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Cronaca Nera

Andrea Tonello riabbraccia sua figlia Chantal dopo 13 anni: “Non farò nulla contro la sua volontà”

Dopo tredici anni di silenzio e ricerche disperate, Andrea Tonello ha rivisto sua figlia Chantal, scomparsa nel 2012 per mano della madre. La piccola è cresciuta isolata dal mondo, convinta che il padre fosse un pericolo. Ora, in un lento percorso di riavvicinamento, il papà promette: “Mai forzarla. Quando vorrà, conoscerà sua sorella e mangeremo un gelato insieme”.

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    “Quando mi ha visto è stata glaciale. Non ha voluto abbracciarmi, mi guardava con odio. Ma non poteva essere altrimenti”. È il racconto straziante ma lucido di Andrea Tonello, papà di Chantal, la bambina sottratta in Italia dalla madre nel novembre 2012 e tenuta nascosta per oltre tredici anni. Giovedì 12 giugno 2025, Chantal è stata ritrovata in Ungheria grazie a un’operazione congiunta delle forze dell’ordine italiane e ungheresi. Ora è affidata alla nonna materna, sotto sorveglianza, e ha finalmente potuto incontrare quel padre che le era stato raccontato come un mostro.

    Andrea parla a Fanpage.it con la voce ancora scossa da giorni che definisce “devastanti”. Lo hanno chiamato all’improvviso: “Mi hanno detto che avevano arrestato la madre e che dovevo andare a prendere mia figlia. Come se fosse un pacco”. Con l’avvocata Chiara Balbinot, che lo segue da sempre, si è messo in viaggio verso l’Ungheria. Una gomma forata ha rallentato tutto, ma alle due di notte erano lì, alla stazione di polizia di Mezotur.

    “L’hanno portata in una stanza. Era in uno stato particolare. Per 13 anni è rimasta chiusa in casa. Mai scolarizzata, ha visto solo quattro persone in tutta la sua vita”, racconta Andrea. Chantal non ha mai conosciuto altri bambini, non è mai uscita a mangiare un gelato. E soprattutto è cresciuta con un racconto spaventoso sul padre: “Le dicevano che, se fosse uscita, io l’avrei portata via per sempre. È cresciuta con il terrore di me”.

    Quando l’ha vista, Andrea ha cercato di avvicinarsi. “Appena mi muovevo di un centimetro, lei si allontanava di tre. Non voleva vedermi, ma dopo un po’ ha accettato di guardare la foto di sua sorella. È stata la prima, piccola apertura”.

    Andrea oggi ha l’affidamento esclusivo, ma ha deciso di non forzare nulla. Portarla via di peso sarebbe stata un’altra violenza. L’alternativa era una casa famiglia, ma in Ungheria molte sono fatiscenti, e lui ha scelto di accettare la soluzione meno traumatica: lasciarla alla nonna materna, monitorata da polizia, assistenti sociali e psicologi.

    Il giorno dopo l’incontro, Andrea è tornato da lei con una torta, pizzette, un libro sui cani – che lei ama – e una gift card per comprare dei vestiti. “Non ha mai visto un negozio. All’inizio non voleva accettare nulla, poi ha ceduto. Non sono gesti risolutivi, ma creano contatto. Ieri pomeriggio mi guardava con curiosità. Solo poche ore prima non voleva nemmeno vedermi”.

    Il padre sa che la strada sarà lunga e delicata. “Le ho detto che non farò mai nulla contro la sua volontà. Quando vorrà conoscere la sorella, la porterò in Ungheria. Quando sarà pronta per un gelato insieme, lo faremo. Ma dovrà essere lei a deciderlo. Ora è in uno stato psicologico difficilissimo”.

    Per mantenere il contatto, Andrea ha ottenuto un numero telefonico. “Le manderò dei messaggi, le ho detto che può leggerli e rispondere solo se ne avrà voglia. Ma le ho chiesto almeno di non bloccarmi. Non ha detto di no. Almeno adesso so che è viva, e che fisicamente sta bene”.

    Per 13 anni Andrea non ha mai smesso di cercarla. “Volevo solo sapere che stava bene. Pensavo che la madre le avesse cambiato nome, che vivesse una vita normale. E invece era chiusa in casa, completamente isolata”. Ci sono stati momenti in cui ha pensato di arrendersi. Ma non l’ha fatto: “Ho speso tutto, mi sono esposto economicamente, ho fatto ogni cosa possibile. Perché i bambini devono sapere la verità”.

    Non si è sentito sempre sostenuto. “Se escludo la mia avvocata, pochissime persone mi sono state davvero vicine. Mio padre, con la poca forza che gli era rimasta. Tanti altri hanno fatto spallucce, anche dal punto di vista politico. Si poteva fare molto di più, fin dall’inizio. Ma bisogna mettere in conto che, in certi momenti, si lotta da soli”.

    Ora che la sua battaglia ha aperto uno spiraglio, Andrea non ha alcuna intenzione di forzare il destino. Crede nel tempo, nell’ascolto e nei piccoli gesti. “Una sera ha guardato la foto di sua sorella. Domani, magari, vorrà sapere qualcosa di più. E un giorno, forse, verrà a Padova da noi. Io la aspetterò. Sempre”.

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      Cronaca Nera

      “Lo scopo dell’avvelenamento era l’aborto, non l’omicidio di Giulia Tramontano”: le motivazioni della sentenza su Impagnatiello

      Per i magistrati l’avvelenamento con topicida serviva a provocare la perdita del feto, che l’uomo considerava un ostacolo alla sua vita e alla sua carriera. Nessuna prova di un piano omicida coltivato nel tempo: il proposito di uccidere Giulia sarebbe maturato poche ore prima del delitto, dopo l’incontro tra la giovane e l’altra donna con cui il barman aveva una relazione.

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        Lo scopo dell’avvelenamento non era l’omicidio di Giulia Tramontano ma “l’aborto del feto”. Così scrive la Corte d’Assise d’Appello di Milano nelle motivazioni della sentenza che ha confermato l’ergastolo per Alessandro Impagnatiello, escludendo però la premeditazione. Secondo i giudici, l’ex barman aveva individuato nel bambino che Giulia portava in grembo “il problema” da eliminare per proteggere la sua carriera e la sua vita privata.

        Il verdetto chiarisce che “non vi sono prove” per retrodatare l’intento omicida rispetto al 27 maggio 2023, giorno in cui la giovane fu uccisa. Le 59 pagine depositate spiegano che, pur riconoscendo la crudeltà e il vincolo della convivenza, non si può parlare di un piano coltivato nel tempo. Il proposito omicida sarebbe maturato solo nel pomeriggio del delitto. Quando Impagnatiello si rese conto che Giulia e l’altra donna con cui aveva una relazione si erano incontrate, scambiandosi confidenze.

        Alle 17 l’uomo lasciò il lavoro all’Armani Hotel e rientrò in motorino a Senago. Due ore dopo, quando Giulia mise piede nell’appartamento, fu aggredita e colpita con 37 fendenti, 11 dei quali mentre era ancora viva. Un arco temporale giudicato “troppo breve” per configurare la premeditazione. Assente anche in quelle che la Corte definisce “azioni neutre”, come il rincasare e attendere la convivente.

        Per i magistrati Impagnatiello non ha ucciso la compagna perché lei voleva lasciarlo o per timore di controversie giudiziarie future. La molla, si legge, fu l’umiliazione subita quando la donna lo smascherò davanti a chi rappresentava, per lui, la sua “proiezione pubblica”: il palcoscenico del bar milanese dove lavorava. Un colpo insopportabile per il suo narcisismo.

        La sentenza conferma l’ergastolo, ma esclude la premeditazione che la sorella di Giulia, Chiara, aveva invocato pubblicamente. Resta così un verdetto che sottolinea la brutalità del gesto, ma delimita il contesto in cui maturò, senza riconoscere un piano elaborato in anticipo.

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          Cronaca Nera

          Torturato per dieci giorni e ucciso in diretta sui social: non era una messinscena, aperta un’inchiesta sugli “amici” dello streamer

          Non più intrattenimento ma violenza reale. Raphael Graven, streamer con oltre mezzo milione di follower, è morto dopo giorni di dirette estreme. I legali dei due complici parlano di “finzione”, ma le immagini mostrano strangolamenti, ingestione di sostanze tossiche e colpi violentissimi. La procura apre un’inchiesta: i primi ad essere interrogati saranno proprio i due “amici”.

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            Raphael Graven, conosciuto in rete come Jeanpormanove, non era un esibizionista qualsiasi. A 46 anni, con oltre 582mila follower su TikTok e migliaia di spettatori fissi sulle dirette, aveva costruito la sua notorietà sulle “sfide impossibili”, al limite della sopportazione fisica. Ma il gioco è finito in tragedia. Dopo più di dieci giorni di live ininterrotti sulla piattaforma Kick, lo streamer è morto in diretta, mentre veniva sottoposto a sevizie sempre più estreme da parte dei suoi due complici, noti come Naruto e Safine.

            Strangolamenti, pugni al volto, vernici gettate in testa, ingestione di sostanze tossiche: un crescendo di violenze spacciate per “contenuto estremo” che in realtà celavano sofferenza autentica. Lo dimostrano i video, che raccontano ben più di una “messinscena” come sostengono i legali dei due uomini. Per oltre dieci minuti, il corpo senza vita di Graven è rimasto esposto in diretta, sotto lo sguardo incredulo di migliaia di spettatori, prima che qualcuno interrompesse la trasmissione.

            La procura ha aperto un’inchiesta. I primi a essere interrogati saranno proprio Naruto e Safine, i due che lo hanno accompagnato nelle ultime ore e che hanno continuato a spingerlo in performance sempre più estreme. La linea difensiva punta a presentare tutto come spettacolo, ma per gli investigatori la realtà appare diversa: la sofferenza era autentica e i segni lasciati sul corpo lo confermano.

            Jeanpormanove aveva scelto Kick dopo aver abbandonato Twitch, piattaforma dai regolamenti più rigidi che già lo aveva messo nel mirino. Qui aveva trovato un terreno fertile per moltiplicare le sfide e alimentare la propria fama. Un pubblico pronto a cliccare, commentare e condividere, mentre la spirale di violenza diventava intrattenimento.

            Ora la morte dello streamer obbliga a guardare oltre lo schermo: non più “content”, ma vita reale spinta fino al limite, dove l’applauso dei follower si trasforma in complicità silenziosa.

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              La trappola del falso Matteo Bocelli: anziana pronta a versare migliaia di euro, salvata dalla direttrice delle Poste

              Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

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                Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

                Testo
                «Devo fare un bonifico a Matteo, il figlio di Andrea Bocelli». Con questa frase una donna anziana si è presentata allo sportello dell’ufficio postale di Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, convinta di star facendo un favore al giovane tenore e pronta a versare migliaia di euro. In realtà si trattava dell’ennesima truffa orchestrata da criminali che usano nomi celebri per raggirare persone fragili.

                La pensionata, come racconta il Corriere della Sera, aveva ricevuto sul cellulare un messaggio con la promessa di un regalo da parte della famiglia Bocelli. Poco dopo, un presunto autista le aveva chiesto di versare denaro su un conto per il recapito del pacco. La donna non aveva dubbi sulla veridicità della richiesta e, senza esitazione, si era recata alle Poste.

                A salvarla è stata l’intuizione della direttrice, Cristina Remondini. «La cliente chiedeva di effettuare un versamento in denaro e quando ho letto la causale mi sono subito insospettita», ha raccontato. Per guadagnare tempo e far ragionare la donna, la funzionaria ha finto un problema tecnico al terminale. Nel frattempo, ha contattato i carabinieri e avvisato il marito della signora.

                Quando l’uomo è arrivato in ufficio, la truffa è emersa in tutta la sua chiarezza. I due coniugi si sono poi recati in caserma per sporgere denuncia, mentre l’audio e i messaggi ricevuti sono stati acquisiti dagli inquirenti.

                Il meccanismo era semplice e subdolo: fingere di essere un personaggio noto, in questo caso Matteo Bocelli, e convincere la vittima a versare denaro in cambio di un regalo inesistente. Una variante del cosiddetto “pacchetto truffa” che continua a mietere vittime soprattutto tra gli anziani.

                Grazie alla prontezza della direttrice, questa volta i risparmi della donna sono stati salvati. Un intervento che conferma quanto la vigilanza quotidiana di chi lavora a contatto con il pubblico possa fare la differenza contro chi sfrutta ingenuità e buona fede.

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