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Salute

Sicurezza stradale in Italia, il lato oscuro dei dati

I dati sulla sicurezza stradale in Italia mostrano un quadro preoccupante. Nonostante le campagne di sensibilizzazione e le leggi in vigore, solo il 36% degli italiani utilizza la cintura di sicurezza posteriore. Ancora più allarmante è il fatto che il 20% dei bambini viaggia senza seggiolino, mettendo a rischio la loro vita e la loro sicurezza.

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    Gli studi del sistema di sorveglianza PASSI evidenziano che l’alcol rimane il primo fattore di rischio sulle strade italiane, contribuendo in modo significativo a incidenti e vittime. Questo, insieme alla mancata osservanza delle norme di sicurezza, crea una combinazione pericolosa che mette in pericolo non solo chi guida, ma anche passeggeri e pedoni.

    Allarme incidenti e uso improprio dei dispositivi di protezione
    Con l’inizio delle partenze estive, le strade italiane si riempiono di vacanzieri, aumentando però anche il rischio di incidenti stradali. Nonostante le campagne di sensibilizzazione, i dati indicano che solo il 36% degli italiani utilizza la cintura di sicurezza posteriore, e ben 2 bambini su 10 viaggiano senza seggiolino. Questa negligenza mette in grave pericolo la sicurezza dei passeggeri, soprattutto i più piccoli.


    Mentre l’uso del casco in moto e motorino sembra essere diventato una buona abitudine — con circa il 96% degli intervistati che dichiara di indossarlo sempre — c’è ancora molto da fare per quanto riguarda l’educazione alla sicurezza stradale. I dati del sistema di sorveglianza PASSI rivelano inoltre che la guida sotto l’effetto dell’alcol è un altro problema preoccupante, in particolare tra i giovani adulti.

    La fascia d’età 25-34 anni è quella che più frequentemente si mette al volante dopo aver bevuto, con un tasso dell’8%. Inoltre, la tendenza è nettamente più alta tra gli uomini (7%) rispetto alle donne (2%). Questi numeri sottolineano l’urgenza di interventi mirati per prevenire comportamenti a rischio e proteggere tutti gli utenti della strada durante il periodo estivo.

    credit foto – Freepik / Ansa

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      Salute

      Tatuaggi e sistema immunitario: i colori più comuni restano nei linfonodi per anni

      I ricercatori segnalano un’infiammazione prolungata che può ridurre la capacità difensiva e l’efficacia dei vaccini, sollevando interrogativi sulla sicurezza degli inchiostri più diffusi.

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      Tatuaggi e sistema immunitario

        Un tatuaggio può raccontare storie, passioni o ricordi, ma nuove evidenze scientifiche suggeriscono che i suoi pigmenti più usati non restano confinati alla pelle. I risultati emergono da uno studio internazionale coordinato dall’italiana Arianna Capucetti e da Santiago González dell’Istituto di ricerca in biomedicina di Bellinzona, pubblicato sulla rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America). La ricerca, che ha coinvolto dodici gruppi di ricerca in Europa, ha analizzato gli effetti dei pigmenti nero, rosso e verde, più diffusi negli inchiostri per tatuaggi.

        Il dibattito sui possibili effetti dei tatuaggi sulla salute va avanti da anni, soprattutto in relazione al rischio oncologico, senza però prove definitive. Questo nuovo lavoro si concentra sulla tossicità dei pigmenti e sul loro impatto sul sistema immunitario.

        Come agisce l’inchiostro nel corpo

        Lo studio, condotto su topi, ha mostrato che i pigmenti dei tatuaggi vengono rapidamente trasportati dal sistema linfatico ai linfonodi, organi fondamentali per la risposta immunitaria. Qui si accumulano in grandi quantità già poche ore dopo l’inoculazione dell’inchiostro.

        I ricercatori hanno identificato una risposta infiammatoria in due fasi:

        1. Fase acuta, che dura circa due giorni, durante la quale il sistema immunitario reagisce immediatamente alla presenza dei pigmenti.
        2. Fase cronica, che può protrarsi per anni: i pigmenti rimangono intrappolati nei macrofagi, le cellule immunitarie deputate a “digerire” agenti esterni. Non potendo smaltire l’inchiostro, queste cellule muoiono progressivamente, compromettendo la capacità difensiva del linfonodo.

        Gli effetti sono più evidenti con inchiostri rossi e neri, mentre quelli verdi mostrano un impatto minore ma comunque significativo.

        Implicazioni per la salute

        I dati suggeriscono che la presenza cronica di pigmenti nei linfonodi potrebbe:

        • ridurre l’efficacia dei vaccini
        • compromettere la risposta immunitaria a lungo termine
        • generare un’infiammazione silente che persiste per anni

        Gli autori sottolineano la necessità di approfondire ulteriormente i rischi e di sviluppare pigmenti più sicuri o procedure che limitino l’assorbimento sistemico.

        Un problema aggiuntivo è rappresentato dalla grande varietà di pigmenti e combinazioni presenti sul mercato. Nonostante i controlli, episodi di contaminazioni sono stati documentati: nel 2022, ad esempio, nove inchiostri contenenti sostanze potenzialmente cancerogene furono ritirati dal mercato italiano.

        Cosa significa per chi ama i tatuaggi

        L’allerta non significa vietare i tatuaggi, ma invita a un approccio consapevole: conoscere la composizione degli inchiostri, affidarsi a professionisti certificati e restare aggiornati sulle normative e sui controlli sanitari.

        In futuro, lo studio potrebbe orientare lo sviluppo di pigmenti biocompatibili che riducano l’accumulo nei linfonodi e limitino l’infiammazione cronica. Nel frattempo, gli esperti raccomandano prudenza, informazione e attenzione alla qualità degli inchiostri.

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          Salute

          Panettone o pandoro? La sfida delle calorie sotto l’albero di Natale

          Sono i re indiscussi delle feste, protagonisti di tavole e discussioni familiari. Ma dietro il duello sul gusto si nasconde un’altra domanda: quale pesa di più sulla linea?

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          La sfida delle calorie sotto l’albero di Natale

            Panettone e pandoro rappresentano molto più di un semplice dessert: sono un rito collettivo, un simbolo gastronomico che accompagna il Natale italiano da generazioni. Rinunciare a una fetta durante i cenoni o i pranzi delle feste, per molti, è semplicemente impensabile. Eppure, quando si parla di forma fisica, la scelta tra i due non è così neutra come potrebbe sembrare.

            Dal punto di vista nutrizionale, infatti, panettone e pandoro non hanno lo stesso impatto calorico. Le tabelle indicano che il panettone classico apporta in media tra le 330 e le 350 chilocalorie per 100 grammi, con una quantità di grassi che si aggira intorno ai 10-12 grammi. Il pandoro, complice una ricetta più ricca di burro e tuorli, sale invece a circa 390-410 chilocalorie per la stessa quantità, con un contenuto lipidico che può raggiungere i 18-20 grammi, in gran parte grassi saturi.

            La differenza, quindi, è reale e abbastanza costante anche confrontando marche diverse. Tuttavia, c’è un altro elemento spesso sottovalutato: la porzione. Una fetta di panettone, grazie alla sua struttura più “alveolata”, pesa mediamente 60-70 grammi. Il pandoro, più compatto e invitante nel taglio, supera facilmente gli 80-90 grammi. Questo significa che, a parità di fetta servita nel piatto, il pandoro rischia di incidere di più sull’apporto calorico complessivo.

            Il discorso cambia ulteriormente quando entrano in gioco le varianti farcite o glassate. Creme, cioccolato e zucchero a velo possono aumentare sensibilmente le calorie, rendendo meno netta la distinzione tra i due dolci. In questi casi, più che il nome del dessert conta la quantità e la frequenza con cui lo si consuma.

            Gli esperti di nutrizione concordano su un punto: non è la singola fetta a fare la differenza, ma il contesto. Dopo antipasti, primi piatti elaborati e brindisi ripetuti, anche il dolce assume un peso maggiore nel bilancio della giornata. Per questo il consiglio è semplice ma efficace: decidere in anticipo cosa scegliere, evitare il bis e gustare lentamente una porzione contenuta.

            Chi desidera restare più leggero può orientarsi su una fetta sottile di panettone classico, magari accompagnata da tè o caffè senza zucchero. Chi invece non rinuncia al pandoro può concederselo con moderazione, limitando zucchero a velo e creme. In entrambi i casi, l’equilibrio del pasto complessivo – con verdure e secondi più leggeri – aiuta a godersi il momento senza trasformarlo in un eccesso.

            In fondo, il Natale è anche questo: scegliere consapevolmente, senza demonizzare i piaceri della tavola. Panettone o pandoro, la fetta giusta è quella che si gusta con misura e serenità.

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              Salute

              Farmaci per il trattamento della depressione come funzionano

              Dagli SSRI agli SNRI, fino ai triciclici: l’efficacia degli antidepressivi è dimostrata, ma non per tutti e non in ogni situazione. Ecco cosa dicono gli studi e quali sono i reali benefici e limiti.

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              Farmaci per il trattamento della depressione

                Negli ultimi anni il ricorso ai farmaci antidepressivi è aumentato in molti Paesi, Italia compresa. Secondo dati dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), il consumo nazionale è cresciuto costantemente nell’ultimo decennio, segno di una maggiore attenzione al benessere psicologico ma anche di una persistente confusione su cosa questi medicinali facciano davvero.
                Gli antidepressivi non sono semplici “regolatori dell’umore” e, soprattutto, non agiscono come una scorciatoia emotiva: sono farmaci veri e propri, che intervengono sui meccanismi neurochimici alla base della depressione e di altri disturbi correlati.

                Come funzionano: il ruolo della serotonina e degli altri neurotrasmettitori

                La maggior parte degli antidepressivi di nuova generazione appartiene alla categoria degli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina). Il loro compito è impedire la ricaptazione della serotonina — un neurotrasmettitore legato alla regolazione dell’umore, del sonno e dell’ansia — prolungandone la disponibilità nel cervello.
                Esistono poi gli SNRI, che agiscono anche sulla noradrenalina; i triciclici e gli IMAO, più datati e oggi usati solo in casi specifici; e farmaci più recenti che modulano diversi sistemi neurochimici.

                Gli studi scientifici confermano che questi medicinali sono efficaci soprattutto nelle forme moderate e gravi di depressione. Nelle forme lievi, invece, possono non essere più efficaci di un placebo, motivo per cui le linee guida internazionali raccomandano spesso un approccio psicologico come primo intervento.

                Cosa curano davvero — e cosa no

                Contrariamente a un’opinione diffusa, gli antidepressivi non eliminano la tristezza normale né rendono “felici”. Sono indicati per quadri clinici ben precisi:

                • depressione maggiore
                • disturbo d’ansia generalizzato
                • disturbo ossessivo-compulsivo
                • attacchi di panico
                • disturbo post-traumatico da stress
                • alcune forme di dolore cronico (per esempio neuropatico)

                Non sono invece utili per le difficoltà emotive comuni, lo stress passeggero o le crisi relazionali. In questi casi, l’uso improprio può portare a trattamenti non necessari, mentre un supporto psicologico sarebbe più indicato.

                Non agiscono subito: servono settimane

                Molti pazienti credono che gli antidepressivi producano un effetto rapido, ma non è così: richiedono 2–6 settimane per manifestare benefici significativi. Questo periodo serve al cervello per adattarsi ai cambiamenti neurochimici. Proprio per questo le terapie devono essere seguite con costanza e sotto supervisione.

                Effetti collaterali e miti da sfatare

                Gli antidepressivi moderni sono considerati sicuri e ben tollerati, ma possono comunque causare effetti indesiderati come nausea, insonnia, alterazioni dell’appetito e riduzione della libido. Nella maggior parte dei casi questi disturbi si attenuano nelle prime settimane.

                Un mito persistente riguarda la “dipendenza”: gli antidepressivi non creano dipendenza fisica come le benzodiazepine; tuttavia, una sospensione brusca può provocare sintomi da interruzione. Per questo la riduzione del dosaggio deve essere graduale e gestita da un medico.

                Perché la diagnosi è fondamentale

                La depressione è un disturbo complesso e multifattoriale, influenzato da genetica, ambiente, stress e vita sociale. Nessun farmaco può da solo affrontarne tutte le cause. Per questo gli specialisti raccomandano spesso una combinazione di terapia farmacologica e psicoterapia, ritenuta la più efficace nel prevenire ricadute e migliorare la qualità di vita.

                La scelta più efficace è quella personalizzata

                Gli antidepressivi sono strumenti preziosi per molte persone, ma la loro efficacia dipende dalla correttezza della diagnosi, dalla tipologia del farmaco e dalla risposta individuale.
                In un periodo in cui la salute mentale è al centro del dibattito pubblico, conoscere come davvero funzionano — al di là dei pregiudizi — aiuta a fare scelte più consapevoli e a chiedere aiuto in modo adeguato.

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