Sic transit gloria mundi
Dove sono finiti i centri per migranti di Tirana?
Avrebbero dovuto aprire in queste ore i famosi centri per migranti in Albania, ma a Schengjin e Gjiader ci sono solo ruspe e promesse vuote. L’inaugurazione trionfale tanto decantata da Giorgia Meloni è rimandata a data da destinarsi, e la visita della premier, prevista per il 27 maggio, è stata cancellata. Un progetto-vetrina che doveva essere un esempio per l’Europa si rivela l’ennesima chimera, con cantieri aperti e norme inesistenti.
Avrebbero dovuto aprire in queste ore, ma a Schengjin e a Gjiader ci sono solo le ruspe. L’inaugurazione in pompa magna dei centri per migranti in Albania che – dice Giorgia Meloni – “mezza Europa ci invidia”, come ampiamente previsto, è rimandata a data da destinarsi, probabilmente non prima dell’autunno.
E rinviata è anche la visita in Albania che la premier aveva annunciato per il 27 maggio per verificare l’avanzamento dei lavori di quell’idea (l’esternalizzazione delle richieste di asilo in Paesi terzi) che adesso quindici Paesi vorrebbero copiare per provare a non fare entrare sui loro territori migranti che si ritiene debbano essere rispediti indietro. Niente da fare.
Elezioni in vista
Altro che inaugurazione prima delle elezioni europee. Quello che sarebbe stato uno splendido spot per il governo per dimostrare l’efficacia di quell’approccio securitario che l’Europa ha finito per condividere con l’approvazione del nuovo Patto asilo e migrazione non ci sarà prima di molti mesi.
Un appalto milionario
Il progetto delle strutture, che il ministero della Difesa ha affidato alla Akkord del barese Fabrizio Palmiotti, presidente di Rete imprese Puglia, è ancora allo stato iniziale. E arrivati alla data del 20 maggio viene fuori la fuffa elettorale dei centri, con l’appalto milionario alla Medihospes.
Ci sono solo le ruspe
La società, che a partire da oggi è pronta a fornire tutti i servizi per la gestione dell’accoglienza dei migranti, si trova davanti la desolante realtà delle due aree in cui dovranno sorgere i centri. Le ruspe del genio militare stanno ancora lavorando agli sbancamenti e alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, totalmente assenti. Consegna dei lavori, come si legge nella determina di affidamento dei lavori da parte del ministero della Difesa, prevista per fine ottobre.
Zero
E d’altra parte anche l’impianto normativo e organizzativo che dovrà accompagnare tutta l’operazione è a zero. Il ministro dell’Interno Piantedosi da mesi annuncia una modifica alla norma del decreto Cutro sulla cauzione da 5.000 euro richiesta ai migranti, unica alternativa alla detenzione amministrativa, su cui la Corte di giustizia europea non si pronuncerà prima di diversi mesi.
Ancora nessuna traccia
Ma della modifica allo studio degli uffici legislativi dei ministeri di Grazia e Giustizia e Interni ancora nessuna traccia. Così come delle speciali commissioni prefettizie da destinare all’esame delle richieste di asilo dei migranti provenienti da Paesi sicuri selezionati a bordo delle navi militari italiane che li dovessero soccorrere in acque internazionali.
Progetto vetrina o boutade elettorale?
Insomma, il progetto-vetrina del Governo Meloni si dimostra una chimera, con promesse che si scontrano con una realtà fatta di cantieri aperti e norme in sospeso. Lungi dall’essere un esempio da seguire, resta ancora un miraggio lontano, una bella favola che rischia di trasformarsi in un incubo elettorale.
Avanti così, che la strada del nulla è spianata
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Sic transit gloria mundi
Non solo Giorgia Meloni: i conti bancari di politici e imprenditori spiati illegalmente
Licenziato e sotto inchiesta, il dipendente ha creato un clima di sorveglianza illegale che la procura di Bari sta investigando. Tra i nomi spiati figurano quelli di La Russa, Emiliano e il procuratore nazionale antimafia Melillo.
Forse non tutti i complotti che Giorgia Meloni vede intorno a sé sono immaginari. Perché, diciamocelo, quella dell’underdog della politica è una parte che le riesce piuttosto bene. Ma, ahimè, sembra che qualcuno ci abbia messo del suo per darle ragione. Spunta infatti la notizia che un dipendente di Intesa Sanpaolo si è preso la briga di sbirciare migliaia di conti correnti, tra cui quelli di personaggi noti e… guarda caso, proprio di membri del governo.
Ora, immaginate la scena: Giorgia Meloni, la sorella Arianna, l’ex Andrea Giambruno, e persino i ministri Santanché e Crosetto, tutti con i loro conti bancari passati ai raggi X da questo “curioso” impiegato. E no, non è che parliamo di uno scivolone tecnico: il tizio è stato licenziato in tronco (giusto l’8 agosto) e ora è sotto inchiesta. La privacy dei conti bancari, specie di quelli ipersensibili, non è proprio roba da prendere alla leggera.
L’inchiesta, portata avanti dalla procura di Bari, si aggiunge alla lunga lista di spiate e hackeraggi che sembrano essere diventati il passatempo preferito in Italia. La mole di dati spiati? Enorme, dicono le fonti. E non solo i politici sono finiti nel mirino: imprenditori, sportivi, militari… tutti schedati, come se fosse un catalogo Ikea. Insomma, il funzionario si è fatto prendere la mano.
Tra i tanti “curiosati”, oltre ai già citati volti noti del governo, ci sono pure il presidente del Senato Ignazio La Russa, Raffaele Fitto e governatori di regioni come Michele Emiliano e Luca Zaia. Per non farsi mancare nulla, si è aggiunto pure il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo.
Quindi, cara Giorgia, forse stavolta il complotto c’è davvero…
Sic transit gloria mundi
Il ministro dell’apparenza Carlo Nordio e la guerra santa dichiarata a giornalisti e magistrati
Il ministro della Giustizia ha deciso di concentrare i suoi sforzi non sulla lotta alla criminalità organizzata o sulla prevenzione delle violenze domestiche e dei femminicidi, ma sull’approvazione di leggi controverse e sulla limitazione delle intercettazioni. Non manca, poi, l’impegno nel cercare di mettere un bavaglio alla stampa libera, attaccando chiunque tenti di opporsi al suo operato, mentre le carceri italiane versano in condizioni sempre più disastrose.
Che Carlo Nordio sia considerato “uno dei ministri più attivi” del governo fa sorridere. E la dice lunga sul livello dei suoi colleghi di Governo. O forse è considerato super impegnato per la sua inclinazione a destreggiarsi tra interviste e convegni, a cui presenzia spesso e volentieri. Ma basta guardare al suo operato per chiedersi: attivo in cosa, esattamente? Di certo, non lo è nel contrastare la criminalità organizzata o nell’affrontare l’aumento preoccupante di violenze domestiche e femminicidi che colpiscono il nostro Paese. O nel trovare soluzioni per risolvere i problemi tremendi delle carceri. In realtà, l’unica cosa in cui appare non solo attivo, ma addirittura solerte, è scontrarsi con giornalisti, stampa libera e, soprattutto, con i suoi stessi colleghi magistrati alla ricerca di tutti i modi impossibili per rendere difficile se non inutile il loro lavoro.
In due anni di governo, Nordio ha portato a casa una sola legge, quella sull’abuso d’ufficio, approvata il 25 agosto. Ed è così raffazzonata che probabilmente la Corte Costituzionale dovrà rimediare ai danni creati rispedendola al mittente. Insomma, un ministro attivo? Forse sì, ma certamente non nel dare risposte concrete ai problemi che affliggono il sistema giudiziario italiano.
In questo clima di inazione, Nordio trova però il tempo per ribadire, in ogni occasione pubblica, che non ci sono margini per sollevare questioni di costituzionalità sul reato soppresso di abuso d’ufficio. Ma la realtà lo contraddice: da Perugia è già partito un ricorso, e altri seguiranno. Sarà la Corte Costituzionale a decidere se il vuoto normativo creato da questa riforma sia accettabile o meno. Nel frattempo, il caos regna.
Norme confuse e rischi per la giustizia
Non basta l’incertezza creata dall’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Nordio ha introdotto anche una norma che impone ai pubblici ministeri di interrogare i potenziali arrestati prima di procedere con l’arresto. Un pasticcio che sta già causando problemi alle indagini. Come segnalato da diversi procuratori, tra cui quello di Foggia, far conoscere agli indagati le prove a loro carico potrebbe inquinare le indagini, alimentare alibi fasulli e persino scatenare intimidazioni.
Una battaglia ideologica, non strutturale
La battaglia di Nordio non sembra rispondere a nessuna delle necessità concrete della giustizia italiana, bensì a una visione puramente ideologica. Anziché concentrarsi su interventi più urgenti e strutturali, aggrava la repressione verso chi manifesta dissenso e chi, come la stampa libera, ha il compito di vigilare su un mondo – quello della politica – che spesso preferisce le tenebre alla luce, in modo da nascondere le proprie malefatte spazzandole sotto il classico tappeto. Il Guardasigilli sembra più un garante di interessi di parte che un paladino della giustizia.
Il disastro delle carceri
Nel frattempo, nelle carceri italiane, le condizioni restano disastrose. Dall’inizio dell’anno, 72 detenuti e 7 agenti penitenziari si sono tolti la vita. Un dato allarmante, ma il nostro prode ministro della Giustizia sembra preferire sfilate internazionali, come l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario a Londra, anziché affrontare le problematiche quotidiane del sistema penitenziario.
E mentre questo disastro si consuma, Nordio firma insieme a Matteo Piantedosi un disegno di legge sulla sicurezza, che prevede una miriade di nuovi reati improbabili. Che, contro il suo stesso credo garantista, finiranno per riempire le prigioni di nuove tipologie di detenuti: quelli che fanno i blocchi stradali, gli ecologisti troppo accesi, i giornalisti non allineati. Il provvedimento è stato così deriso dall’ex presidente delle Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, che in un editoriale lo ha definito “inutile e pericoloso”, una vera e propria “lenzuolata di reati à go-go”. Tra le assurdità della nuova legge, c’è anche una norma che prevede di incarcerare i figli delle detenute madri, un provvedimento che non risolve alcun problema ma rischia solo di peggiorare le già precarie condizioni delle prigioni italiane.
La difesa dei potenti e il bavaglio alla stampa
Un’altra battaglia su cui Nordio è molto attivo è quella contro la legge Severino, che obbliga gli amministratori locali condannati in primo grado a dimettersi. Per il ministro, questo provvedimento viola la presunzione di innocenza e andrebbe modificato. Ma non si può fare a meno di chiedersi chi Nordio stia cercando di proteggere: i cittadini comuni o i colletti bianchi? La risposta sembra abbastanza chiara.
E poi c’è la questione delle intercettazioni. Nordio ha fatto capire che il suo obiettivo è quello di limitarne al massimo l’uso, riducendo la loro durata a 45 giorni, a meno che non si tratti di reati gravissimi. Questo, insieme alla riduzione degli ascolti tramite il Trojan e all’impossibilità di intercettare le conversazioni tra avvocati e clienti, mostra chiaramente la sua volontà di ridurre le possibilità di indagine, non di ampliarle.
Come se non bastasse, il ministro sta cercando di mettere un bavaglio alla stampa, vietando la p Come se non bastasse, il ministro sta cercando di mettere un bavaglio alla stampa, vietando la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare. Un provvedimento che ha sollevato forti critiche da parte di associazioni come la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti, che hanno definito la norma “liberticida” e contraria ai principi democratici. La direttiva sulla presunzione di innocenza del 2016 non richiede affatto un bavaglio del genere. Eppure, Nordio sembra deciso a procedere in questa direzione, appoggiato da esponenti della maggioranza.
L’ambiguità delle regole e l’attacco alla giustizia
Appare evidente, allora, che dietro l’insistenza con la quale la destra invoca una revisione delle regole in senso restrittivo, e più in generale nel modo in cui continua ad affrontare le questioni della giustizia, vi sia una motivazione di natura ideologica più che giuridica. Lo fanno pensare anche certe ambiguità, per esempio nel distinguere tra regole che riguardano le indagini, e quindi il lavoro dei magistrati, e regole che riguardano la diffusione delle notizie, e quindi il lavoro dei mezzi di informazione.
Nell’ambiguità, infatti, diventa più facile usare eventuali eccessi della stampa per proporre un irrigidimento delle regole che riguardano gli strumenti investigativi a disposizione di chi indaga. Ed è proprio ciò che sta accadendo: un attacco coordinato che mira non tanto a tutelare i diritti dei cittadini, ma a limitare gli strumenti di chi indaga e di chi racconta la verità.
Sic transit gloria mundi
Fedez e la Saga tra tifosi e guai: la discesa agli inferi del re dei social che gioca a fare il cattivo
Non è una serie Netflix, ma la storia di Federico Lucia, alias Fedez, è diventata un perfetto mix di polemiche, donne bellissime,, legami pericolosi e il solito cocktail di prepotenza e potere che devasta l’élite italiana.
La saga di Fedez sembra una di quelle serie truci che si divorano su Netflix. Un romanzo della caduta di un idolo nazionalpop, intriso di guai giudiziari, tensioni coniugali e frequentazioni pericolose. Solo che non è finzione, è la cruda realtà di Federico Lucia, il ragazzo della porta accanto che diventava “il polemista di tutti”, il papà perfetto che sembrava avere tutto sotto controllo. Un modello per molti, forse fino a un paio d’anni fa.
Ora la sua vita somiglia sempre più a una discesa verso i guai: legami con tifoserie malavitose, una separazione turbolenta con Chiara Ferragni, e quel nome che spunta nelle inchieste sulla ndrangheta, non per accuse dirette, ma per contatti poco edificanti.
E pensare che c’era un tempo in cui l’Italia si era affidata a lui. Era il polemista di riferimento, perché la politica era divisa, era il papà che mostrava il lato dolce della paternità mentre tanti altri trentenni faticavano tra precariato e difficoltà quotidiane. Lo seguivamo non solo per le sue canzoni o per Chiara, ma perché insieme rappresentavano un fenomeno culturale. Una coppia reale con il reality show a portata di social.
Ora però tutto è cambiato. Niente più bambini sui social, una separazione amara, e lo spuntare del suo nome in ambienti non proprio raccomandabili. Certo, Fedez non è indagato, ma la sua frequentazione con Christian Rosiello, guardia del corpo arrestata che partecipò al pestaggio di Christian Iovino, il ragazzo del caffè presunto amante di Ilary Blasi, uno con cui il cantante aveva litigato in discoteca .E Luca Lucci, capo ultrà con precedenti per narcotraffico, non passano inosservate. E il fatto che a uno come Lucci, Fedez aveva chiesto di trovare una persona fidata «che potesse occuparsi della sicurezza sua e della sua famiglia» la dice lunga sulle sue scelte di vita, Che oramai, puntualmente, fanno scattare i gossip e preoccupano i fan.
Lui, che voleva lanciare il soft drink Boem con la benedizione di Lucci a San Siro, sembra ormai immerso in un mondo fatto di locali fighetti, criminali e discussioni da social. A chiedere protezione proprio a uno come Lucci per la sua sicurezza e quella della famiglia, ci si chiede se Fedez abbia perso del tutto il contatto con la realtà o, come dicono in molti, “serà ‘nammurato” dei guai.
E mentre i pettegolezzi continuano, tra vacanze turbolente in Costa Smeralda e botta e risposta con il rapper Tony Effe, Fedez ci regala un altro pezzo della sua complessa storia. Una saga che riflette l’Italia di oggi, fatta di criminalità, tifo sfrenato, influencer, abiti griffati e quella cocaina che sembra non risparmiare nessuno.
La serie, se qualcuno volesse girarla, potrebbe chiamarsi “Secondo anello”, come quello di San Siro, terreno di gioco di Lucci e simbolo di questa narrazione tra folla e corruzione. E mentre la saga continua, noi ci chiediamo dove si arriverà alla prossima puntata.
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