Sic transit gloria mundi
Marco Rubio, il crociato della Casa Bianca: politica estera e cenere sulla fronte
Marco Rubio sfoggia la croce di cenere in diretta tv, mentre la Casa Bianca di Trump trasforma la politica in una missione divina. Tra messa ufficiale, pastori evangelici e ordini esecutivi sulla “libertà religiosa”, l’America sembra tornata ai tempi delle Crociate. E mentre si discute di guerra in Ucraina, il messaggio è chiaro: Dio è con loro.

Se pensavate che l’Occidente avesse superato il tempo delle Crociate, delle benedizioni prima delle battaglie e del «Dio è con noi» sussurrato in guerra, Marco Rubio è qui per smentirvi. Il nuovo segretario di Stato americano, infatti, si è presentato su Fox News con una croce disegnata con la cenere ben visibile sulla fronte, come un cavaliere medievale pronto a partire per Gerusalemme. Ma niente elmo e cotta di maglia: solo completo elegante e una disinvoltura surreale nel discutere di politica internazionale con un marchio sacro inciso sul volto.
La scena ha avuto un che di grottesco, come se Rubio fosse uscito da una pellicola su un’America alternativa, dove il governo è guidato direttamente dal clero e il Congresso si riunisce con un messale in mano. Il gesto, ovviamente, non è casuale: il Mercoledì delle Ceneri, che segna l’inizio della Quaresima, è per i cattolici un momento di raccoglimento, pentimento e riflessione. Ma negli Stati Uniti di Donald Trump, ora tornato più teocratico che mai, sembra aver assunto un significato nuovo: quello di un sigillo politico, un marchio di appartenenza alla nuova amministrazione e ai suoi valori ultraconservatori.
Nonostante l’aura di misticismo, Rubio non si è lasciato distrarre da temi troppo spirituali. Anzi, durante l’intervista ha parlato della guerra in Ucraina con una narrativa totalmente vicina a quella del Cremlino, avvertendo Kyiv di non minare i negoziati in corso e suggerendo che forse sarebbe meglio arrendersi alla realtà. Insomma, l’amministrazione americana continua a mandare i suoi messaggi ambigui sulla necessità di negoziare con Mosca. Tutto questo con un segno di cenere sulla fronte, come se la politica estera si decidesse tra una confessione e un atto di contrizione.
Ma Rubio non è stato l’unico a sfoggiare il simbolo del Mercoledì delle Ceneri. Anche il vicepresidente JD Vance ha ricevuto pubblicamente le ceneri, con un gesto che ha trasformato un rito religioso in un evento politico. E per non far mancare nulla alla nuova atmosfera mistica della Casa Bianca, il personale è stato invitato a partecipare a una messa celebrata nella Sala del Trattato Indiano, con tanto di email ufficiale per ricordare l’appuntamento. Giusto per chiarire che il nuovo corso dell’amministrazione non prevede una rigida separazione tra Stato e Chiesa.
Il presidente Donald Trump, invece, non si è fatto segnare la fronte, ma ha comunque dedicato un messaggio ufficiale alla nazione per l’occasione, giusto per ribadire che la sua visione della politica è sempre più religiosa e meno laica. E se qualcuno avesse ancora dubbi sul nuovo spirito crociato dell’America, basta guardare la sua ultima mossa: a febbraio ha firmato un ordine esecutivo per riaprire l’Ufficio della Fede, un organo creato nel 2016 per «proteggere la libertà religiosa», e che oggi si propone di «combattere l’antisemitismo e l’anticristianesimo».
A guidare questa nuova crociata della Casa Bianca sarà la pastora Paula White, volto noto del movimento evangelico e storica sostenitrice di Trump. White, che si definisce una “guerriera spirituale”, ha spesso dichiarato che il presidente è stato scelto da Dio per guidare l’America. In fondo, non c’è da stupirsi: il messianismo trumpiano si sposa perfettamente con la narrazione di una nazione che si vede come la nuova Terra Santa, un baluardo contro il male, sia esso incarnato dai nemici interni (i liberal, i woke, i migranti) o dai nemici esterni (la Cina, la Russia, l’Iran).
La domanda ora è: quanto diventerà integralista l’America trumpiana? Tra ceneri, benedizioni e nuove strutture di potere che intrecciano religione e politica, sembra di essere tornati a un’epoca in cui la fede non era solo una questione personale, ma un’arma politica vera e propria.
E mentre Rubio discute di guerre con la croce sulla fronte e Trump si presenta come il nuovo difensore della cristianità, il mondo si chiede se questa America neo-medievale sia pronta a governare il pianeta con la Bibbia in una mano e il codice nucleare nell’altra.
L’unica certezza? Se invece di stringerlo in pugno e brandirlo come un’arma, qualcuno il Vangelo lo leggesse davvero, forse scoprirebbe che “America First” e “Ama il tuo prossimo come te stesso” proprio tanto d’accordo non vanno.
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Sic transit gloria mundi
Quando Benigni smonta il nazionalismo: l’Europa è un sogno, non una minaccia
Mentre la premier Meloni piega il Manifesto di Ventotene alla sua narrazione, Benigni illumina la prima serata Rai con un monologo potente: l’Unione europea come baluardo contro le guerre e i muri del nazionalismo. Una lezione d’amore e di libertà che spazza via ogni retorica.

I sogni hanno sempre quella capacità beffarda di arrivare quando meno te li aspetti. A volte coincidono con la realtà, e a volte la smentiscono. E allora accade che, mentre Giorgia Meloni in Parlamento storce il naso sul Manifesto di Ventotene, come se stesse parlando di una favola scritta per ingenui, Roberto Benigni – in eurovisione, sulla Rai di Stato – restituisce al pubblico italiano e a milioni di cittadini europei la vera grandezza di quel sogno.
Sì, perché l’utopia di Spinelli, Rossi e Colorni – uomini che la libertà l’hanno immaginata da un carcere fascista – non è una paginetta da archiviare come “retorica da globalisti”. È l’atto di nascita di un’Europa che, tra mille contraddizioni, ha provato a guarire le ferite delle sue guerre e dei suoi totalitarismi. Un’Europa che ha cercato di non farsi più dominare dall’ossessione per la frontiera e dalla paura del diverso.
Ecco, Benigni l’ha raccontata con la grazia e l’ironia che gli riconosciamo da sempre, ma con il passo fermo di chi sa che questo è il tempo giusto per ricordare certi valori. La Rai, di certo, non aveva calcolato l’effetto di questo tempismo micidiale: da una parte la presidente del Consiglio che legge Ventotene come se fosse un fastidioso documento di altri tempi; dall’altra l’artista che, in prima serata, ribadisce che l’Unione Europea è una delle invenzioni più straordinarie della storia contemporanea.
Ma il punto non è solo questo. È che l’intervento di Benigni è stato tutto fuorché evasivo: ha messo il dito nella piaga, parlando di nazionalismi che si travestono da patriottismo e di politiche che si nutrono di paure. Ha citato Walter Benjamin e ha ricordato a un Paese assopito che la paura genera le peggiori follie umane. Un comico, sì. Ma qui il clown non faceva ridere: faceva pensare.
Mentre Meloni, con l’aria di chi deve liberarsi di un fardello ingombrante, liquidava Ventotene come un testo manipolabile a uso e consumo del presente, Benigni ne ha ripreso l’essenza vera: il coraggio di un’Europa federale, capace di unirsi senza violenza, di mettere al centro l’uomo e non solo lo Stato-nazione.
Non so se in via Teulada fossero davvero consapevoli della portata del messaggio. Forse è stato solo un miracolo del palinsesto. Ma tant’è: il risultato è che ieri sera l’Italia ha ascoltato, seduta davanti alla tv, due narrazioni opposte. Da un lato, la nostalgia per la vecchia fortezza assediata. Dall’altro, l’invito a immaginare ancora l’Europa come un sogno possibile.
E quando accade questo, quando un artista riesce a fare educazione civica meglio di una lezione scolastica, vuol dire che un pezzo di servizio pubblico – magari a sua insaputa – ha fatto centro. Per una volta, lasciando da parte i siparietti e i fronzoli.
Benigni non è più da anni quel giullare scatenato che faceva arrossire l’Italia democristiana. Ma oggi, davanti a questa crisi di valori collettiva, riesce ancora ad accendere le luci dove altri si limitano a spegnerle. E chissà che, tra i sorrisi e l’emozione, qualcuno ieri non abbia finalmente capito perché Ventotene è tutto fuorché carta straccia.
Sic transit gloria mundi
Tesla sotto assedio: incendi, svastiche e boicottaggi. È bufera mondiale su Musk, “l’imperatore dell’autogol”
Dopo l’Oregon, anche Francia, Paesi Bassi e Australia si ribellano. Sui social piovono accuse di “fascismo” contro Elon Musk. Intanto il titolo crolla e le vendite in Europa registrano un tonfo senza precedenti. E persino i suoi stessi dipendenti lo sfidano in fabbrica

Tesla è sotto attacco. Non solo a parole, ma con gesti eclatanti. Scritte violente, auto imbrattate o incendiate e persino bombe molotov: la protesta globale contro Elon Musk e le sue “nazi-car”, come ormai vengono ribattezzate da chi le contesta, ha assunto le sembianze di una vera e propria guerriglia. E no, questa volta non si tratta di qualche flame su X, il social di Musk, ma di una catena di episodi concreti, tra Stati Uniti, Australia ed Europa.
Tutto comincia il 20 gennaio a Salem, Oregon, dove un concessionario Tesla viene attaccato nel cuore della notte. Bottiglie incendiarie vengono lanciate contro le vetrine e le auto esposte. I danni superano il mezzo milione di dollari. Ma è solo l’inizio: da quel momento i raid si susseguono uno dopo l’altro, tra incendi dolosi, pneumatici rubati e auto Tesla imbrattate con escrementi, vernice rossa e insulti che evocano il nazismo.
Le immagini delle Tesla marchiate con svastiche o imbrattate di fango e formaggini fanno il giro del mondo. A Seattle vanno in fumo quattro Cybertruck; a Tigard, ancora in Oregon, vengono esplosi colpi d’arma da fuoco contro uno showroom. In Australia compare su una vetrina la scritta «vuoi davvero guidare una swasticar?»; in Olanda, il messaggio è ancora più esplicito: «Fuck off fascist». A Tolosa, in Francia, vengono incendiate una dozzina di Tesla parcheggiate fuori da un concessionario.
Ma la bufera non si ferma qui. Elon Musk, nel frattempo, sembra fare di tutto per buttare benzina sul fuoco. Su X arriva l’ennesimo scivolone: un post che solleva Hitler, Stalin e Mao dalle responsabilità delle loro stragi, attribuendole ai burocrati. Una provocazione che rinfocola le critiche e alimenta la rabbia dei contestatori. “Musk si vanta di poter spegnere Starlink con un bottone, davvero gli lascereste in mano anche la vostra auto?”, scrivono in molti sotto l’hashtag #boycottTesla. E sui social, insieme al meme del “Musk con la mano tesa”, spunta pure lo slogan più ripetuto dai contestatori: «Non comprare una nazi-car».
Nel frattempo, anche dentro Tesla le cose vanno male. Nella gigafactory di Berlino il sindacato IG Metall denuncia pratiche scorrette da parte dell’azienda che chiederebbe ai dipendenti di rivelare informazioni private sulle malattie, violando la loro privacy. Un ulteriore scossone per un’azienda in difficoltà.
Il conto? Salato. Da inizio 2025, le azioni Tesla hanno perso oltre il 40% del valore, scendendo bruscamente dopo i record toccati a dicembre. Il mercato europeo è in caduta libera: -76% di vendite in Germania a febbraio, -45% in Francia, -42% in Svezia. In Cina le consegne sono precipitate del 49%. La nuova Model Y non basta a risollevare le sorti del marchio e l’immagine di Musk, tra accuse di autoritarismo e autogol comunicativi, sembra più offuscata che mai.
Ora anche le strade si ribellano. Gli showroom diventano bersagli e le Tesla parcheggiate finiscono nel mirino di chi non sopporta più l’impero Musk. Un imperatore senza festa, che rischia di veder evaporare il suo regno elettrico sotto il peso di un boicottaggio globale.
Sic transit gloria mundi
Corona, l’oscena farsa di “Gurulandia”: perché qualcuno paga per ascoltare certe idiozie?
Lo spettacolo dell’ex re dei paparazzi è un trionfo di insulti, volgarità e provocazioni di infimo livello. Ma il vero problema è chi gli dà spazio e lo applaude. Il teatro non merita questo scempio.

Il problema non è solo Fabrizio Corona. Il problema è che esista un pubblico disposto a pagare per vederlo esibirsi in uno “spettacolo” in cui il teatro, un tempo tempio della cultura e del confronto, diventa lo sfondo per tre ore di insulti, bestemmie e volgarità gratuite. E non si tratta di satira, né di un monologo di denuncia: Gurulandia è un caravanserraglio di oscenità in cui Corona si lascia andare a offese sessiste, personali e grottesche, che trovano eco nei fragorosi applausi di chi evidentemente trova divertente assistere a una deriva così misera.
L’ultima performance dell’ex re dei paparazzi si è consumata al Teatro Nazionale di Milano, e se c’è qualcosa di davvero incredibile in tutta questa storia è che un teatro con una reputazione e una storia alle spalle abbia potuto ospitare un tale scempio. La domanda è una sola: chi decide che questo sia spettacolo? Chi pensa che mettere su un palco un uomo con una sigaretta accesa che insulta giornalisti, artisti e colleghi sia qualcosa da promuovere come “evento”?
L’imbarazzante “one man show” di Corona
Tre ore di nulla, se non una sequela di insulti diretti a personaggi del mondo dello spettacolo. Nel mirino, questa volta, Selvaggia Lucarelli, attaccata con epiteti irripetibili, paragonata a una sagoma di cartone con cui Corona ha persino mimato un atto sessuale sul palco. Il tutto accompagnato da risate, applausi e la complicità di un avvocato – Ivano Chiesa – che, anziché indignarsi, si presta al circo.
Lungi dall’essere un attacco isolato, quello di Corona è un format ripetuto. A Torino, al Teatro Alfieri, si era già lasciato andare a simili sceneggiate, il che ci porta a una seconda domanda: quali teatri italiani continuano a spalancargli le porte? Chi approva la sua presenza in cartellone? Chi ha stabilito che la missione del teatro in Italia sia passata da ospitare testi e idee a fare da megafono a un personaggio che ha costruito il suo intero “successo” sulla violenza verbale e la mancanza di qualsiasi concetto di dignità?
Il problema non è solo lui. È chi lo finanzia, chi lo ospita e chi applaude.
Il teatro trasformato in baraccone da circo
Ci si chiede poi perché la violenza verbale sia sempre più sdoganata. Perché nei dibattiti televisivi si urla sempre più forte. Perché il livello del confronto pubblico è sceso a livelli imbarazzanti. La risposta è che questo modello funziona, che esiste una domanda per questo spettacolo degradante, che esistono persone disposte a pagare un biglietto per sentire uno come Corona insultare una giornalista, un cantante o un attore.
Ma chi esce vincitore da tutto questo? Corona? Il suo pubblico, che per tre ore si compiace nel sentire insulti sessisti e provocazioni adolescenziali? O forse chi, dietro le quinte, lo usa come fenomeno da baraccone per fare incasso?
Nel frattempo, il Teatro Nazionale di Milano ha rilasciato una nota di scuse, promettendo di prestare maggiore attenzione alla programmazione futura. Davvero serve che il danno sia fatto prima di accorgersi dell’errore? Che razza di gestione è questa, che si accorge solo dopo lo “spettacolo” che si è lasciata trasformare in un palco da caserma?
Il circo continuerà?
Selvaggia Lucarelli ha parlato di “aria tossica”. Ha ragione. E la cosa peggiore è che si fa finta di non vederlo, si minimizza, si ride. Tutto diventa contenuto virale, intrattenimento, meme. Fino a quando? Fino a quale punto si continuerà a lasciar passare queste cose come un “personaggio che si fa showman” e non per quello che è: un uomo senza niente da dire, che monetizza odio e insulti, e un sistema complice che lo lascia fare.
Il teatro – quello vero – merita di meglio. L’Italia merita di meglio. Ma finché ci sarà chi paga per assistere a questo spettacolo indegno, il circo non chiuderà mai.
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