la gioia in salute. Lo stress continuo, spiegano gli esperti di The Lancet Public Health, può neutralizzare i benefici fisiologici delle emozioni positive. È ciò che oggi viene definito “disuguaglianza del benessere”.

            La lezione della scienza

            La felicità, dunque, non è una formula universale, ma un equilibrio dinamico tra mente, corpo e contesto. Coltivare relazioni sincere, praticare gratitudine e accettare anche la tristezza come parte naturale della vita sembra più salutare di qualunque “positività forzata”.

            Essere felici non significa non soffrire mai, ma imparare a dare senso anche ai momenti difficili. È lì, dicono gli scienziati, che la felicità diventa davvero una forza che guarisce.

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              Giovani e salute mentale: ansia e depressione in crescita, la diagnosi precoce può fare la differenza

              Tra pandemia, crisi economiche e pressione sociale, le nuove generazioni affrontano livelli record di disagio psicologico. Gli esperti chiedono più prevenzione, interventi rapidi e un cambio di mentalità nel sistema sanitario.

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                Un’emergenza silenziosa

                La salute mentale è diventata una delle sfide più urgenti del nostro tempo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre un miliardo di persone nel mondo vive con un disturbo mentale, e una su tre non riceve alcun tipo di cura. L’ansia e la depressione, in particolare, rappresentano ormai la seconda causa di disabilità di lungo termine, con costi altissimi per individui, famiglie e società.

                A destare maggiore preoccupazione sono i giovani: uno studio pubblicato su European Psychiatry rivela che il 74% dei disturbi mentali insorge entro i 24 anni, rendendo cruciale la diagnosi precoce. L’adolescenza, infatti, è il periodo in cui si manifestano i primi segnali di disagio psicologico: ansia generalizzata, disturbi dell’umore, comportamenti autolesivi o difficoltà relazionali.

                Italia, un Paese in affanno

                Il rapporto OCSE Promoting Good Mental Health in Children and Young Adults stima che oltre 700.000 giovani italiani convivano con problemi di salute mentale, con ansia e depressione ai primi posti. In Europa, circa 11,2 milioni di bambini e adolescenti tra 10 e 19 anni (pari al 13% della popolazione giovanile) soffrono di un disturbo psichico.

                La pandemia da COVID-19 ha peggiorato il quadro: secondo l’OMS, i casi di ansia e depressione sono aumentati del 25% tra il 2020 e il 2022, con un impatto maggiore sulle ragazze e sui giovani adulti. L’isolamento, la didattica a distanza e la precarietà del futuro hanno lasciato cicatrici profonde.

                Fattori di rischio e nuove vulnerabilità

                “Stiamo vivendo una tempesta perfetta di fattori stressanti — acuti e cronici — che colpiscono soprattutto i più giovani”, spiega Andrea Fiorillo, presidente della Società Italiana di Psichiatria Sociale. “Pandemia, crisi economiche, guerre e cambiamenti climatici si sommano alla perdita di reti di protezione come famiglia e scuola”.

                A tutto ciò si aggiunge l’impatto dei social network e del confronto costante con modelli irrealistici di successo e felicità, che alimentano ansia da prestazione e bassa autostima. Secondo recenti indagini, un adolescente su tre mostra segni di “dipendenza da connessione”, e uno su cinque dichiara di sentirsi “sopraffatto” dalla pressione digitale.

                Diagnosi precoce e prevenzione

                “La diagnosi precoce è fondamentale — sottolinea Bernardo Dell’Osso, docente di Psichiatria all’Università Statale di Milano — perché molti disturbi iniziano già in età scolare. A 5-6 anni possono comparire i primi segnali di ADHD o autismo, mentre tra i 13 e i 17 anni si manifestano sintomi legati ad ansia, depressione o abuso di sostanze”.

                Il problema, tuttavia, è intercettare questi segnali in tempo. Spesso sono genitori, insegnanti o psicologi scolastici i primi a notare un disagio, ma la mancanza di servizi territoriali e liste d’attesa troppo lunghe rendono difficile un intervento tempestivo.

                Una questione di equità

                Il divario nell’accesso alle cure resta profondo. Secondo Francesco Longo, docente di Public Management alla Bocconi, “le disuguaglianze territoriali e socioeconomiche determinano chi riesce ad accedere ai servizi e chi no. Serve un sistema che accompagni le persone nel tempo, non solo un intervento d’urgenza”.

                Il tema è stato al centro dell’incontro “Brain Health Inequalities” a Milano: gli esperti chiedono una rete di servizi più capillare, programmi di prevenzione nelle scuole e un maggiore coinvolgimento delle famiglie.

                Ripensare la salute mentale

                La nuova sfida, secondo gli psichiatri, è portare la cura fuori dagli ospedali: nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei centri sportivi e perfino online, attraverso strumenti digitali e intelligenza artificiale. L’obiettivo è normalizzare il linguaggio sulla salute mentale e ridurre lo stigma, ancora troppo diffuso.

                “Bisogna insegnare ai giovani che chiedere aiuto non è un segno di debolezza — conclude Fiorillo — ma un atto di coraggio e di consapevolezza. Solo così possiamo sperare di trasformare un disagio diffuso in un’opportunità di crescita collettiva.”

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