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Cronaca Nera

Delitto di Garlasco, il tribunale concede la semilibertà a Stasi: passerà parte della giornata fuori dal carcere

Nessuna violazione, secondo i giudici, nell’intervista concessa da Stasi alle Iene. La sua condotta è stata valutata “corretta e responsabile”. Per la Procura, invece, l’episodio meritava un approfondimento. Ma ora l’ex studente della Bocconi potrà lasciare il carcere di giorno, con base presso lo zio e contratto da contabile.

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    Un nome che ancora oggi divide l’opinione pubblica, a quasi vent’anni da uno dei delitti più discussi e mediatici del nostro Paese. Alberto Stasi, condannato in via definitiva nel 2015 per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, potrà uscire dal carcere di giorno. A stabilirlo sono stati i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Milano, che hanno accolto la richiesta di semilibertà avanzata dai legali dell’uomo lo scorso dicembre.

    Parte della giornata fuori da Bollate

    La misura consente all’ex studente della Bocconi, oggi 41enne, di trascorrere parte della giornata fuori da Bollate, non solo per motivi di lavoro ma anche per partecipare ad attività di reinserimento sociale. La sera, però, dovrà fare rientro in carcere. Una decisione che arriva dopo una lunga valutazione del suo percorso detentivo, ritenuto “connotato da correttezza, serietà e rispetto delle regole”, come riportato nel dispositivo firmato dalle giudici Federica Gentile e Maria Paola Caffarena, affiancate da due esperti.

    Appoggio abitativo presso lo zio

    Il provvedimento autorizza il “proseguimento dell’attività lavorativa già in corso”, un impiego da contabile amministrativo con contratto a tempo indeterminato, e consente che Stasi abbia appoggio abitativo presso lo zio, durante le ore in cui sarà fuori dal penitenziario.

    Opposizione della Procura

    Un percorso che ha però incontrato la netta opposizione della Procura generale di Milano, che aveva chiesto ai giudici di rigettare la richiesta o quantomeno rinviare la decisione, per poter approfondire un passaggio ritenuto significativo: l’intervista rilasciata da Stasi alla trasmissione Le Iene. Un’apparizione televisiva, secondo i magistrati, che sarebbe avvenuta senza autorizzazione. Una violazione, quindi, delle prescrizioni previste per chi usufruisce di benefici penitenziari.

    La ricostruzione della difesa

    Diversa la ricostruzione della difesa, che ha spiegato come l’intervista sia avvenuta durante un permesso premio regolarmente concesso. La tesi è stata accolta dal Tribunale di Sorveglianza, che non solo non ha ravvisato alcuna infrazione formale, ma ha anche giudicato “pacato e rispettoso” il contenuto dell’intervento televisivo. “Il comportamento, valutato all’interno di un percorso penitenziario rigoroso e privo di criticità – scrivono i giudici – non è idoneo a compromettere gli esiti della relazione di osservazione”.

    Aveva già avuto permessi premio

    Non è il primo beneficio penitenziario che viene concesso a Stasi, che negli anni ha già usufruito di permessi premio e lavoro esterno, sempre – secondo il carcere di Bollate – con profitto e nel rispetto delle regole. Gli educatori e il personale dell’istituto lo descrivono come affidabile, partecipe e responsabile, e i giudici ne hanno tenuto conto nel disporre la nuova misura, che rappresenta un ulteriore passo verso la futura scarcerazione.

    Ma al di là degli aspetti tecnici e del linguaggio giuridico, resta la memoria di quel 13 agosto 2007, quando il corpo di Chiara Poggi fu ritrovato senza vita nella villetta di famiglia a Garlasco, e il nome di Alberto Stasi entrò per sempre nella cronaca giudiziaria italiana. Un caso lungo, tormentato, fatto di assoluzioni iniziali e ribaltamenti in appello, che si è chiuso con la condanna definitiva a 16 anni di reclusione per omicidio volontario, nonostante Stasi abbia sempre professato la propria innocenza.

    Ora, dopo oltre otto anni dietro le sbarre, l’uomo può tornare a vivere alcune ore fuori dal carcere, muovendosi in un regime controllato ma meno restrittivo. Un passaggio che non cancella la condanna né attenua il peso di quella vicenda, ma che segna una nuova fase. Per i giudici, si tratta di una misura compatibile con il principio rieducativo della pena. Per altri, invece, è solo l’ennesima ferita che il sistema infligge alla memoria di Chiara.

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      Cronaca Nera

      Torturato per dieci giorni e ucciso in diretta sui social: non era una messinscena, aperta un’inchiesta sugli “amici” dello streamer

      Non più intrattenimento ma violenza reale. Raphael Graven, streamer con oltre mezzo milione di follower, è morto dopo giorni di dirette estreme. I legali dei due complici parlano di “finzione”, ma le immagini mostrano strangolamenti, ingestione di sostanze tossiche e colpi violentissimi. La procura apre un’inchiesta: i primi ad essere interrogati saranno proprio i due “amici”.

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        Raphael Graven, conosciuto in rete come Jeanpormanove, non era un esibizionista qualsiasi. A 46 anni, con oltre 582mila follower su TikTok e migliaia di spettatori fissi sulle dirette, aveva costruito la sua notorietà sulle “sfide impossibili”, al limite della sopportazione fisica. Ma il gioco è finito in tragedia. Dopo più di dieci giorni di live ininterrotti sulla piattaforma Kick, lo streamer è morto in diretta, mentre veniva sottoposto a sevizie sempre più estreme da parte dei suoi due complici, noti come Naruto e Safine.

        Strangolamenti, pugni al volto, vernici gettate in testa, ingestione di sostanze tossiche: un crescendo di violenze spacciate per “contenuto estremo” che in realtà celavano sofferenza autentica. Lo dimostrano i video, che raccontano ben più di una “messinscena” come sostengono i legali dei due uomini. Per oltre dieci minuti, il corpo senza vita di Graven è rimasto esposto in diretta, sotto lo sguardo incredulo di migliaia di spettatori, prima che qualcuno interrompesse la trasmissione.

        La procura ha aperto un’inchiesta. I primi a essere interrogati saranno proprio Naruto e Safine, i due che lo hanno accompagnato nelle ultime ore e che hanno continuato a spingerlo in performance sempre più estreme. La linea difensiva punta a presentare tutto come spettacolo, ma per gli investigatori la realtà appare diversa: la sofferenza era autentica e i segni lasciati sul corpo lo confermano.

        Jeanpormanove aveva scelto Kick dopo aver abbandonato Twitch, piattaforma dai regolamenti più rigidi che già lo aveva messo nel mirino. Qui aveva trovato un terreno fertile per moltiplicare le sfide e alimentare la propria fama. Un pubblico pronto a cliccare, commentare e condividere, mentre la spirale di violenza diventava intrattenimento.

        Ora la morte dello streamer obbliga a guardare oltre lo schermo: non più “content”, ma vita reale spinta fino al limite, dove l’applauso dei follower si trasforma in complicità silenziosa.

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          Cronaca Nera

          La trappola del falso Matteo Bocelli: anziana pronta a versare migliaia di euro, salvata dalla direttrice delle Poste

          Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

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            Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

            Testo
            «Devo fare un bonifico a Matteo, il figlio di Andrea Bocelli». Con questa frase una donna anziana si è presentata allo sportello dell’ufficio postale di Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, convinta di star facendo un favore al giovane tenore e pronta a versare migliaia di euro. In realtà si trattava dell’ennesima truffa orchestrata da criminali che usano nomi celebri per raggirare persone fragili.

            La pensionata, come racconta il Corriere della Sera, aveva ricevuto sul cellulare un messaggio con la promessa di un regalo da parte della famiglia Bocelli. Poco dopo, un presunto autista le aveva chiesto di versare denaro su un conto per il recapito del pacco. La donna non aveva dubbi sulla veridicità della richiesta e, senza esitazione, si era recata alle Poste.

            A salvarla è stata l’intuizione della direttrice, Cristina Remondini. «La cliente chiedeva di effettuare un versamento in denaro e quando ho letto la causale mi sono subito insospettita», ha raccontato. Per guadagnare tempo e far ragionare la donna, la funzionaria ha finto un problema tecnico al terminale. Nel frattempo, ha contattato i carabinieri e avvisato il marito della signora.

            Quando l’uomo è arrivato in ufficio, la truffa è emersa in tutta la sua chiarezza. I due coniugi si sono poi recati in caserma per sporgere denuncia, mentre l’audio e i messaggi ricevuti sono stati acquisiti dagli inquirenti.

            Il meccanismo era semplice e subdolo: fingere di essere un personaggio noto, in questo caso Matteo Bocelli, e convincere la vittima a versare denaro in cambio di un regalo inesistente. Una variante del cosiddetto “pacchetto truffa” che continua a mietere vittime soprattutto tra gli anziani.

            Grazie alla prontezza della direttrice, questa volta i risparmi della donna sono stati salvati. Un intervento che conferma quanto la vigilanza quotidiana di chi lavora a contatto con il pubblico possa fare la differenza contro chi sfrutta ingenuità e buona fede.

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              Garlasco, parla il giudice che assolse Stasi: “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

              Stefano Vitelli, oggi giudice del Riesame a Torino, racconta il primo processo a Stasi nel 2009: “C’era qualcosa che non tornava, ma mancava la prova definitiva. E soprattutto mancava un movente”

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                Un’indagine complessa, una storia giudiziaria che si trascina da oltre 16 anni, un caso che continua a dividere. Oggi, mentre un nuovo nome è tornato nel registro degli indagati per l’omicidio di Chiara Poggi, a parlare è Stefano Vitelli, il magistrato che nel 2009 assolse Alberto Stasi in primo grado. All’epoca giudice per le udienze preliminari a Vigevano, oggi in forza al tribunale del Riesame di Torino, Vitelli ricorda perfettamente il processo abbreviato che lo portò a quella decisione. E lo fa con una lucidità che getta ancora più ombre sulla ricostruzione del delitto.

                “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

                “Il ragionevole dubbio è essenziale per noi magistrati e per l’opinione pubblica”, dice Vitelli. Un principio che fu il cardine della sua sentenza di assoluzione. “Non voglio giudicare le inchieste successive, non ne conosco gli atti, ma quando processai Stasi, più si andava avanti e più aumentavano le domande senza risposta”.

                Uno degli elementi chiave fu la perizia informatica: “Era una sera d’estate, me lo ricordo ancora. L’ingegnere mi chiamò e mi disse: ‘Dottore, è sul divano? Ci resti. Stasi stava lavorando al computer, sulla sua tesi’”. Un dettaglio che spiazzò gli inquirenti: il ragazzo, secondo l’accusa, avrebbe dovuto inscenare la sua attività online per crearsi un alibi, e invece risultò che stava effettivamente correggendo passaggi del suo lavoro con concentrazione e coerenza.

                “C’era qualcosa che non tornava,” spiega Vitelli. “Si parlava di scarpe pulite, eppure i test dimostrarono che a volte si sporcavano, altre no. La bicicletta? Una testimone ne descriveva una diversa. Nessuna traccia di sangue nel lavabo. Ogni elemento che avrebbe dovuto rafforzare la tesi dell’accusa, finiva per renderla più fragile”.

                Un puzzle senza pezzi combacianti

                Vitelli non nasconde che, in quella fase processuale, c’erano aspetti che lo lasciavano perplesso. “Gli indizi erano tanti, ma contraddittori e insufficienti. Abbiamo interrogato i vicini: nessuno ha sentito rumori, nessuno ha visto movimenti strani. Stasi, poi, avrebbe dovuto compiere un delitto così brutale e subito dopo mettersi a lavorare alla tesi in modo lucido? Anche il dettaglio del dispenser del sapone faceva riflettere: aveva mangiato la pizza la sera prima, lavarsi le mani era un gesto normale”.

                E poi c’era il movente. O meglio, la sua assenza. “Nei casi incerti, il movente diventa un elemento decisivo per chiudere il cerchio. Qui, un movente non c’era”.

                E Andrea Sempio?

                L’altro nome che emerge dalle carte è Andrea Sempio, oggi formalmente indagato dopo anni di voci e supposizioni. Vitelli ricorda solo un dettaglio della sua testimonianza: “Un alibi basato su uno scontrino conservato. Mi sembrò curioso”.

                Quanto all’impatto mediatico del caso, il magistrato ha sempre cercato di restarne fuori: “Ho chiuso la porta a giornalisti, pm, avvocati. Di un processo si parla solo nelle aule di giustizia. L’unica cosa che mi dava fastidio era sentire dire che ero ‘pro’ o ‘contro’. Il nostro lavoro deve essere laico”.

                Sedici anni dopo, i dubbi restano

                Vitelli ha riletto la sua sentenza proprio in questi giorni, su richiesta della rivista Giurisprudenza penale. E la sua opinione non è cambiata: “Con gli elementi che avevo, l’assoluzione di Stasi era sacrosanta”.

                Oggi, il caso Garlasco è di nuovo sotto i riflettori. Ma le stesse domande che Vitelli si pose nel 2009 rimangono senza risposta. Chi ha ucciso Chiara Poggi? E soprattutto: c’è davvero una verità che metterà fine a questa storia?

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