Cronaca Nera
Filippo Turetta: gli appunti segreti sul telefono svelano chi era davvero. “Cose carine per Giulia” per il 2023
Tra propositi di cambiamento e pensieri ossessivi, ecco cosa emerge dagli screen del suo telefono. Il diario segreto digitale di Filippo Turetta: appunti metodici e propositi per Giulia Cecchettin

Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchettin, non solo ha lasciato dietro di sé una scia di orrore, ma anche un vero e proprio “diario segreto” digitale. Annotazioni metodiche, divise in sezioni ordinate, che rivelano molto su chi fosse realmente. Grazie alle informazioni trasmesse in esclusiva da Pomeriggio Cinque, emerge un ritratto inquietante dell’uomo, attraverso le schermate del suo telefono.
Tra le righe si trovano i “buoni propositi 2023” scritti da Turetta, che includono: “Aiutare Giulia a migliorare il profilo, allenarsi con costanza, andare a un concerto, apprezzare la vita.” A colpire è la metodicità con cui catalogava ogni pensiero, emozione e strategia, come se fosse in cerca di un riscatto o di un ordine nella sua vita personale e relazionale.
I pensieri ossessivi verso Giulia Cecchettin
Tra le note, emerge chiaramente un’ossessione per Giulia, la giovane vittima. Turetta elencava dettagliatamente “cose carine per lei”, come se si trattasse di un piano per riconquistarla o per mantenerla legata a sé. Annotava gesti quotidiani: “Mandarle un post al giorno su Instagram. Portarla a prendere le frittelle a mensa. Regalarle delle mimose il giorno della Festa della Donna.” Questo elenco preciso mostra un desiderio di controllo e di pianificazione maniacale, riflettendo una visione distorta e possessiva della relazione.
Le note sui suoi fallimenti e le insicurezze
Accanto ai propositi romantici, Turetta teneva un’altra cartella intitolata “Cose che non vanno”, un vero e proprio inventario di tutto ciò che lo tormentava: “Non mi ha mandato un messaggio affettuoso dopo la buonanotte. Non mi ha invitato alla festa di compleanno di Elena. Non mi include nella sua vita lasciandomi sempre solo.”
Queste annotazioni riflettono una forte insicurezza e un senso di abbandono, che si traducevano in una crescente frustrazione. Turetta non si limitava a riflettere sui suoi errori: creava veri e propri piani per migliorarsi, includendo appunti su come affrontare le sue debolezze: “Non litigare perché peggiora solo le cose. Ridurre l’over thinking.”
L’autocritica feroce e l’ossessione per il cambiamento
Il telefono di Turetta custodiva anche elenchi di propositi personali che riflettevano la sua costante autocritica: “Smettere di sentirmi in colpa. Ridurre la procrastinazione. Essere sempre produttivo.” Alcuni dei punti annotati riguardano la sua routine quotidiana, mostrando la sua ossessione per il controllo: “Spalmare creme viso e mani giornalmente. Caricare più post e storie.”
Non mancano riferimenti alla sua insicurezza fisica, con commenti duri come: “Ho i piedi piatti, ho i denti storti, sono povero e non sono bello.”
I pensieri finali: ansia e pentimento
Turetta mostrava un lato vulnerabile e angosciato anche nelle note che riguardavano il suo stato mentale: “Non ce la faccio, non ho voglia e non riesco a fare niente.” Altri appunti rivelano una lotta interiore tra il desiderio di migliorarsi e il senso di inadeguatezza che lo perseguitava: “Mi inc** e dico cattiverie e poi mi pento e ci sto male.”*
Le sue parole dipingono il ritratto di una persona alla deriva, incapace di gestire le proprie emozioni e relazioni, intrappolato in un ciclo di autocommiserazione e pentimento.
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Cronaca Nera
“Lo scopo dell’avvelenamento era l’aborto, non l’omicidio di Giulia Tramontano”: le motivazioni della sentenza su Impagnatiello
Per i magistrati l’avvelenamento con topicida serviva a provocare la perdita del feto, che l’uomo considerava un ostacolo alla sua vita e alla sua carriera. Nessuna prova di un piano omicida coltivato nel tempo: il proposito di uccidere Giulia sarebbe maturato poche ore prima del delitto, dopo l’incontro tra la giovane e l’altra donna con cui il barman aveva una relazione.

Lo scopo dell’avvelenamento non era l’omicidio di Giulia Tramontano ma “l’aborto del feto”. Così scrive la Corte d’Assise d’Appello di Milano nelle motivazioni della sentenza che ha confermato l’ergastolo per Alessandro Impagnatiello, escludendo però la premeditazione. Secondo i giudici, l’ex barman aveva individuato nel bambino che Giulia portava in grembo “il problema” da eliminare per proteggere la sua carriera e la sua vita privata.
Il verdetto chiarisce che “non vi sono prove” per retrodatare l’intento omicida rispetto al 27 maggio 2023, giorno in cui la giovane fu uccisa. Le 59 pagine depositate spiegano che, pur riconoscendo la crudeltà e il vincolo della convivenza, non si può parlare di un piano coltivato nel tempo. Il proposito omicida sarebbe maturato solo nel pomeriggio del delitto. Quando Impagnatiello si rese conto che Giulia e l’altra donna con cui aveva una relazione si erano incontrate, scambiandosi confidenze.
Alle 17 l’uomo lasciò il lavoro all’Armani Hotel e rientrò in motorino a Senago. Due ore dopo, quando Giulia mise piede nell’appartamento, fu aggredita e colpita con 37 fendenti, 11 dei quali mentre era ancora viva. Un arco temporale giudicato “troppo breve” per configurare la premeditazione. Assente anche in quelle che la Corte definisce “azioni neutre”, come il rincasare e attendere la convivente.
Per i magistrati Impagnatiello non ha ucciso la compagna perché lei voleva lasciarlo o per timore di controversie giudiziarie future. La molla, si legge, fu l’umiliazione subita quando la donna lo smascherò davanti a chi rappresentava, per lui, la sua “proiezione pubblica”: il palcoscenico del bar milanese dove lavorava. Un colpo insopportabile per il suo narcisismo.
La sentenza conferma l’ergastolo, ma esclude la premeditazione che la sorella di Giulia, Chiara, aveva invocato pubblicamente. Resta così un verdetto che sottolinea la brutalità del gesto, ma delimita il contesto in cui maturò, senza riconoscere un piano elaborato in anticipo.
Cronaca Nera
Torturato per dieci giorni e ucciso in diretta sui social: non era una messinscena, aperta un’inchiesta sugli “amici” dello streamer
Non più intrattenimento ma violenza reale. Raphael Graven, streamer con oltre mezzo milione di follower, è morto dopo giorni di dirette estreme. I legali dei due complici parlano di “finzione”, ma le immagini mostrano strangolamenti, ingestione di sostanze tossiche e colpi violentissimi. La procura apre un’inchiesta: i primi ad essere interrogati saranno proprio i due “amici”.

Raphael Graven, conosciuto in rete come Jeanpormanove, non era un esibizionista qualsiasi. A 46 anni, con oltre 582mila follower su TikTok e migliaia di spettatori fissi sulle dirette, aveva costruito la sua notorietà sulle “sfide impossibili”, al limite della sopportazione fisica. Ma il gioco è finito in tragedia. Dopo più di dieci giorni di live ininterrotti sulla piattaforma Kick, lo streamer è morto in diretta, mentre veniva sottoposto a sevizie sempre più estreme da parte dei suoi due complici, noti come Naruto e Safine.
Strangolamenti, pugni al volto, vernici gettate in testa, ingestione di sostanze tossiche: un crescendo di violenze spacciate per “contenuto estremo” che in realtà celavano sofferenza autentica. Lo dimostrano i video, che raccontano ben più di una “messinscena” come sostengono i legali dei due uomini. Per oltre dieci minuti, il corpo senza vita di Graven è rimasto esposto in diretta, sotto lo sguardo incredulo di migliaia di spettatori, prima che qualcuno interrompesse la trasmissione.
La procura ha aperto un’inchiesta. I primi a essere interrogati saranno proprio Naruto e Safine, i due che lo hanno accompagnato nelle ultime ore e che hanno continuato a spingerlo in performance sempre più estreme. La linea difensiva punta a presentare tutto come spettacolo, ma per gli investigatori la realtà appare diversa: la sofferenza era autentica e i segni lasciati sul corpo lo confermano.
Jeanpormanove aveva scelto Kick dopo aver abbandonato Twitch, piattaforma dai regolamenti più rigidi che già lo aveva messo nel mirino. Qui aveva trovato un terreno fertile per moltiplicare le sfide e alimentare la propria fama. Un pubblico pronto a cliccare, commentare e condividere, mentre la spirale di violenza diventava intrattenimento.
Ora la morte dello streamer obbliga a guardare oltre lo schermo: non più “content”, ma vita reale spinta fino al limite, dove l’applauso dei follower si trasforma in complicità silenziosa.
Cronaca Nera
La trappola del falso Matteo Bocelli: anziana pronta a versare migliaia di euro, salvata dalla direttrice delle Poste
Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.
Testo
«Devo fare un bonifico a Matteo, il figlio di Andrea Bocelli». Con questa frase una donna anziana si è presentata allo sportello dell’ufficio postale di Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, convinta di star facendo un favore al giovane tenore e pronta a versare migliaia di euro. In realtà si trattava dell’ennesima truffa orchestrata da criminali che usano nomi celebri per raggirare persone fragili.
La pensionata, come racconta il Corriere della Sera, aveva ricevuto sul cellulare un messaggio con la promessa di un regalo da parte della famiglia Bocelli. Poco dopo, un presunto autista le aveva chiesto di versare denaro su un conto per il recapito del pacco. La donna non aveva dubbi sulla veridicità della richiesta e, senza esitazione, si era recata alle Poste.
A salvarla è stata l’intuizione della direttrice, Cristina Remondini. «La cliente chiedeva di effettuare un versamento in denaro e quando ho letto la causale mi sono subito insospettita», ha raccontato. Per guadagnare tempo e far ragionare la donna, la funzionaria ha finto un problema tecnico al terminale. Nel frattempo, ha contattato i carabinieri e avvisato il marito della signora.
Quando l’uomo è arrivato in ufficio, la truffa è emersa in tutta la sua chiarezza. I due coniugi si sono poi recati in caserma per sporgere denuncia, mentre l’audio e i messaggi ricevuti sono stati acquisiti dagli inquirenti.
Il meccanismo era semplice e subdolo: fingere di essere un personaggio noto, in questo caso Matteo Bocelli, e convincere la vittima a versare denaro in cambio di un regalo inesistente. Una variante del cosiddetto “pacchetto truffa” che continua a mietere vittime soprattutto tra gli anziani.
Grazie alla prontezza della direttrice, questa volta i risparmi della donna sono stati salvati. Un intervento che conferma quanto la vigilanza quotidiana di chi lavora a contatto con il pubblico possa fare la differenza contro chi sfrutta ingenuità e buona fede.
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