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Sonar: tra suoni e visioni

Linus, profeta del nulla musicale: un orecchio smarrito tra Sanremo e il Live Aid

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    A due mesi da Sanremo, il direttore di Radio Deejay Linus dichiara il vuoto musicale assoluto. Ma sarà davvero così? L’icona radiofonica punta il dito contro un festival che non avrebbe lasciato traccia, tranne Cuoricini dei Coma Cose. Eppure, mentre il grande conoscitore musicale dispensa giudizi definitivi, riemergono clamorose gaffe musicali del passato, dal Live Aid ai nomi leggendari scambiati per comparse. Un’analisi ironica su chi dovrebbe raccontarci la musica… e forse dovrebbe ascoltarla un po’ meglio.

    Sanremo? Tutto da dimenticare… o, al massimo, da fischiettare sotto la doccia)

    Linus — al secolo Pasquale Di Molfetta — lancia il verdetto definitivo: “Non resterà nulla”. Un’apocalisse musicale secondo il decano di Radio Deejay. Con una sola eccezione: Cuoricini dei Coma Cose, che secondo lui sarà l’unico brano ricordato fra dieci anni. Olly? “Un bel personaggio, ma carino e basta.” Lucio Corsi e Brunori? “Hanno fatto di meglio”. Strano però… perchè quando andavo ai primi concerti di Corsi o di Brunori io Linus non l’ho mai notato fra lo sparuto pubblico che li animava…

    Me contro te

    Giudizi secchi, senza appello, quelli di Pasquale Di Molfetta. Ma siamo sicuri che Linus rappresenti il termometro musicale del paese? Ne avrei di aneddoti da riferire… come la sua precisa avversione per i Marillion con Steve Hogarth alla voce. Ma servirebbe a qualcosa? Lui rimane sempre e comunque un celebrato operatore musicale ed io un normalissimo giornalista, oltretutto affetto da periodici attacchi di nostalgia per la buona musica. Non certo quella che popola il palinsesto medio di Radio Deejay.

    Quando Linus commentava il Live Aid… senza riconoscere David Gilmour

    Sarà anche un’autorità radiofonica, ma il suo orecchio, in passato, ha preso sonore cantonate. Memorabile il disastro durante la diretta italiana del Live Aid, quando Linus non riconobbe l’imprescindibile David Gilmour sul palco con la band di Bryan Ferry.

    Un momento del set di Brian Ferry con, al suo fianco, David Gilmour

    Poi fece, se possibile, anche di peggio: scambiò il seminale Bo Diddley special guest durante il set di George Thorogood e dei suoi “distruttori” – per un “anonimo musicista” e corresse in diretta Kay Rush, che aveva giustamente identificato la chitarra di Gilmour come “Fender”. Lui, con il fare da saputello, la corresse in diretta: “Eh no, cara Kay… quella non è una Fender, è una Stratocaster!”. Come dire… quella non è una Fiat, è una 127! Una figuraccia epocale, soprattutto per uno che oggi si erge a custode della memoria musicale.

    Ho chiesto all’AI di creare un’immagine che mi vedeva in compagnia di Linus, in un ipotetico “duello radiofonico”, mai avvenuto in realtà. L’intelligenza artificiale mi ha fatto più grasso di quello che sono… mentre lui assomiglia all’inflessibile e spietato maestro di musica del film Whiplash, interpretato dall’ottimo Jonathan Kimble Simmons. Se non l’avete visto… recuperatelo!

    Il Festival della memoria corta

    È vero: Sanremo 2025 non ha forse prodotto tormentoni come in passato. Ma dichiarare “il nulla musicale” quando il pubblico canticchia a piè sospinto Volevo essere un duro di Lucio Corsi o La cura per me di Giorgia (in questo caso… ci prova senza riuscirvi dignitosamente), fa pensare più a una crisi d’ascolto personale che a un’emergenza collettiva. Forse Linus, che viene dal mondo nel quale le canzoni si ascoltavano con la moneta da 100 lire, faccia fatica a digerire TikTok e i trend digitali? Beh, almeno su questo aspetto generazionale siamo abbastanza allineati.

    Serie B o Serie Vintage?

    Nel suo sfogo, Linus ammette: “Ho sempre avuto la sensazione di essere il primo della Serie B.” Un cruccio che sembra più dettato dalla tv che dalla radio. Ma la verità è che la “Serie A” dello spettacolo (Fiorello, Bonolis, Amadeus) ha saputo reinventarsi nel tempo. Lui no. Lui è rimasto lì, saldo in cabina, a dire che “una volta era meglio”, mentre i podcast lo superano a destra e Spotify ruba ascolti a Radio Deejay.

    La pensione? Magari con un po’ di musica in cuffia

    A 67 anni, Linus confessa di pensare alla pensione. “Non voglio che la gente dica: ‘Ma è ancora lì?’” Forse il momento giusto per lasciare davvero, prima che l’eco del passato diventi più rumorosa delle sue playlist. Magari, nel tempo libero, potrà finalmente imparare a riconoscere David Gilmour in un solo dei Floyd… senza l’ansia della diretta.

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      I Duran Duran come il vino di pregio: invecchiato bene… ma addizionato coi glitter

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        Chi l’avrebbe mai detto? I Duran Duran, quelli del ciuffo perfetto e dei patinatissimi video targati MTV, sono riusciti nell’impresa: trasformare il Circo Massimo in una dancefloor galattica, facendolo senza sembrare una cover band di sé stessi. Davanti a un pubblico intergenerazionale – dai nostalgici in felpa “Rio” ai giovani curiosi col cappellino da festival – la band capitanata da Simon Le Bon ha dimostrato che l’età è solo un numero. Se hai un basso funky, un synth ben oliato e un frontman in completo bianco, puoi ancora spaccare. Victoria De Angelis, stavolta, ha deciso di passare. Forse ha visto la scaletta e ha capito che sarebbe stato meglio lasciar perdere. E onestamente, come darle torto?

        Atterrati dallo spazio, ma con i piedi saldi sul groove

        Lo show si apre in modo surreale: i quattro “cosmonauti” Le Bon, Rhodes, Taylor e Taylor scendono sulla Terra con “Velvet Newton”, vestiti come astronauti digitali, e il pubblico li accoglie con entusiasmo. Non c’è bisogno di effetti speciali o piroette fashion: solo una band che ha finalmente fatto pace con la sua eredità e la suona con disinvoltura. È nostalgia? Sì, ma ristrutturata, lucidata e senza polvere. A parte quella del Circo Massimo, ormai location principale – comunque scomoda – per i grandi eventi romani (qui ci vidi Antonello Venditti nel 2001 per la festa-scudetto della Roma e, successivamente, i Genesis nel 2007).

        Classici resuscitati, non solo per i nostalgici

        Dal loro album d’esordio del 1981 spuntano perle che sembrano uscite fresche di giornata: Night Boat, Careless Memories, Planet Earth. Anche chi era seduto con le ginocchia arrugginite si è alzato. E quando arriva Friends of Mine, con un’atmosfera da film horror anni ’70, si capisce che i Duran non erano solo yacht, belle gnocche e champagne, ma anche ombre scure e citazioni gotiche. Se non ve li ricordate così… eravate troppo impegnati a perfezionare il ciuffo alla John Taylor.

        Il piccolo inciampo di Wild Boys? Simon lo supera con eleganza

        Durante l’epocale Wild Boys succede l’imprevisto: un problema tecnico taglia corto l’entusiasmo. Ma Simon Le Bon, senza perdersi d’animo, tira dritto come se nulla fosse. Il resto della scaletta è un mix perfetto di brani cult: A View to a Kill, che ancora regge il titolo di miglior pezzo bondiano di sempre, e Notorious, che scuote i sanpietrini come se gli Chic di Nile Rodgers fossero incarnati sul posto.

        Un momento serio, poi di nuovo tutti a ballare

        Tra una glitterata e l’altra, arriva anche la riflessione, imposta dalla cronaca. Le Bon prende una pausa tra Ordinary World e Come Undone per parlare – con genuina partecipazione – di guerra, pace e normalità. Ucraina, Gaza e il mondo come dovrebbe essere. Per qualche minuto, il Circo Massimo ammutolisce, i telefoni si abbassano, e si respira un attimo di umanità. Ma subito dopo, si riparte con un mash-up azzardato quanto riuscitissimo tra Girls on Film e Psycho Killer dei Talking Heads: perché il passato è sacrosanto ricordarlo… ma anche fatto danzare.

        Nessuna coreografia, solo talento e un sacco di synth

        Niente scenografie spettacolari, nessuna ballerina a rincorrere i ritornelli. Solo loro, gli strumenti e un sacco di groove. Anche se la regia video ha perso i dettagli di qualche assolo, bastava guardare il palco: Nick Rhodes è ancora il Signore dei synth, John Taylor martella il suo basso, Roger Taylor detta il tempo come un orologio svizzero funky. E Simon “Cicciobombo” Le Bon – meno dinamico di un tempo e con tanto di panzetta – canta comunque bene e si diverte di più. Non ha più bisogno di correre: si gode il viaggio…

        Il gran finale per chi ha fatto pace con gli anni ’80

        Il bis è da brividi. Niente accendini, ma migliaia di schermi accesi illuminano Roma come un Blade Runner sentimentale. Save a Prayer tocca il cuore, Rio lo fa battere. Anche il tizio con la maglietta dei Joy Division, fino a quel momento imperturbabile, cede al piedino ritmico: un trionfo!

        Finalmente liberi dal bisogno di piacere a tutti

        Sdoganati dai registi cult, amati da musicisti di ogni genere, da Beck a Lou Reed, passando per i Killers, i Duran Duran si sono presi la loro rivincita. Oggi suonano non per compiacere ma per godersi quello che sono. E forse, come dice lo stesso Simon Le Bon:

        “Meglio adesso che allora”.

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          Sonar: tra suoni e visioni

          Il Cavaliere e la rockstar mancina: che combinazione sorprendente…

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            Cosa c’entrano Silvio Berlusconi e Jimi Hendrix?!? Questa apparentemente sorprendente relazione lega i due personaggi per un dettaglio preciso, che non conoscono in molti. Si tratta del prezioso materiale con cui è stata costruita la bara che contiene il feretro con le spoglie di Silvio Berlusconi.

            Il medesimo materiale

            Il feretro che contiene i resti del Cavaliere è stato realizzato dai maestri artigiani dell’Art Funeral Italy di Caravaggio (BG). Una bara in legno di mogano con striature color rosso bruno proveniente dall’Honduras. Il medesimo legno con cui venivano costruite le leggendarie chitarre di Jimi Hendrix. Fra le tante, la meravigliosa Fender Stratocaster, quella principalmente associata alla sua iconografia, entrata nella storia del rock come simbolo di qualcosa che ha cambiato tutto. Il suo modo di suonare era qualcosa di mai visto prima, a partire dal fatto che continuasse a usare chitarre per destrimani pur essendo mancino. Ciò ha contribuito a creare quel sound unico che noi tutti apprezziamo, lo costringeva infatti a movimenti di dita non ortodossi.

            Un legno particolarmente prezioso

            La bara si chiama 23 Duomo. Per realizzarla ci sono voluti circa 20 giorni, 10 solo per la lucidatura. Il legno con cui è stata realizzata è stagionato e di elevatissima qualità. Il materiale utilizzato è stato ricavato sezionando tronchi interi, in modo da non far perdere al materiale le sue naturali venature, valorizzando in questo modo l’impronta digitale del legname definita figurazione.

            Solo per la verniciatura ci sono voluti 10 giorni di lavoro

            Altra caratteristica peculiare nella realizzazione del feretro è la doppia verniciatura: un processo che ha richiesto ben 10 giorni di tempo. Sulla bara infatti, grazie alla doppia verniciatura del legno è stato possibile creare un duplice effetto, visibile al meglio sotto la luce solare. Il cofano, infatti, risulta perfettamente lucido, in grado di mettere in risalto le venature del pregiato legno. Le parti parti laterali della bara e della cornice sono invece satinate.

            Quanto è costata?

            Il proprietario dell’azienda costruttrice, quando si svolse il funerale di Stato del Cavaliere, non lo svelò per non meglio specificati motivi di riservatezza. Si tratta comunque dello stesso tipo di bara in cui giace l’imprenditore Leonardo Del Vecchio, scomparso nel 2022. L’azienda non ebbe ai tempi contatti diretti con la famiglia Berlusconi, realizzando la bara su commissione per terzi, in quanto solitamente progetta e realizza queste pregiate bare artigianali per diverse agenzie funebri.

            Silvio e Jimi, due personaggi in totale antitesi, legati però dalla passione per le donne (clicca qui per un’altra sorprendente rivelazione)… e per questo aneddoto che avete appena letto. Riposino in pace, amen.

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              Dove riposerà ora Brian Wilson: paradiso o inferno? God only knows…

              Il mondo della musica dice addio a una leggenda che, con la sua arte, ha fatto sognare la California a milioni di persone. Wilson ha insegnato al mondo che anche la fragilità può diventare armonia e che il dolore può generare dtraordinaria bellezza. Con la sua scomparsa, non perdiamo solo un artista, ma un pezzo di cultura musicale del Novecento, che rimane viva nelle sue note, tra spiagge, nostalgia e infinite “Good Vibrations”.

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                Il geniale fondatore dei Beach Boys, è scomparso all’età di 82 anni. Musicista visionario e pioniere del pop-rock, ha rivoluzionato il suono degli anni ’60 con melodie indimenticabili e innovazioni tecniche di straordinaria inventiva. Malgrado un’esistenza segnata da profonde fragilità personali, Wilson ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della musica. Tra i commossi tributi dei suoi compagni di band e l’eredità immortale di capolavori come Pet Sounds, il suo nome rimane simbolo di un sogno americano che continua a risuonare tra le onde del tempo.

                Un addio che commuove il mondo della musica

                A stroncarlo, un disturbo neurocognitivo simile alla demenza, reso noto all’inizio di quest’anno. La notizia ha scosso il mondo della musica, generando una serie di tributi toccanti da parte dei suoi compagni storici di band e da figure iconiche del panorama musicale. Al Jardine, cofondatore dei Beach Boys e amico d’infanzia di Wilson, ha espresso il suo dolore con parole toccanti:

                “Mi sentirò sempre fortunato ad averti avuto nella nostra vita. Eri un gigante umile che mi faceva sempre ridere. Ti sei riunito a Carl e Dennis, e ora cantate di nuovo quelle bellissime armonie.”

                Anche Mike Love e Bruce Johnston hanno ricordato come, insieme a Brian, regalarono al mondo il sogno americano di libertà, ottimismo e gioia:

                “La sua eredità vivrà attraverso le sue canzoni e nei nostri ricordi.”

                L’uomo che fece sognare la California

                Brian Wilson non era solo la voce e l’anima dei Beach Boys: era un compositore geniale che, pur non avendo mai davvero cavalcato le onde con un surf, riuscì a tradurre in musica l’essenza della California. Dai primi successi come I Get Around e Help Me, Rhonda fino alla perfezione armonica di Good Vibrations, Wilson ha trasformato il pop in arte. Durante il periodo d’oro della band (1962-1966), i Beach Boys infilzarono 13 hit nella Top 10 di Billboard, diventando il simbolo musicale di una generazione. Il suo capolavoro, Pet Sounds (1966), ha influenzato i Beatles e cambiato per sempre il modo di concepire un album.

                Paul McCartney dichiarò:

                “È stato Pet Sounds a farmi perdere la testa. Nessuno è davvero istruito musicalmente finché non ha ascoltato quell’album.”

                Genio fragile: tra ombre, abusi e rinascita

                Dietro la genialità di Wilson si nascondeva un’anima tormentata. Vittima di abusi paterni, afflitto da crisi di panico e da una fragilità mentale crescente, Brian si allontanò dalle scene per rifugiarsi nello studio, tra eccessi di ogni tipo e isolamento forzato. Il controverso rapporto con lo psicoterapeuta Eugene Landy divenne quasi una prigionia, fino alla liberazione legale nel 1992. Ma la sua storia non finisce nel buio: nel 2004 completò Smile, l’album maledetto iniziato nel 1967 e poi abbandonato. Accanto a lui, Melinda Ledbetter, l’ex modella e venditrice di Cadillac che divenne la sua ancora di salvezza e moglie:

                “Mi ha salvato la vita. Mi ha restituito fiducia e voglia di vivere.”

                In pochi conoscono il rapporto della famiglia Wilson con Charles Manson

                Un aspetto indiretto e inquietante era quello che legava i Wilson – più precisamente il fratello di Brian, anche lui membro dei Beach Boys – e Charles Manson, il famigerato criminale e leader della “Family” responsabile degli omicidi Tate-LaBianca nel 1969. Nel 1968, Dennis Wilson fece inconsapevolmente entrare Manson nella sua vita che, all’epoca, cercava di lanciare la sua carriera musicale. Dennis, affascinato dalla sua personalità carismatica e dal gruppo di donne che lo seguivano, lo ospitò per mesi nella sua villa a Sunset Boulevard, a Los Angeles. Manson e la sua “Family” si trasferirono nella casa di Dennis, causando danni enormi (si parla di oltre 100.000 dollari tra abusi di proprietà, spese, furti e distruzioni) e instaurando una presenza sempre più inquietante. Manson voleva diventare una rockstar. Incise alcune demo, e Dennis inizialmente tentò di aiutarlo, portandolo in studio e presentandolo ad alcuni produttori. I Beach Boys arrivarono persino a riarrangiare e pubblicare una sua canzone, Cease to Exist, ribattezzata Never Learn Not to Love, inclusa nel loro album 20/20 (1969). Tuttavia, non accreditarono Manson come autore, cosa che lo fece infuriare.

                La rottura e le conseguenze

                Quando Dennis iniziò a percepire il lato oscuro e minaccioso di Manson, anche sotto consiglio di Brian, tagliò i ponti. Non lo affrontò direttamente: cambiò casa senza dirgli nulla, lasciando l’abitazione con i Manson ancora dentro. Poco dopo, Manson si allontanò dal mondo della musica e virò verso la follia e la violenza che culminò negli omicidi dell’estate 1969.

                Un’eredità musicale immortale

                Anche dopo aver lasciato i Beach Boys negli anni ’80, Wilson non smise mai di fare musica. Tornò con la band nel 2012 per l’album That’s Why God Made the Radio, e recentemente aveva partecipato al documentario The Beach Boys di Frank Marshall, su Disney+, tornando simbolicamente sulla spiaggia di Malibu dove tutto era cominciato. La sua incredibile musica rimarrà eterna: non solo per i nostalgici del surf ma per tutti coloro che sanno riconoscere l’arte quando l’arte riesce a parlare al cuore.

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