Sic transit gloria mundi
Anda e rianda, tornano i taxi del mare con le navi militari italiane impiegate (a spese dei contribuenti) a portare avanti e indietro migranti tra Italia e Albania
Per la terza volta, la magistratura smonta l’esperimento dell’esecutivo: il trasferimento forzato nei centri albanesi è illegale. I migranti verranno riportati domani su navi della Guardia Costiera, mentre la Corte di Giustizia UE valuterà la compatibilità del piano con le norme europee.

E alla fine, anche stavolta, il castello di carte del governo Meloni è crollato con fragore. Il fantasmagorico esperimento delle deportazioni mascherate da “centri per migranti in Albania” ha collezionato l’ennesima bocciatura. Terza. Su tre tentativi. Insomma, una performance impeccabile nella categoria “fiaschi annunciati”. Complimenti vivissimi!
L’ultimo schiaffo arriva dalla Corte di Appello di Roma, che ha deciso di non convalidare il trattenimento dei 43 migranti imprigionati nel centro di Gjader. Decisione che suona più come una sentenza di condanna politica per un governo che, dopo aver incassato due stop e una sentenza della Cassazione che ribadiva il diritto dei giudici di verificare la “sicurezza” dei paesi indicati nel listone di quelli sicuri, ha pensato bene di sfidare la sorte. Risultato? Terzo round, terza sberla. Giù il sipario.
E così, dopo l’ennesima batosta, ecco che domani alle 12 i 43 migranti verranno riportati in Italia su mezzi della Guardia Costiera. La sceneggiatura è sempre la stessa: il governo manda i suoi pattugliatori in Albania carichi di migranti, la magistratura stronca il tentativo, i migranti vengono rispediti indietro. Un traffico navale che ormai ha la regolarità di una linea di traghetti. O meglio, di un costosissimo taxi del mare pagato, ovviamente, dai contribuenti italiani.
La decisione dei giudici non lascia spazio a interpretazioni. “Il giudizio va sospeso nelle more della decisione della Corte di Giustizia. Poiché per effetto della sospensione è impossibile osservare il termine di quarantotto ore previsto per la convalida, deve necessariamente essere disposta la liberazione del trattenuto”, recita il provvedimento. Traduzione per i meno avvezzi al linguaggio giuridico: il trattenimento è illegale, i migranti vanno liberati, il giochetto è finito.
Ma andiamo con ordine. I 49 migranti sbarcati a Gjader martedì scorso erano già stati decimati dalle smagliature legali del provvedimento: sei erano stati rispediti in Italia perché minorenni o vulnerabili (eh già, qualcuno nel governo si è dimenticato di leggere le direttive europee). I restanti 43 sono stati processati oggi, in videoconferenza, davanti a una Corte d’Appello di Roma che ha raccolto il testimone lasciato dai colleghi della sezione immigrazione, precedentemente “esautorata” dal governo. Un bell’esempio di indipendenza della magistratura!
I giudici, senza farsi intimidire, hanno applicato il diritto. E il diritto dice che i migranti hanno il sacrosanto diritto di fare ricorso entro sette giorni contro il rigetto della loro domanda d’asilo. Tempistica che, secondo l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, rende “concretamente impossibile l’esercizio del diritto di difesa”, violando Costituzione, CEDU e direttive europee. Dettagli, vero?
Ma questo è solo l’ultimo atto di un copione già scritto. Lo spettacolo è andato in scena a ottobre, quando il primo tentativo di trattenere 12 migranti bengalesi ed egiziani si è schiantato contro la realtà: i giudici hanno stabilito che i loro paesi d’origine non erano sicuri e, di conseguenza, non si poteva applicare la procedura di frontiera. Tradotto: erano stati deportati illegalmente. Secondo tentativo a novembre, altra figuraccia: il governo si è inventato un decreto per aggiornare la lista dei Paesi sicuri, ma i giudici hanno sospeso il trattenimento e rimesso tutto alla Corte di Giustizia europea. Morale: migranti liberati, governo sconfessato, Marina militare impegnata nel ruolo di Uber del mare.
Il 25 febbraio si attende la pronuncia della Corte di Lussemburgo su tutta la vicenda. Nel frattempo, il governo potrebbe considerare un’idea rivoluzionaria: studiare le leggi prima di provarci ancora. Oppure, se proprio ci tiene al brivido della disfatta, che almeno ci avverta in anticipo: popcorn e birra sono a carico nostro, il biglietto per il circo lo paghiamo già con le tasse.
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Sic transit gloria mundi
Santa Rita De Crescenzo vergine e martire (del trash televisivo e dei suoi stessi followers)

Ogni epoca ha i suoi santi. Noi, che non ci facciamo mancare nulla, abbiamo Rita De Crescenzo: patrona delle punturine di acido ialuronico, del silicone spacciato per estetica e dei monologhi social che neppure alla recita dell’asilo. «Ho paura, basta odio, basta violenza mediatica», piagnucola oggi la tiktoker partenopea, appena il sindaco di Castel Volturno le ha cancellato uno show. Una Madonna del trash che si immola sull’altare della visibilità, con tanto di rosario fatto di stories Instagram.

Il problema, però, non è lei. È la folla che l’applaude. Migliaia di followers che la venerano nonostante accuse di spaccio per conto del clan Elia, minacce a un deputato («Devo essere il tuo incubo, è arrivata l’ora che ti distrugga io»), video dove la cultura del nulla diventa linguaggio quotidiano. Santa Rita del degrado non canta, non balla, non recita. Non sa fare assolutamente niente, eppure è riuscita a trasformare l’ignoranza in un titolo di studio, il pressapochismo in curriculum, l’urlato in vangelo.

La sua difesa? «Sono una donna, una madre, una persona come tutte le altre». Tutte le altre chi? Quelle che fanno dei filtri TikTok un manifesto politico? Quelle che credono che il talento consista nel mettersi una minigonna fluorescente e ripetere frasi sconnesse in diretta?
Il miracolo è che funziona: più la criticano, più sale. Più le istituzioni le chiudono le porte, più diventa martire. È la beatificazione trash: non serve saper cantare, scrivere, pensare. Serve piangere davanti a una telecamera, gonfiare le labbra fino a sembrare canotti e agitare le mani in aria come se fossero ali d’angelo caduto.




Chi la segue, in fondo, non cerca un’artista. Cerca un’icona dell’idiozia elevata a forma d’arte, un simbolo che rassicura: “se ce l’ha fatta lei, posso farcela anch’io”. E infatti ce l’ha fatta. A diventare il monumento vivente di un Paese che si inchina al nulla e lo incorona.
Meritiamo l’estinzione? Sicuramente. Ma tranquilli: prima dell’apocalisse ci sarà la sua prossima diretta online di Santa Rita, e sarà sold out.

Sic transit gloria mundi
Caso Epstein, Melania Trump pronta a chiedere oltre un miliardo a Hunter Biden: “Accuse false e diffamatorie”
Melania Trump ha minacciato una causa miliardaria contro Hunter Biden per aver dichiarato che sarebbe stato Epstein a presentarla al marito. Intanto i democratici puntano il dito sul trasferimento di Ghislaine Maxwell in un carcere meno severo.

Melania Trump è passata al contrattacco. La first lady americana ha annunciato l’intenzione di fare causa a Hunter Biden, chiedendo un risarcimento da oltre un miliardo di dollari, dopo che il figlio del presidente ha affermato che sarebbe stato Jeffrey Epstein – il finanziere condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori – a presentarla a quello che poi sarebbe diventato suo marito. Una ricostruzione definita dai legali di Melania “falsa, denigratoria, diffamatoria e provocatoria”.
Le dichiarazioni di Biden risalgono a un’intervista di inizio mese, in cui aveva ripercorso i rapporti tra il presidente e il miliardario pedofilo, sottolineando vecchie frequentazioni poi interrotte “agli inizi degli anni Duemila”, come lo stesso Trump ha sempre sostenuto.
Ma la vicenda non si ferma qui. I democratici della Commissione Giustizia della Camera hanno sollevato un polverone sul trasferimento di Ghislaine Maxwell – ex compagna e complice di Epstein – in un carcere federale del Texas con regime meno restrittivo. La donna, condannata a 20 anni, era detenuta a Tallahassee, in Florida, ma è stata spostata subito dopo un incontro con il vice procuratore generale Todd Blanche.
Secondo il deputato Jamie Raskin, leader dei democratici in Commissione, il trasferimento “offre maggiore libertà ai detenuti” e “prima di questo caso era categoricamente vietato per chi fosse condannato per molestie sessuali”. In una lettera al procuratore generale Pam Bondi e al direttore del Bureau of Prisons William K. Marshall, Raskin parla di “preoccupazioni sostanziali” su possibili pressioni per indurre Maxwell a fornire una testimonianza favorevole al presidente, “violando le stesse politiche federali”.
Un’accusa che, in un contesto già incandescente, riaccende i riflettori sul nodo più imbarazzante per la Casa Bianca: i rapporti passati tra il presidente e Jeffrey Epstein.
Sic transit gloria mundi
Il Senato salva Sangiuliano dal processo per la “chiave di Pompei”: 112 voti bastano a fermare l’accusa di peculato
Il caso ruotava attorno al simbolico omaggio di Pompei finito in un regalo privato. La Giunta per le immunità ha riconosciuto l’atto come compiuto nell’interesse pubblico e non come reato ordinario. I legali dell’ex ministro ricordano che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che la chiave era stata acquistata e pagata, diventando sua proprietà.

Palazzo Madama ha fatto scudo all’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, bloccando il processo per peculato che rischiava di aprirsi attorno alla “chiave d’onore” di Pompei. Con 112 voti favorevoli e 57 contrari, l’aula del Senato ha respinto l’autorizzazione a procedere, accogliendo la linea della Giunta per le immunità: il gesto di donare la chiave a Maria Rosaria Boccia non costituirebbe reato ordinario, ma un atto riconducibile all’esercizio della funzione di governo e al perseguimento di un interesse pubblico preminente.
La vicenda aveva incuriosito l’opinione pubblica nei mesi scorsi, trasformandosi in un caso mediatico: la chiave, simbolo del legame con la città archeologica, era stata regalata dall’ex ministro a una conoscente, scatenando polemiche e sospetti di appropriazione indebita. I difensori di Sangiuliano hanno sempre sostenuto la piena legittimità dell’operazione, ricordando che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che, tramite la procedura prevista dalla legge, l’ex ministro aveva acquistato e pagato l’oggetto, diventandone il proprietario a tutti gli effetti.
Il voto in aula è arrivato dopo una giornata di interventi accesi, tra ironie e schermaglie politiche. Il leghista Gian Marco Centinaio ha scherzato in diretta: «Lasciamo i colleghi nella suspense… Sim Salabim!», strappando un sorriso in un dibattito altrimenti teso.
Non solo Sangiuliano: nella stessa seduta, Palazzo Madama ha affrontato altre questioni di immunità parlamentare. Maurizio Gasparri ha incassato il via libera dell’aula sulla sua insindacabilità per le frasi rivolte al magistrato Luca Tescaroli nel 2023, giudicate collegate ad atti parlamentari come interrogazioni e interventi in aula. A favore hanno votato 117 senatori, mentre 23 – tra M5s e Avs – hanno detto no.
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