Sic transit gloria mundi
USA: chitarre e canzonette mentre l’Ucraina brucia
Mentre i russi avanzano e l’Ucraina crolla, il segretario di Stato americano Blinken ha trovato la soluzione: imbracciare una chitarra e cantare Neil Young in un pub di Kiev. Perché niente dice “supporto” come un assolo di chitarra mentre la gente muore. Suonala ancora, Anthony.

Ah, l’America! Terra delle opportunità, della libertà e, a quanto pare, dell’ironia più sfacciata. Mentre Kharkiv cade sotto i colpi dei russi e la resistenza ucraina si sgretola, il segretario di Stato americano Antony Blinken decide di fare cosa? Di volare a Kiev e imbracciare una chitarra. Sì, avete capito bene. Dopo aver negato per mesi armi e aiuti concreti costringendo la resistenza di Kiev in ginocchio, Blinken ha scelto di esibirsi con una cover di “Rockin’ in the Free World” di Neil Young. Forse pensava che un po’ di rock potesse fermare i tank russi o alleviare le sofferenze dei civili sotto assedio.
Immaginate la scena: Blinken, sul palco del night club Diktat, con una chitarra in mano, mentre dichiara con un tono solenne: “So che questo è un momento molto, molto difficile, ma dovete sapere che gli Stati Uniti sono con voi…”. Ah sì, come no. Magari tra un assolo di chitarra e un riff, Blinken pensava di convincere i soldati ucraini che la musica potesse fare da scudo contro i proiettili.
La performance di Blinken è l’apoteosi dell’ipocrisia americana. Per mesi, l’amministrazione USA ha promesso sostegno a parole, mentre gli aiuti concreti tardavano ad arrivare. E intanto, il popolo ucraino moriva, combatteva e resisteva. Ma l’importante, per l’America, era fare la propria bella figura sul palcoscenico internazionale, anche a costo di suonarsela e cantarsela da soli.
Nel frattempo, Volodymyr Zelensky, stremato e disperato, non ha potuto fare altro che guardare verso la Cina. In un’intervista all’Afp, ha espresso il desiderio di vedere Pechino coinvolta nella conferenza sulla pace organizzata dalla Svizzera a giugno. Un’apertura timida, ma significativa, data la latitanza degli aiuti occidentali.
La realtà è che Zelensky si trova in una posizione impossibile. Senza soldati da mandare al fronte e con gli aiuti americani che arrivano col contagocce, le sue possibilità di dettare le condizioni di un eventuale cessate il fuoco sono nulle. Per Putin, la presenza di Zelensky al tavolo negoziale sarebbe un’onta insopportabile. Il “grande Zar” non può tollerare che l’ex comico, che ha osato sfidarlo, rimanga in carica.
Gli ucraini, stremati da due anni e mezzo di conflitto, sono altrettanto disillusi. I consensi per Zelensky, che all’inizio del conflitto toccavano il 94%, ora arrivano a malapena al 50%. La gente è esausta, i bombardamenti incessanti hanno distrutto la speranza e la fiducia.
Ma almeno l’America è con loro, giusto? Con le sue canzoni, le sue promesse vuote e le sue performance imbarazzanti. Perché nulla dice “supporto” come un assolo di chitarra mentre una nazione viene rasa al suolo. E così, mentre Blinken canta il mondo libero, l’Ucraina continua a morire in silenzio.
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Sic transit gloria mundi
“Comunisti no, gay solo se non sculettano”. Il delirio dello chef stellato in cerca di personale
Dalla nostalgia per la cucina “da caserma” agli insulti ai giovani cuochi, passando per i tatuaggi di Mussolini e la svastica: lo chef stellato Paolo Cappuccio racconta il suo personale concetto di rigore. Un concentrato di luoghi comuni, rancore sociale e arroganza padronale condito da accuse pesanti e zero autocritica.

C’è chi usa i social per condividere piatti e ricette. E poi c’è Paolo Cappuccio, chef napoletano classe 1977, che ha preferito farlo per pubblicare un post a metà tra la bacheca fascistoide e lo sfogo da bar sport. Il testo – rimosso dopo insulti e minacce di morte – vietava l’assunzione di «fancazzisti, comunisti, drogati, ubriachi e per orientamento sessuale». E ora lo chef stellato, lungi dal fare marcia indietro, rivendica ogni parola.
«Da dopo il Covid i dipendenti fanno quello che vogliono», attacca. «Un cuoco arriva in ritardo e ti dice che se non ti va bene se ne va. Lo riprendi? Si mette in malattia. E il medico lo giustifica pure». Il quadro che dipinge è quello di un’Italia dove gli chef sono martiri e gli stagisti dei ricattatori seriali. Ma per Cappuccio la colpa non è solo dei giovani. È dei “comunisti”.
«Il dipendente comunista lo riconosci subito», assicura con inquietante certezza. «Si lamenta della mensa, vuole sapere la tredicesima prima ancora di iniziare. Quelli di destra invece sono operosi e vogliono diventare titolari. La differenza è abissale». E pazienza se nel 2025 parlare così significa semplicemente fare propaganda da osteria.
Poi ce l’ha con MasterChef, i “cuochi cocainomani del Nord”, i dipendenti con le “devianze sessuali”. E con chi? Con chi osa presentarsi col “pantalone calato” o, peggio, «con i tacchi a sculettare in cucina». Come si distingue, secondo lui, un gay accettabile da uno “sbagliato”? Non lo dice, ma lo fa capire. La linea è sottile, quanto una padella sporca: «Se sei serio e lavori, sei dei nostri. Altrimenti, no».
Quando si parla dei tatuaggi – Mussolini, svastica, Altare della Patria – si passa dal ridicolo al tragico. «Se vietano la falce e martello mi cancello la svastica», dice con candore. «Per me è solo una protesta». Non contro la storia o i crimini del nazismo, ma «contro i radical chic che parlano di poveri e poi vanno in Costa Azzurra». Applausi. Ironici.
«Siamo schiavi dei dipendenti», si lamenta ancora. Una frase che detta da un datore di lavoro suona quanto meno surreale, se non offensiva. Ma l’uomo non fa una piega. Anzi, rilancia: «Nel mio albergo ho beccato anche un pedofilo. Ma non l’ho potuto licenziare. Giusta causa? Non esiste».
Che lo chef abbia avuto esperienze negative con parte del suo personale non è in discussione. Che la sua risposta sia un mix di disprezzo sociale, semplificazioni ideologiche e pregiudizi sessisti, purtroppo neppure. Se i giovani cuochi fuggono da brigate tossiche, forse una riflessione servirebbe. Ma a Cappuccio non interessa. Troppo impegnato a contare i “like” tra nostalgici e reazionari.
E, si spera, a cancellare le prenotazioni di chi, la roba cucinata da uno chef così, non vuole neppure annusarla da lontano.
Sic transit gloria mundi
Da Sanremo al Circo Massimo, passando per Springsteen: il vero tour dell’estate è quello di Elly Schlein
La segretaria del Pd beccata a San Siro con la compagna Paola Belloni per il concerto di Springsteen. Applausi, selfie (mai pubblicati) e un messaggio chiaro: Elly è ovunque, tranne che dove dovrebbe esserci. E cioè, sul fronte dell’opposizione.

Mentre la destra impone l’agenda e il Paese affoga tra crisi economiche, follie trumpiane e guerra internazionali, Elly Schlein canta “Born to Run” sotto il palco di Bruce Springsteen, abbracciata alla sua compagna Paola Belloni. Una serata da “coppia dem rock” come la chiamano i fan, tra le star di Hollywood e i soliti influencer italiani. Solo che lei non è un’influencer. O non dovrebbe esserlo.
La segretaria del Pd è stata avvistata a San Siro mentre si godeva tre ore di rock e sudore con il “Boss”, circondata da Gigi Hadid, Bradley Cooper e Olivia Wilde. Con lei, la sua compagna storica, Paola Belloni, che a fine serata ha condiviso su Instagram un post pieno di entusiasmo: «Bruce ha cantato, ballato, urlato per tre ore. Steve, operato da quattro giorni, ha suonato con lui. Io, 36 anni, sto abbracciata al Voltaren perché ero sottopalco».
Ecco, forse è lì il problema: sottopalco. Sempre lì. Perché Schlein sembra vivere ormai perennemente in una tournée parallela. Dopo i duetti con Annalisa al Pride, il freestyle con J-Ax, il karaoke sanremese, le cover dei Cranberries alla Festa dell’Unità e i video da fangirl per Brunori, il suo Pd sembra più un fan club che un partito d’opposizione.
Che Schlein sia appassionata di musica è noto. Suona la chitarra, si diverte, ha gusti indie e mainstream. Ma c’è chi, tra i suoi stessi elettori, comincia a chiedersi se abbia ben chiaro che la politica non è una scaletta da concerto. La sua compagna chiede rispetto per la privacy — giustamente — ma Elly sotto i riflettori ci si piazza con entusiasmo. Tranne quelli del Parlamento.
Nel frattempo, Fratelli d’Italia avanza, Maloni governa, e l’opposizione viene affidata a una “story” su Instagram o a una pagella social post-Sanremo. I fan saranno anche felici. Gli elettori un po’ meno. Perché se la Schlein non capisce che la sua missione non è ballare coi Boss, ma suonarle alla destra, allora qualcuno dovrebbe suggerirle che forse è arrivato il momento di cambiare palco.
Sic transit gloria mundi
Non plus ultras: condannato l’ex bodyguard di Fedez
Christian Rosiello, vicino alla Curva Sud e per anni guardia del corpo del rapper, finisce nei guai con altri ultrà storici di Milan e Inter

A San Siro, si diceva, le curve comandano. E infatti, per anni, i veri padroni dello stadio sono stati loro: gli ultras della Sud rossonera e della Nord nerazzurra. Ma ora la giustizia presenta il conto. E il conto è salato.
Christian Rosiello, ultrà milanista ed ex bodyguard di Fedez (che non risulta indagato), è stato condannato a quattro anni e venti giorni di reclusione per associazione a delinquere, nel secondo processo abbreviato legato alla maxi inchiesta su estorsioni, traffici illeciti e gestione violenta delle curve dello stadio Meazza.
Con lui, sono finiti condannati anche Francesco Lucci, fratello del più noto Luca Lucci (ex leader della Curva Sud, già condannato), che si è preso 5 anni e 6 mesi, e Riccardo Bonissi, condannato a 3 anni e 8 mesi.
Il verdetto è arrivato dalla sesta sezione penale del Tribunale di Milano, che ha accolto le richieste della Procura dopo un’indagine durata mesi, condotta dalla Digos e dalla Guardia di Finanza. Al centro del fascicolo: un sistema capillare di potere nelle curve, tra minacce ai club, bagarinaggio, vendita abusiva di merchandising e uso sistematico della violenza.
Le nuove condanne arrivano a pochi giorni da quelle inflitte ai vertici storici della tifoseria: Luca Lucci e Andrea Beretta, quest’ultimo ex capo della curva interista, entrambi condannati a 10 anni di carcere.
Il nome di Rosiello, figura nota nell’ambiente milanese anche per essere stato per un periodo nella scorta personale di Fedez, è uno dei più visibili fra quelli emersi nell’inchiesta. Per gli inquirenti, avrebbe avuto un ruolo attivo nell’organizzazione criminale che controllava la Curva Sud.
Un sistema, quello delle curve milanesi, che ora si scopre marcio ben oltre i cori da stadio.
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