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Sic transit gloria mundi

Matteo Salvini cattivissimo me: quando la politica trascende i confini dell’umanità e travalica la morale

La destra sovranista mondiale si spinge sempre oltre nel linguaggio della disumanizzazione. Dal sarcasmo di Salvini sulle morti alle deportazioni annunciate da Trump, la gara alla medaglia d’oro della crudeltà continua, lasciando dietro di sé echi sinistri di un passato che non si è mai spento.

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    Matteo Salvini ha superato un altro confine. Ironico, vero? Proprio lui, che ai confini ci tiene eccome, vuole blindarli, sigillarli, renderli impenetrabili. Però questa volta non parliamo di un confine fisico, oh no, sarebbe troppo facile. Qui si parla di un confine morale, di quelli che – dice la storia – sarebbe bene non varcare. E invece, ecco il nostro Matteo che ci mostra come si fa a superare l’impossibile. Con un piccolo gesto, giusto un’esultanza per la morte di un uomo. Roba da niente, no? Un traguardo umano da veri campioni dell’empatia. Ma Salvini non si ferma lì, perché il genio sta nel dettaglio: non solo esulta, ma lo fa con una punta di cinismo che non si vedeva dai tempi dei migliori troll su internet.

    Ma partiamo dai fatti: a Verona, un immigrato aggredisce una pattuglia della polizia, coltello in mano. La polizia risponde e lo uccide. Cronaca semplice, un fatto di ordinaria violenza. Ma attenzione, ecco che arriva il tweet del nostro ministro preferito. “Non ci mancherà”, scrive Salvini, con la delicatezza di un bulldozer in un negozio di cristalli. E come se non bastasse, aggiunge anche “con tutto il rispetto”. Certo, perché quello è il tocco di classe. Rispettare un morto mentre lo deridi, chapeau. Il rispetto, signori, non è mai abbastanza… ma solo quando fa comodo, ovviamente.

    Possiamo solo immaginare cosa sarebbe successo se ci fosse stato un video della scena. Sicuramente sarebbe finito dritto sui suoi social, con tanto di colonna sonora a tema e il titolo “Giustizia Fatta”. Perché ormai la morte non è più tragedia, è contenuto. E Salvini è lì, sempre pronto a cavalcare l’onda del peggioramento morale collettivo. Del resto, nella nuova era della politica social, l’odio si sforna fresco ogni giorno, come il pane. E Matteo ne è il miglior panettiere, alzando sempre di più l’asticella del disgusto.

    Ma aspettate, perché il cattivismo di casa nostra ha un modello da cui imparare: Donald Trump. Se Salvini è il ragazzino che copia i compiti, Trump è il professore dell’odio, il capo della classe. L’ex presidente americano ha perfezionato l’arte della crudeltà politica, promettendo la più grande deportazione di massa della storia. Un sogno! E se non bastasse, ha pure suggerito di applicare la pena di morte senza processo per gli immigrati che uccidono americani. Giusto per essere sicuri che il concetto sia chiaro: gli immigrati non sono persone, sono nemici. Da sterminare, ovviamente.

    Il cattivismo è diventato il cuore pulsante della politica moderna. I leader come Salvini e Trump non discutono più di politiche reali. No, meglio scatenare la rabbia, canalizzare la frustrazione e puntare il dito contro chi è diverso. E se non ci fosse Trump, Salvini dovrebbe inventarlo. In fondo, è più facile twittare odio che trovare soluzioni, no?

    Tornando in Italia, Salvini ha i suoi momenti di gloria. Tra una battuta velenosa e l’altra, paragona i migranti a “cani e porci”, un grande classico della retorica razzista, con cui si posiziona sul podio insieme ai suoi predecessori leghisti, come Umberto Bossi con i suoi “Bingo Bongo”. Ma Salvini non è solo. Negli Stati Uniti, il suo mentore Trump legittima gruppi neonazisti e suprematisti bianchi, rendendo l’odio la pietra angolare della sua politica. E da buon scolaretto, Matteo segue diligentemente la lezione.

    Ma attenzione, la gara non finisce qui. Questo campionato di crudeltà è appena cominciato. Ogni giorno ci si spinge un po’ più in là, un po’ più in basso, alla ricerca del limite morale che, forse, non esiste più. La politica populista ormai si nutre di cattivismo: non importa proporre soluzioni, l’unico obiettivo è far arrabbiare le persone e dargli qualcuno da odiare. Funziona, dicono. E Salvini, con il suo sarcasmo cinico, è lì, pronto a scendere sempre di più nell’abisso, cercando la sua medaglia d’oro nel campionato della crudeltà.

    Nel frattempo, noi spettatori di questo circo mediatico, non possiamo far altro che chiederci chi sarà il prossimo campione. Salvini o Trump? Oppure arriverà qualcuno di nuovo a sorprenderci con livelli ancora più bassi? La competizione è aperta, e il peggio sembra davvero non avere limiti.

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      Rita De Crescenzo a Belve: quando il Servizio Pubblico smette di fare cultura e inizia a esaltare il degrado

      Rita De Crescenzo, simbolo di un successo costruito su eccessi e provocazioni, arriva a Belve come ospite del Servizio Pubblico. Una scelta che fa discutere: la Rai trasforma una figura priva di meriti artistici in personaggio televisivo nazionale, sollevando interrogativi sul ruolo stesso della TV pubblica.

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        La notizia dell’intervista di Rita De Crescenzo a Belve ha sollevato un’ondata di polemiche. La tiktoker napoletana, diventata celebre per i suoi video tra musica neomelodica, balli e dirette sopra le righe, sarà tra gli ospiti di Francesca Fagnani nel programma cult di Rai2. Un format che negli anni ha accolto figure di primo piano della politica, dello spettacolo e della cultura, trasformandosi in una sorta di consacrazione mediatica.

        Eppure, questa volta, l’effetto è stato diametralmente opposto: la partecipazione della De Crescenzo è apparsa a molti come un segnale di resa del Servizio Pubblico davanti al degrado dei social. Nessun compenso, dicono fonti interne alla Rai, ma un ritorno d’immagine enorme per la tiktoker, che potrà vantare una ribalta nazionale senza aver speso un euro.

        Il problema non è economico, ma simbolico. Rita De Crescenzo non è un’artista, non è un’attivista, non è una voce culturale o politica: è il prodotto di un certo tipo di popolarità online fatta di eccessi, linguaggio volgare e spettacolarizzazione del quotidiano. Portarla nel salotto televisivo di Francesca Fagnani significa certificare, con il timbro del Servizio Pubblico, un modello che molti considerano pericolosamente regressivo.

        Chi difende la scelta parla di un ritratto “antropologico”, di un fenomeno sociale da osservare più che da celebrare. Ma il rischio, come sempre accade con la televisione, è che la semplice presenza basti a trasformare un caso mediatico in legittimazione culturale.

        Perché la Rai, che per statuto dovrebbe garantire qualità, informazione e crescita culturale, sceglie di offrire spazio a chi incarna tutt’altro? Forse per inseguire ascolti, o per inseguire i social che ormai dettano legge anche in TV. Ma così facendo, il confine tra analisi e spettacolo, tra racconto e compiacimento, si fa sempre più sottile.

        Rita De Crescenzo non è il problema: è il sintomo. Il sintomo di una televisione che ha smesso di selezionare e ha iniziato ad assecondare, di un Servizio Pubblico che invece di educare riflette — e amplifica — il rumore di fondo di un Paese in cerca di attenzione più che di contenuti.

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          Addio a Ace Frehley, lo “Spaceman” dei Kiss: il mio supereroe con la chitarra che sapeva volare

          Con il suo trucco da “Spaceman”, le chitarre che fumavano e i razzi che partivano dal manico, Ace ha trasformato il rock in spettacolo e magia. Lascia un’eredità di suoni, coraggio e umanità: quella di un uomo che ha saputo salvarsi e far sognare milioni di ragazzi.

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            Ci sono artisti che non si limitano a suonare: accendono un immaginario. Ace Frehley era uno di questi. Per chi è cresciuto tra gli anni Settanta e Ottanta, lui non era solo il chitarrista dei Kiss, ma un supereroe in carne e ossa, uno di quelli che scendevano dal palco avvolti nel fumo, con la chitarra che sputava fuoco e gli occhi pieni di stelle. Lo chiamavano The Spaceman, l’uomo venuto dallo spazio, ma in realtà veniva dal Bronx, con una Gibson in mano e un sorriso timido dietro il trucco argentato.

            Ace se n’è andato, a 74 anni – il giorno del mio compleanno e non è stato davvero un ben regalo – dopo un’emorragia cerebrale che lo aveva colpito nei giorni scorsi. E con lui se ne va un pezzo di infanzia, di ribellione, di sogno. Perché chi ha amato i Kiss – quelli veri, quelli del 1975 di Rock and Roll All Nite e del trucco come armatura – sa che il suono di Ace era la scintilla che faceva partire l’esplosione. Ogni assolo sembrava un decollo, ogni nota un razzo che bucava il buio.

            Nel pantheon del rock, Frehley era l’anima più ironica, più fragile, più umana del gruppo. Gene Simmons e Paul Stanley erano i generali, lui era l’astronauta. Il suo “Space Ace” nasceva come il personaggio di un fumetto, ma divenne presto una leggenda viva, capace di unire il virtuosismo alla teatralità, la tecnica alla fantasia. Le sue chitarre fumavano, letteralmente. Le sue dita correvano leggere e incendiate, e noi ragazzi lo guardavamo come si guarda un eroe di un film che non finisce mai.

            Nel 1982 lasciò la band, quando i Kiss decisero di togliere il trucco e affrontare il mondo a viso scoperto. Ace non ci riuscì. Aveva bisogno del suo personaggio, di quella maschera che non nascondeva, ma liberava. Continuò da solo, con i Frehley’s Comet, alternando tour, eccessi, cadute e rinascite. Negli anni Novanta tornò per una reunion trionfale: la vecchia banda di nuovo insieme, quattro maschere, quattro archetipi, un suono che sembrava ancora nuovo.

            Nel 2014 entrò nella Rock and Roll Hall of Fame, dove i Kiss furono premiati come una delle band più influenti della storia. Era felice, e commosso. Nelle ultime interviste aveva detto di voler essere ricordato “come un uomo schietto, fedele alla propria musica, rispettato dai colleghi”. Lo era. Aggiungeva: “Ho portato felicità a molte persone, e tanti ragazzi mi dicono di essere riusciti a disintossicarsi grazie a me. Se ce l’ho fatta io, possono farcela anche loro”. Era questo il suo vero superpotere: non la chitarra che lanciava razzi, ma il coraggio di dire che la fragilità non è una vergogna.

            Paul Stanley lo ricordava così: «Nel 1974 lo sentii suonare in una stanza d’albergo. Pensai: vorrei che quel ragazzo fosse nella mia band. Era Ace». Gene Simmons ha scritto: «I nostri cuori sono spezzati. Nessuno potrà mai eguagliare la sua eredità. Amava i suoi fan, e ci mancherà per sempre». Peter Criss, il batterista con cui aveva condiviso la nascita della leggenda, ha aggiunto: «Era mio fratello. È morto serenamente, circondato da chi lo amava. La sua eredità vivrà nei cuori di milioni di persone».

            Ace era uno di quei pochi che riuscivano a restare bambini anche sul palco. Quando lo vedevi sorridere sotto la maschera d’argento, capivi che dietro al rock c’era un’anima buona. Uno che non cercava di essere un dio, ma un amico. Forse per questo lo abbiamo amato così tanto. Perché in quel trucco c’era il sogno di ognuno di noi: salire su un palco e non avere più paura.

            Oggi che la notizia corre tra social e redazioni, chi lo ha ascoltato da ragazzo sente un vuoto diverso, personale. È la fine di un’epoca, quella in cui il rock aveva ancora la forza di sembrare eterno. Ace Frehley era il suono della libertà, il fumo che saliva da una chitarra in fiamme, il sorriso dietro la maschera di uno Spaceman che non voleva tornare sulla Terra.

            E mentre la sua musica continua a girare nei vinili graffiati delle nostre camerette, viene naturale pensare che sì, forse aveva ragione lui: la sua eredità durerà centinaia d’anni. Perché chi ti insegna a sognare non muore mai davvero.

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              Caso Epstein, Melania Trump pronta a chiedere oltre un miliardo a Hunter Biden: “Accuse false e diffamatorie”

              Melania Trump ha minacciato una causa miliardaria contro Hunter Biden per aver dichiarato che sarebbe stato Epstein a presentarla al marito. Intanto i democratici puntano il dito sul trasferimento di Ghislaine Maxwell in un carcere meno severo.

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                Melania Trump è passata al contrattacco. La first lady americana ha annunciato l’intenzione di fare causa a Hunter Biden, chiedendo un risarcimento da oltre un miliardo di dollari, dopo che il figlio del presidente ha affermato che sarebbe stato Jeffrey Epstein – il finanziere condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori – a presentarla a quello che poi sarebbe diventato suo marito. Una ricostruzione definita dai legali di Melania “falsa, denigratoria, diffamatoria e provocatoria”.

                Le dichiarazioni di Biden risalgono a un’intervista di inizio mese, in cui aveva ripercorso i rapporti tra il presidente e il miliardario pedofilo, sottolineando vecchie frequentazioni poi interrotte “agli inizi degli anni Duemila”, come lo stesso Trump ha sempre sostenuto.

                Ma la vicenda non si ferma qui. I democratici della Commissione Giustizia della Camera hanno sollevato un polverone sul trasferimento di Ghislaine Maxwell – ex compagna e complice di Epstein – in un carcere federale del Texas con regime meno restrittivo. La donna, condannata a 20 anni, era detenuta a Tallahassee, in Florida, ma è stata spostata subito dopo un incontro con il vice procuratore generale Todd Blanche.

                Secondo il deputato Jamie Raskin, leader dei democratici in Commissione, il trasferimento “offre maggiore libertà ai detenuti” e “prima di questo caso era categoricamente vietato per chi fosse condannato per molestie sessuali”. In una lettera al procuratore generale Pam Bondi e al direttore del Bureau of Prisons William K. Marshall, Raskin parla di “preoccupazioni sostanziali” su possibili pressioni per indurre Maxwell a fornire una testimonianza favorevole al presidente, “violando le stesse politiche federali”.

                Un’accusa che, in un contesto già incandescente, riaccende i riflettori sul nodo più imbarazzante per la Casa Bianca: i rapporti passati tra il presidente e Jeffrey Epstein.

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